Massimario delle sentenze della Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano
Causa N. 45/1995 - 3 ottobre 1995 - 26 febbraio 1996, S.E. Pompedda Pres., Prosperetti Rel.*
Mansioni analoghe ed assimilabili - Diversità di contenuto - Diverso intuitu fiduciae.
Mansioni di fatto - Mancanza assunzione di status.
Scopo lavoro sub umbra Petri - Sinallagmaticità commerciale - Insussistenza - Mancanza di arricchimento del datore di lavoro. Equa applicatione principi giustizia - Corresponsione retribuzione alla mansione effettivamente svolta.
Retribuzione relativa alle mansioni superiori - Non pensionabilità - Regolamento del Fondo Pensioni dell'8.9.92.
Retribuzione non pensionabile - Liquidazione - Irrilevanza - Art. 2 Norme per la liquidazione del trattamento di quiescenza, Motu Proprio del 20.2.1972.
Rivalutazione crediti - Interessi moratori - Valutazione di specie.
Mansioni che, per il loro contenuto materiale, risultino del tutto analoghe o assimilabili possono, però, presentare rilevanti differenze di contenuto ove si abbia riguardo alle responsabilità connesse al loro espletamento e al diverso intuitu fiduciae che le caratterizza.
Nessuno status può essere attribuito al dipendente in ragione dell'esercizio di mansioni di fatto, nella logica di un rapporto regolato da una peculiare regolamentazione pubblicistica quale è il Regolamento generale per il personale di ruolo dipendente dello Stato della Città del Vaticano.
Il particolare statuto del lavoro sub umbra Petri non presuppone una sinallagmaticità commerciale (cfr. sentenza corte Appello n. 45/1995 essendo esclusa, sia per la Sede Apostolica che per lo Stato Città del Vaticano, la rilevanza di un patrimonio, come è per l'impresa, finalizzato all'arricchimento di chi lo gestisce. Senonché, anche in assenza di una norma di diritto positivo, un'equa applicazione dei principi di giustizia comporta che la retribuzione deve costantemente corrispondere alle mansioni effettivamente svolte, dovendosi tener conto anche dell'utilità che l'amministrazione ha ricavato da una prestazione di lavoro più qualificata rispetto a quella convenuta.
La maggiorazione di stipendio, conseguente allo svolgimento di mansioni superiori, non è assoggettabile a contribuzione e non è utile per il calcolo dell'ammontare della pensione, prevedendo il Regolamento del Fondo Pensioni dell'8.9.1992 (art. 8 e art. 11) che quest'ultimo sia calcolato esclusivamente sull'ASI e sull'ultima retribuzione mensile costituita dallo stipendio base, come da livello, dagli scatti biennali, nonché dalla eventuale indennità fissa per responsabilità dirigenziale.
La non pensionabilità delle differenze retributive spettanti per l'esercizio di mansioni superiori, comporta anche che di esse non si debba tener conto per il trattamento di quiescenza, prevedendo l'art. 2 delle Norme che lo regolano (Motu Proprio 20.2.1972), che sia calcolato sulla base dello stipendio mensile pensionabile per ogni anno di servizio.
Poiché le differenze di retribuzione per svolgimento di mansioni superiori spettano in ragione dell'utilità conseguente allo svolgimento di mansioni non contrattualmente previste, il relativo credito sarebbe di valore. Senonché, la domanda di una specifica retribuzione, specificando l'oggetto del credito mediante il formale riferimento ad un importo pecuniario, lo trasforma in credito di valuta. Il danno derivante dalla perdita di valore della moneta è ragionevolmente risarcito con gli interessi moratori.
[Dep. 26 febbraio 1996]
* Cfr. decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato ULSA n. 3/95
Causa N. 47/1995 - 4 dicembre 1995 - 6 marzo 1996, S.E. Pompedda Pres. ed Est.
Norma di altro ordinamento - Inquadramento nell'ambito dell'ordinamento Vaticano.
Sentenza di patteggiamento - Inclusività art. 91 e) Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo SCV del 1° luglio 1969 LII omologo all'art. 60 h) del Regolamento Generale per il personale dello Stato della Città del Vaticano del 3 maggio 1995 - Legittimità licenziamento nel caso di specie.
Vincolo fiduciario - Permanenza - Ratio prevalente art. 91 e). Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo Stato della Città del Vaticano del 1° luglio 1969 LII.
Sentenze di condanna di altri ordinamenti - Non automaticità di adeguamento in caso di norma contraria alla dignità dell'uomo e alle sue libertà fondamentali.
La legge propria ad altro ordinamento, ove richiamata dall'ordinamento vaticano, deve essere applicata sul rispetto della ratio che presiede al richiamo, con conseguente irrilevanza dell'interpretazione che ad essa viene data nell'ordinamento di origine.
