Intervento Prof. Sandulli

La regolazione del lavoro in Vaticano

secondo l’ispirazione di Giovanni Paolo II.

Il Collegio di conciliazione ed arbitrato nell’ULSA

 

 

Intervento del Prof. Pasquale Sandulli[1], componente il Collegio di conciliazione e arbitrato dell’ULSA, al Convegno dal titolo "Reflexõs dos 125 anos da Encíclica Rerum Novarum" del 14 maggio 2016 – Pontificia Università Cattolica del Paraná (Brasile).

 

 

1. - Il giuslavorista è stato chiamato dai primordi della rivoluzione industriale a classificare, per regolarle con finalità più o meno protettive, modalità e forme di svolgimento del lavoro umano ed utilizza variamente categorie oramai consolidate, quali, principalmente, quelle del lavoro dipendente o del lavoro autonomo e marginalmente del lavoro associato, ovvero, sotto altri profili, quelle del lavoro pubblico o del lavoro privato; è attento al fenomeno, sempre più diffuso, del volontariato, per coglierne la genuina intenzione di liberalità e quindi escluderlo dal diritto del lavoro, salva l’estensione delle misure di protezione fisica del volontariato; nell’ultimo quarto del secolo scorso è emerso massicciamente il fenomeno migratorio, che ha impattato sul mondo del lavoro, oltre che sulla società civile. Si è poi, sempre il giuslavorista, dedicato all’analisi del processo di aggregazione degli interessi professionali al fine della autotutela collettiva, di cui il sindacato è la massima espressione, sviluppatosi liberamente nei Paesi dell’Europa occidentale ed altrove con più o meno rilevanti condizionamenti. Naturale corollario è stato il sistema di tutela previdenziale, che evolve verso più ampie modalità di sicurezza sociale.

 

Fondamento primario di questa costruzione è il profilo di professionalità della condizione del lavoratore, è la dimensione economica dello scambio incentrato sulla erogazione, libera, del lavoro umano: dal che l’attenzione anche dell’economista del lavoro ed alla fine del sociologo del lavoro, anche in ragione oramai della apertura del mercato del lavoro al mondo, secondo una linea di internazionalizzazione e globalizzazione.

 

Fin dalla fine del secolo XIX la Chiesa,  quasi sempre in anticipo rispetto ai diritti nazionali del lavoro e molto prima della affermazione dello stesso a livello internazionale, con la Rerum novarum, della quale oggi si celebra una ricorrenza di taglio giubilare, ha volto la sua attenzione cattedratica al fenomeno dell’alienazione del lavoro, con una acuta analisi di politica economica e di filosofia teoretica, alla ricerca dei valori effettivi e delle esigenze di tutela, con inevitabile prevalenza dell’approccio pastorale. A novanta anni di distanza da quel grande momento teologico, la Chiesa, attraverso la parola di Giovanni Paolo II, con la Laborem exercens si è di nuovo pronunciata sul valore fondante del lavoro al fine della compiutezza della persona umana. Non è mio compito addentrarmi nei tanti significativi, e temporalmente conseguenziali, passaggi delle due encicliche, e per questo mi limito ad osservare che esse hanno scandito il percorso non solo della dottrina sociale della Chiesa, ma hanno dato un determinante contributo allo svolgimento delle varie scienze umanistiche che hanno al centro il lavoro umano. Studiosi e politici non hanno potuto ignorare questo insegnamento, in qualche caso fortemente contrastandolo, anche in ragione della precisa scelta di campo effettuata proprio dalla Rerum novarum, in termini di contrapposizione al socialismo allora in fase di avvio, e per converso nella valorizzazione dell’individuo e della famiglia, oltre che della proprietà privata. Una scelta di campo sostanzialmente confermata novanta anni dopo, anche se in termini di minor rigidità, frutto della drammatica esperienza delle due guerre che hanno attraversato il secolo breve, aprendosi così più decisamente ai valori di solidarietà, dignità e priorità del e nel lavoro. Per chiudere con l’invito ad “una economia sociale di mercato”, formulato da Papa Francesco nel ricevere il premio europeo Carlo Magno.

 

Non della dottrina sociale della Chiesa devo occuparmi, che qui vale solo ad offrire il quadro in cui collocare le mie riflessioni sul tema da me scelto per stare con voi.

