Alcune parole di Papa Francesco sul lavoro

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GENNAIO 2018

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEGLI AUGURI DEL CORPO DIPLOMATICO
ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE  PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO
Sala Regia
Lunedì, 8 gennaio 2018

(…)
 Infine, desidero richiamare l’importanza del diritto al lavoro. Non vi è pace né sviluppo se l’uomo è privato della possibilità di contribuire personalmente tramite la propria opera all’edificazione del bene comune. Rincresce constatare invece come il lavoro sia in molte parti del mondo un bene scarsamente disponibile. Poche sono talvolta le opportunità, specialmente per i giovani, di trovare lavoro. Spesso è facile perderlo non solo a causa delle conseguenze dell’alternarsi dei cicli economici, ma anche per il progressivo ricorso a tecnologie e macchinari sempre più perfetti e precisi in grado di sostituire l’uomo. E se da un lato si constata un’iniqua distribuzione delle opportunità di lavoro, dall’altro si rileva la tendenza a pretendere da chi lavora ritmi sempre più pressanti. Le esigenze del profitto, dettate della globalizzazione, hanno portato ad una progressiva riduzione dei tempi e dei giorni di riposo, con il risultato che si è persa una dimensione fondamentale della vita – quella del riposo – che serve a rigenerare la persona non solo fisicamente, ma anche spiritualmente. Dio stesso si è riposato il settimo giorno: lo benedisse e lo consacrò, «perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (Gen 2,3). Nell’alternarsi di fatica e riposo, l’uomo partecipa alla “santificazione del tempo” operata da Dio e nobilita il proprio lavoro, sottraendolo alle ripetitive dinamiche di una quotidianità arida che non conosce sosta.

Sono poi motivo di particolare preoccupazione i dati pubblicati recentemente dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro circa l’incremento del numero dei bambini impiegati in attività lavorative e delle vittime delle nuove forme di schiavitù. La piaga del lavoro minorile continua a compromettere seriamente lo sviluppo psico-fisico dei fanciulli, privandoli delle gioie dell’infanzia, mietendo vittime innocenti. Non si può pensare di progettare un futuro migliore, né auspicare di costruire società più inclusive, se si continuano a mantenere modelli economici orientati al mero profitto e allo sfruttamento dei più deboli, come i bambini. Eliminare le cause strutturali di tale piaga dovrebbe essere una priorità di governi e organizzazioni internazionali, chiamati ad intensificare gli sforzi per adottare strategie integrate e politiche coordinate finalizzate a far cessare il lavoro minorile in tutte le sue forme. (…)

 

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2018
[14 gennaio 2018]

(…)
Promuovere vuol dire essenzialmente adoperarsi affinché tutti i migranti e i rifugiati così come le comunità che li accolgono siano messi in condizione di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore.[12] Tra queste dimensioni va riconosciuto il giusto valore alla dimensione religiosa, garantendo a tutti gli stranieri presenti sul territorio la libertà di professione e pratica religiosa. Molti migranti e rifugiati hanno competenze che vanno adeguatamente certificate e valorizzate. Siccome «il lavoro umano per sua natura è destinato ad unire i popoli»,[13] incoraggio a prodigarsi affinché venga promosso l’inserimento socio-lavorativo dei migranti e rifugiati, garantendo a tutti – compresi i richiedenti asilo – la possibilità di lavorare, percorsi formativi linguistici e di cittadinanza attiva e un’informazione adeguata nelle loro lingue originali. Nel caso di minori migranti, il loro coinvolgimento in attività lavorative richiede di essere regolamentato in modo da prevenire abusi e minacce alla loro normale crescita. (…)

 

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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN CILE E PERÙ (15-22 GENNAIO 2018)

SANTA MESSA PER LA PACE E LA GIUSTIZIA

OMELIA DEL SANTO PADRE

Parque O’Higgins (Santiago del Cile)