La sentenza di patteggiamento (art. 444 c.p.p. italiano in vigore con decreto del 22 settembre 1988) va equiparata ad una sentenza di condanna penale passata in giudicato, agli effetti dell'art. 91 e) del Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo Stato della Città del Vaticano del 1° luglio 1969 LII. Ciò sia per la classificazione delle sentenze in materia penale che l'ordinamento vaticano stabiliva al momento in cui fu emanato quel Regolamento, sia perchè la sentenza di patteggiamento implica l'ammissione della responsabilità da parte dell'imputato e comporta l'applicazione definitiva di una pena (cfr. a riprova l'art. 60 h) del Regolamento Generale per il personale dello Stato della Città del Vaticano del 3 maggio 1995 a mente del quale « il licenziamento è inflitto per sentenza penale passata in giudicato o per sentenza definitiva a seguito di procedimento per l'applicazione di pena su richiesta delle parti, emessa da qualsiasi Autorità civile o ecclesiastica, che rendano il dipendente indegno o immeritevole di prestare servizio allo Stato della Città del Vaticano »).
La questione di sapere se la condanna penale conseguente alla procedura di patteggiamenio possa o no essere ricompresa nella nozione di « qualsiasi condanna penale passata in giudicato » è, comunque, secondaria rispetto alla questione della permanenza del vincolo fiduciario (art. 91 e) del Regolamento per il personale di ruolo dipendente dallo Stato della Città del Vaticano del 1° luglio 1969 LII). Infatti la ratio dell'art. 91 e) è essenzialmente quella di evitare che chi ha commesso particolari reati presti servizio in funzioni incompatibili, sul piano della fiducia oggettiva, con le relative responsabilità di lavoro.
Nel caso di specie il ricorrente era stato tratto dinanzi al giudice penale italiano per falso, truffa, appropriazione indebita e, quindi, per reati che sono indubbiamente tali da determinare - se provati e riconosciuti con sentenza - indegnità e immeritevoezza di fiducia nei confronti di chi, come il ricorrente, deve custodire tesori d'arte e di cultura.
Nel territorio dello Stato della Città del Vaticano, nel quale prestano la loro opera persone provenienti da tutti i paesi del mondo, non avrebbe senso l'automatico riferimento, a fini disciplinari, alle sentenze di condanna di ordinamenti estremamente diversi e non tutti ugualmente affidabili sul piano della considerazione dei reati e delle garanzie processuali. Una sentenza penale di condanna emessa in applicazione di una legge di altro ordinamento che risulta iniqua perché contraria alla dignità dell'uomo e alle sue libertà fondamentali, non può determinare indegnità e immeritevolezza ai fini dell'ordinamento vaticano.
[Dep. 26 febbraio 1996]
* Cfr. decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato ULSA n. 11/95
Causa N. 46/1995 - 4 dicembre 1995 - 19 aprile 1996, S.E. Pompedda Pres., Bruno Est.*
Ricorso alla Corte di Appello dello Stato della Città del Vaticano - Motivi.
Ricorso - Tempestività - Condizioni.
Magistero Pontificio - Ambito.
Art. 3 delle « Disposizioni comuni » Segreteria di Stato n. 163.127/A del 14 dicembre 1985 - Mansioni inferiori - Inapplicabilità.
Mansioni inferiori - Mancata individuazione diritto leso.
Acquisizione grado o promozione - Limiti.
Dignità dipendente - Esigenze dell'Amministrazione - Ambito reformatio in pejus.
ll ricorso per legittimità non corrisponde al ricorso in appello e, quindi, non può essere proposto per il riesame del merito. Ne consegue che, salvo quanto disposto dall'art. 12 § 3 dello Statuto ULSA (a mente del quale « in caso di accoglimento del ricorso, la corte decide con unica sentenza anche sul merito ») ricorso per legittimità può essere proposto esclusivamente per due motivi: per mancata osservanza di norme procedurali essenziali e per violazione (cfr. art. 371 § 1 c.p.c.v.) o falsa applicazione (cfr. 375 § 2 c.p.c.v.) di legge, disposizioni e regolamenti vigenti circa la materia di competenza, non essendo prevista possibilità di ricorso per tutti gli altri eventuali vizi che, ai sensi dell'art. 373 del c.p.c.v., legittimerebbero il ricorso per Cassazione.
Nonostante il tempo trascorso dall'assegnazione di mansioni inferiori, è tempestivo il ricorso contro il provvedimento di silenzio rigetto formatosi sulla richiesta di attribuzione delle mansioni proprie del livello funzionale di appartenenza, quando questa sia stata formulata nel momento in cui v'è fondato motivo per ritenere definitiva quell'assegnazione.
L'insegnamento del Magistero Pontificio in materia sociale influisce sulla disciplina del lavoro costituendo strumento per l'interpretazione e l'integrazione di leggi incomplete o di dubbio significato. In assenza, però, di uno specifico intervento legislativo quell'insegnamento non è idoneo a costituire norma giuridica vincolante.