 

2. -  Forte è stato l’imbarazzo del giuslavorista chiamato a qualificare il lavoro svolto in Vaticano, sia dai religiosi ed ecclesiastici, sia dai laici (a parte le posizioni apicali: quelle di rango cardinalizio, o i titolari di incarichi speciali assegnati dalla Sede Apostolica: sintomatica è, sotto questo profilo la delimitazione della platea dei destinatari delle prestazioni del Fondo Pensioni Vaticano plasmati come da regolamento in termini di estraneazione appunto delle figure massime: regolamento Fondo pensioni, artt. 28 e 29). La circostanza che ciascun dipendente attraverso la sua prestazione concorra alla realizzazione della funzione pastorale della Chiesa, e da questa riceva un’impronta ecclesiale quasi sublimatrice, ha lungamente ostacolato il processo di enucleazione di una dimensione anche professionale del lavoro petrino (sub umbra Petri). È con la lettera del 20 novembre 1982 al Cardinale Casaroli, circa il significato del lavoro prestato alla Sede Apostolica, che Papa Giovanni Paolo II, sulla scia delle ripetute affermazioni presenti nella dottrina cattolica sulla remunerazione per il lavoro – ed in particolare dalla di poco precedente Laborem exercens –, riconosce nella prestazione lavorativa per la Santa Sede e per lo Stato della Città del Vaticano la fonte di un ragionevole e proporzionato corrispettivo, che nella sua configurazione materiale nulla toglie alla dimensione pastorale e quasi vocazionale anche per i laici chiamati a svolgere il lavoro “petrino”.

 

Si approssima, preceduta dall’annesso II della Costituzione Pastor Bonus, il Motu proprio del 1989, recante la istituzione dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, il cui assetto statutario era destinato ad essere rinnovato nel 1994 e poi nel 2009.

 

3. – Quanto alle linee fondanti dell’ULSA, ne tratterò nei limiti di tempo qui consentiti, così da inquadrare congruamente il ruolo del Collegio di conciliazione ed arbitrato costituito al suo interno. Istituito nel 1989, confermato cinque anni dopo e rinnovato nel 2009, l’ULSA è l’organo della Sede Apostolica  “preposto alla promozione e al consolidamento della comunità di lavoro della Sede Apostolica”, quella comunità che Papa Giovanni Paolo II identificava nel complesso di “quanti - uomini e donne, sacerdoti, religiosi e laici - si prodigano, nei suoi dicasteri e uffici, al servizio della Chiesa universale” nella convinzione che qualunque componente della comunità svolga la sua attività con una propria finalità e dignità in considerazione sia del contenuto oggettivo e del valore del lavoro svolto, sia della persona che lo compie; quanto basta per dare ad ogni prestazione un contenuto spirituale e materiale insieme, in una con l’esaltazione della dignità della persona e con il carattere unitario dei diversi compiti, coerentemente alla del tutto prevalente ispirazione ecclesiale.

 

La competenza dell’ULSA – quale organo della Sede Apostolica, seppure non sia dicastero – si estende “al lavoro in tutte le sue forme ed espressioni, prestato dal personale alle dipendenze” delle Amministrazioni vaticane dirette, salva l’estensione ad altri Enti individuati espressamente. L’enfasi della formula è peraltro contenuta dall’espresso riferimento alla condizione di dipendenza, ovvero di subordinazione; la individuazione di questa condizione è affidata ai regolamenti delle singole Amministrazioni, che dunque mantengono rispetto all’ULSA piena autonomia organizzativa, specialmente in termini di classificazione del personale nei livelli corrispondenti alla graduazione organizzativa di cui ciascun Ente ritiene di aver bisogno. Questa affermazione non è contraddetta dall’impegno statutario dell’Ufficio, che non solo ha potere di proposta nel processo di modificazione, integrazione ed abrogazione sugli atti e regolamenti delle singole Amministrazioni, ma è anche gravato del compito di promuovere l’uniforme applicazione sugli atti e sui Regolamenti delle stesse, in vista di una auspicata mobilità del personale.

 

Nel quadro di un generale processo di elevazione culturale e professionale, si inseriscono due momenti fra loro connessi e distinti: i) quello dell’informazione, in sé considerata ma anche e soprattutto in quanto funzionale alla migliore realizzazione dell’attività istituzionale, ii) quello della formazione professionale, secondo programmi di taglio generale e specifico, in cui l’ULSA è oggi fortemente impegnato.

 

4. – Prima di concentrare l’attenzione sul ruolo del Collegio di conciliazione e di arbitrato, è utile sottolineare che all’ULSA compete anche, al fine di migliorarle, una funzione di analisi delle condizioni economiche, e del correlato trattamento assistenziale e previdenziale. Una condizione esplicitamente dettata per lo svolgimento di questa funzione sta nell’inciso “nel quadro delle compatibilità”, che ha assunto un rilievo vieppiù maggiore rispetto alla originaria previsione per effetto dell’aggravamento della crisi economico - finanziaria anche delle finanze vaticane, ed in relazione altresì alla accentuata predicazione di una Chiesa più semplice ed essenziale. Il che non può significare che non debbano essere considerate le esigenze anche materiali dei dipendenti, e non impedisce che possano essere dall’ULSA studiate formule atte a razionalizzare taluni impegni di spesa, quali quelle assistenziali e quelle previdenziali, queste ultime in particolare bisognose di adeguata e costante coordinazione con i mutevoli sistemi di sicurezza sociale di altri ordinamenti correlati, in ragione della internazionalità della Chiesa.

 

5. – La istituzione di un apposito Collegio di conciliazione e di arbitrato all’interno dell’ULSA intende completare il disegno di valorizzazione del lavoro dei dipendenti, con riferimento alle esigenze di tutela processuale per l’eventuale insorgenza di controversie. Queste, peraltro, possono essere soddisfatte attraverso l’alternativa utilizzazione del ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria vaticana o della proposizione di apposita istanza all’ULSA; alternatività fra le due procedure della quale l’interessato deve darsi carico, mediante esplicita indicazione della via eletta, attraverso apposita, responsabile dichiarazione nell’atto introduttivo del procedimento. Si coglie immediatamente la diversa valenza dell’uno e dell’altro strumento: entrambi condizionati, quanto alla loro attivazione, dal completo esaurimento di tutte le procedure interne da ciascuna Amministrazione predisposte al precipuo fine di prevenire ogni controversia, così da trovare nel confronto diretto la possibilità di soluzione, il percorso dinanzi all’ULSA continua a coltivare prioritariamente l’obiettivo conciliativo, secondo le linee che fra breve verranno esaminate.

 

Intanto, occorre precisare che proprio la formula ampia con la quale si apre il capo III, sulle controversie, assumendo come oggetto di possibile controversia qualunque lesione derivante “da un provvedimento amministrativo in materia di lavoro, salvo che lo stesso risulti approvato in forma specifica dal Sommo Pontefice”, non solo va correttamente intesa come capace di comprendere, oltre i diritti soggettivi, anche gli interessi purché giuridicamente rilevanti, ma spiega essa stessa la fortissima ed evidente spinta alla via conciliativa, intesa come filtro. La via alternativa non è comunque libera, risultando precluso il ricorso all’ULSA quando si tratti di impugnare provvedimenti disciplinari o nelle materie comunque riservate al giudice ordinario vaticano.

Ci si deve chiedere, già a questo punto, quali siano le ragioni che spingano verso il ricorso all’ULSA, pur dovendosi prendere atto che la decisione del Collegio non risulta essere caratterizzata dalla natura di atto giudiziario in senso proprio: in breve, da un lato fa premio la capacità della decisione di rimuovere/annullare in tutto o in parte il provvedimento impugnato, quando ritenuto illegittimo, con un effetto dunque sostanzialmente reale, rafforzato dalla potestà del Collegio di entrare nel merito; da altro lato, la circostanza che le decisioni del Collegio sono espressamente qualificate come inappellabili, a parte la remota ipotesi di revocazione o di querela per nullità.

 

6. – Soprattutto il procedimento presso l’ULSA è dominato da un prevalente intento di conciliazione. Ne è puntuale testimonianza la circostanza che il procedimento dinanzi al Collegio prende l’avvio non solo – come già precisato - dopo che sono state esperite tutte le fasi interne all’Amministrazione di provenienza di riesame del provvedimento ritenuto lesivo,  così sperimentandosi al massimo il principio di autotutela dell’Amministrazione, ma anche dopo che sia esaurita la fase del tentativo di conciliazione innanzi al Direttore dell’ULSA, cui compete un preventivo vaglio di ammissibilità del ricorso. L’autonoma importanza di questa fase conciliativa è sottolineata dalla sua rigorosa procedimentalizzazione, e conseguente formalizzazione, che tuttavia non implica alcuna penalizzazione neppure nel caso di mancata partecipazione al tentativo di conciliazione: diversamente, dunque, da quel che accade nel caso di rifiuto dell’interrogatorio nella successiva fase dinanzi al Collegio, in cui il rifiuto stesso entra a far parte delle componenti presupposte della decisione che assumerà il Collegio.

 

Lo spirito e l’obiettivo prioritario della conciliazione è costantemente presente nella procedura: la presentazione dell’istanza al Direttore apre la fase conciliativa monocratica, affidata al Direttore, la successiva fase del ricorso al Collegio apre la fase conciliativa innanzi al Collegio stesso, che resta sempre aperta fino al momento della decisione. 

 

7. – Il passaggio alla fase decisoria del procedimento dinanzi al Collegio è accompagnato da due connotazioni che meritano una precisazione.

 

In omaggio al prevalente spirito conciliativo, lo Statuto dell’ULSA esclude che il procedimento dinanzi al Collegio abbia quel carattere giudiziario che è invece proprio dell’alternativa al ricorso all’Autorità giudiziaria vaticana (art. 11, c.1). Ciononostante, il riconoscimento sostanziale della pretesa di giustizia, che il procedimento realizza, induce a dichiarare ad esso applicabili le disposizioni del codice di procedura civile vaticano (art. 18, c. 4).