L'art. 3 delle « Disposizioni comuni » dettate dal Cardinale Segretario di Stato nel 1985 che recita: « Qualora l'esercizio delle funzioni o mansioni superiori svolte si sia protratto ininterrottamente per almeno due anni, si prescinde dal possesso del titolo di studio per l'inquadramento in livelli funzionali superiori a quelli di appartenenza, a condizione della specifica e favorevole valutazione sulla capacità professionale, il merito e il rendimento riconosciuti dai direttori responsabili » (Segreteria di Stato n. 163.127A del 14 dicembre 1985), non è applicabile al caso inverso, e cioè all'assegnazione di mansioni inferiori a quelle del livello di appartenenza poiché latius quam praemissae patet. Pertanto, il Collegio di Conciliazione e Arbitrato è incorso in quella ipotesi di violazione di legge che, ai sensi dell'art. 375 § 1 del c.p.c.v., consiste nel ritenere esistente una legge, la quale invece non esiste.
Mentre, infatti, è dovere di giustizia corrispondere al dipendente una retribuzione rapportata alle mansioni effettivamente svolte, non v'è lesione di diritto quando vengano attribuite al dipendente mansioni inferiori (soprattutto quando questo è richiesto, o giustificato, o comunque ritenuto necessario per insindacabile discrezionalità dell'Amministrazione) conservandogli l'originario inquadramento funzionale e la corrispondente retribuzione.
Nell'Ordinamento vaticano vigente, l'acquisizione di un determinato grado, sia esso di promozione sia esso iniziale, consegue a meno che il Regolamento non preveda diversamente, esclusivamente ad un provvedimento di nomina.
Il divieto della reformatio in peius o la previsione di limiti legali nell'utilizzazione dei dipendenti, già presenti nella normativa italiana dal 1970 non sono recepiti nella vigente legislazione vaticana in quanto è stato ritenuto limiterebbero irrazionalmente i poteri delle Amministrazioni. Le esigenze di queste ultime, infatti, hanno prevalenza su quelle dei dipendenti e non esiste nessuna norma che consenta di porre in una posizione privilegiata questi ultimi, se non la disposizione che consente di mantenere il trattamento retributivo corrispondente al livello di inquadramento. Ciò non esclude che il rispetto della dignità umana dei dipendenti deve trovare applicazione in tutti i rapporti, compresi quelli di lavoro, in relazione ai quali deve essere applicata ed esercitata la giustizia anche distributiva, come solennemente affermato nell'Enciclica « Laborem Exercens » (nel caso di specie, deve ritenersi che l'Amministrazione, con il provvedimento silenzio-rigetto, ha inteso mantenere in atto, per sue particolari esigenze, la temporaneità del provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori).
[Dep. 24 febbraio 1996]
* Cfr. decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato ULSA n. 9/95.
Causa N. 50/1996 - 14 novembre 1996 - 13 dicembre 1996, S.E. Pompedda Pres., Giacobbe Est.*
Art. 2 Statuto ULSA - Competenza - Prova del presupposto oggettivo.
Art. 2.3 Statuto ULSA - Certificazione Segreteria di Stato - Insindacabilità - Competenza esclusiva.
Nozione di controversia Art. 2. 3 Statuto ULSA.
Competenza ULSA - Regime di determinazione - Elementi indiziari Esclusione.
Rapporto di lavoro atipico - Incompetenza ULSA ex Art 2. 2 Statuto ULSA.
Perpetuatio Jurisdictionis - Ambito di operatività.
Ai fini della determinazione della competenza, ex art. 2 dello Statuto ULSA, è necessario venga accertata la ricorrenza del presupposto oggettivo, costituito dalla titolarità di un rapporto di lavoro diretto con la Sede Apostolica.
La decisione impugnata va confermata nella parte in cui ha ribadito l'esclusiva competenza del Cardinale Segretario di Stato, in materia di certificazione della natura dell'ente, e, conseguentemente, ha affermato la insindacabilità di tale certificazione, ove ritualmente acquisita agli atti del procedimento (art. 2. 3 Statuto ULSA e art. 14 delle Norme di attuazione degli artt. 10 e 11 dello Statuto ULSA).
La nozione di controversia di cui all'art. 2.3 dello Statuto ULSA deve essere individuata sulla base del comune significato del termine che identifica il rapporto contenzioso tra due parti, nella fattispecie tra il dipendente e l'ente (cfr. art. 14 delle norme di attuazione degli artt. 10 e 11 dello Statuto ULSA).
La competenza dell'ULSA è soggetta ad uno specifico e rigoroso regime di determinazione onde è escluso possa essere determinata sulla base di elementi indiziari.
L'esistenza di un rapporto di lavoro atipico, sottratto alla competenza dell'ULSA (comma 2 dell' Art. 2 dello Statuto) deve essere affermata a prescindere dalla qualificazione da dare all'Ente datore di lavoro - qualora dall'esame della documentazione e dalle affermazioni del ricorrente risulti che il rapporto oggetto della controversia è stato costituito, tra l'altro, attraverso manifestazione orale di volontà. Il principio della perpetuatio jurisdictionis (art. 5 c.p.c italiano e 50 c.p.c.v.) opera esclusivamente con riferimento alla data di proposizione della domanda.
[Dep. 22 novembre 1996 ]
* Cfr. decisione del Collegio di conciliazione e arbitrato ULSA n. 1/96