 

Lo Statuto (art. 11, c. 3) propone una classificazione delle controversie, distinguendole in individuali, plurime e collettive, considerandosi plurime quelle “relative alla medesima questione giuridica o alle medesime richieste prospettate da più dipendenti in un unico ricorso o in singoli ricorsi preliminarmente riuniti”, ed invece collettive “quelle riferibili a un interesse di una intera categoria di dipendenti”. Quest’ultimo riferimento non implica che nell’ordinamento vaticano si dia minimamente ingresso ad una dimensione sindacale dei problemi giuridico/giudiziari del lavoro, pur essendo consentito un fenomeno associativo dei dipendenti al fine di rappresentanza degli interessi, ma con esclusione di ogni funzione rivendicativa. La riferita classificazione è certamente corretta, ma l’assenza di qualsiasi successivo riferimento ad essa nel corpo delle disposizioni regolanti il procedimento pone qualche problema sia in fase di procedimento, sia in fase decisoria.

 

Quanto alle controversie plurime, durante la fase istruttoria (ma già anche durante la fase conciliativa) dovrà aversi cura a che – una volta riunite le posizioni – le iniziative processuali siano coerenti con la comunanza delle questioni insita nella connotazione plurima della controversia, così come nella decisione, che potrebbe anche risultare diversa da soggetto a soggetto, dovrà aversi cura di adottare un metro di giudizio omogeneo e conforme. Quanto alle controversie collettive, la loro qualificazione come tale potrebbe derivare – oltre che dalla intrinseca connotazione della pretesa - da una segnalazione dell’istante/ricorrente, di per sé inidonea a determinare modificazioni del procedimento, se non nella misura in cui il Collegio ritenga di fare propria questa segnalazione, e quindi assumere una linea di condotta nel procedimento e nella decisione che evidenzi all’Amministrazione l’opportunità di una linea di condotta coerente. La scelta dell’ordinamento vaticano - del tutto coerente con la ricordata vocazione ecclesiale della comunità di lavoro - nel senso di non dare ingresso a fenomeni di associazionismo sindacale, esclude che possa nella controversia collettiva immaginarsi una presenza processuale di portatori di interessi collettivi.

 

8. –Il tempo stringe! Seppure in via cautelativa e per evitare lacune normative lo Statuto dell’ULSA rinvii, secondo il criterio di compatibilità, al codice processuale civile del Vaticano, il procedimento innanzi al Collegio è regolato nelle sue linee essenziali e può dirsi sostanzialmente autosufficiente. Gli elementi essenziali di un procedimento di natura giudiziaria sono ben presenti. Dalla valenza definitoria dell’atto introduttivo (ricorso), attraverso il quale si individuano le parti ed il petitum, alla indicazione delle prove su cui la pretesa è fondata. I tempi sono ragionevolmente scanditi, e l’attività istruttoria è regolata, consentendosi la delega ad uno dei componenti del Collegio per l’acquisizione dei mezzi di prova.

 

Il contraddittorio, scritto ed orale, è garantito, ed anzi l’interrogatorio delle parti è di esso momento essenziale, al punto da essere considerato il rifiuto dello stesso come elemento di valutazione, si intende a carico di chi lo rifiuta. L’impianto della decisione è puntualmente predefinito.

 

Nel nome del Signore, e scontata la pochezza terrena, giustizia è fatta!

 

9. – Ma proprio la battuta che precede impone qualche riflessione in prospettiva.

 

È ben noto – e personalmente condiviso - l’impegno riformatore dell’attuale Papa Francesco, e la ulteriormente accentuata sensibilità ai problemi generali, per non dire globali, della persona umana nella società civile ed economica. È altresì evidente che la linea perseguita è quella della semplificazione, riferita sia alle attività delle istituzioni sia ai comportamenti umani, in vista di un generale arricchimento spirituale.

 

In un tale contesto la presenza di un organismo di diretta promanazione della Sede Apostolica, caratterizzato da una struttura elementare ma efficiente, ispirato alla valorizzazione del lavoro umano, al di là quindi di una banale scelta di mera protezione, rappresenta di per sé un valore, concorrendo orizzontalmente al progresso dello Stato della Città del Vaticano e della stessa Santa Sede attraverso un’opera di armonizzazione delle regole e delle esperienze, e la garanzia di un impegno pacificatore che è l’essenza della conciliazione.

 

 

 

[1] Già Ordinario di diritto del lavoro  - SAPIENZA Università di Roma, Doc. LUISS  di Giustizia Costituzionale del Lavoro e Dir. Prev. Complem, Doc. Università Europea di Roma di Diritto del Lavoro.