Martedì, 16 gennaio 2018

Le beatitudini sono quel nuovo giorno per tutti quelli che continuano a scommettere sul futuro, che continuano a sognare, che continuano a lasciarsi toccare e sospingere dallo Spirito di Dio.
Quanto ci fa bene pensare che Gesù dal Cerro Renca o da Puntilla viene a dirci: “Beati...”. Sì, beato tu e tu, ognuno di noi. Beati voi che vi lasciate contagiare dallo Spirito di Dio e lottate e lavorate per questo nuovo giorno, per questo nuovo Cile, perché vostro sarà il regno dei cieli. «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
E di fronte alla rassegnazione che come un ruvido brusio mina i nostri legami vitali e ci divide, Gesù ci dice: beati quelli che si impegnano per la riconciliazione. Felici quelli che sono capaci di sporcarsi le mani e lavorare perché altri vivano in pace. Felici quelli che si sforzano di non seminare divisione. In questo modo, la beatitudine ci rende artefici di pace; ci invita ad impegnarci perché lo spirito della riconciliazione guadagni spazio fra noi. Vuoi gioia? Vuoi felicità? Felici quelli che lavorano perché altri possano avere una vita gioiosa. Desideri pace? Lavora per la pace.
Non posso fare a meno di evocare quel grande Pastore che ebbe Santiago, il quale in un Te Deum disse: « “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia” [...] E se qualcuno ci domanda: “Cos’è la giustizia?”, o se per caso pensa che consista solo nel “non rubare”, gli diremo che esiste un’altra giustizia: quella che esige che ogni uomo sia trattato come uomo» (Card. Raúl Silva Henríquez, Omelia nel Te Deum Ecumenico, 18 settembre 1977). (…)

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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN CILE E PERÙ
(15-22 GENNAIO 2018)
SANTA MESSA E CELEBRAZIONE FRATERNA
PER L'INTEGRAZIONE DEI POPOLI,
IN ONORE DI NUESTRA SEÑORA DEL CARMEN, MADRE E REGINA DEL CILE
Campo Lobito (Iquique)
Giovedì, 18 gennaio 2018

(…)

Come Maria a Cana, cerchiamo di imparare ad essere attenti nelle nostre piazze e nei nostri villaggi e riconoscere coloro che hanno una vita “annacquata”; che hanno perso – o ne sono stati derubati – le ragioni per celebrare. E non abbiamo paura di alzare le nostre voci per dire: «Non hanno vino». Il grido del popolo di Dio, il grido del povero, che ha forma di preghiera e allarga il cuore e ci insegna ad essere attenti. Siamo attenti a tutte le situazioni di ingiustizia e alle nuove forme di sfruttamento che espongono tanti fratelli a perdere la gioia della festa. Siamo attenti di fronte alla precarizzazione del lavoro che distrugge vite e famiglie. Siamo attenti a quelli che approfittano dell’irregolarità di molti migranti, perché non conoscono la lingua o non hanno i documenti in regola. Siamo attenti alla mancanza di casa, terra e lavoro di tante famiglie. E come Maria diciamo: non hanno vino.

 

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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN CILE E PERÙ
(15-22 GENNAIO 2018)
INCONTRO CON LA POPOLAZIONE
SALUTO DEL SANTO PADRE
Istituto Jorge Basadre (Puerto Maldonado)
Venerdì, 19 gennaio 2018

Pensando a queste cose permettetemi di soffermarmi su un tema doloroso. Ci siamo abituati a utilizzare il termine “tratta di persone”. Arrivando a Puerto Maldonado, nell’aeroporto ho visto un cartello che ha richiamato la mia attenzione positivamente: “Fai attenzione alla tratta!”. Si vede che stanno prendendo coscienza. Ma in realtà dovremmo parlare di schiavitù: schiavitù per il lavoro, schiavitù sessuale, schiavitù per il guadagno. Fa male constatare come in questa terra, che sta sotto la protezione della Madre di Dio, tante donne sono così svalutate, disprezzate ed esposte a violenze senza fine. Non possiamo “normalizzare” la violenza, prenderla come una cosa naturale. No, non si “normalizza” la violenza contro le donne, sostenendo una cultura maschilista che non accetta il ruolo di protagonista della donna nelle nostre comunità. Non ci è lecito guardare dall’altra parte, fratelli, e lasciare che tante donne, specialmente adolescenti, siano “calpestate” nella loro dignità.
Diverse persone sono emigrate verso l’Amazzonia cercando un tetto, una terra e un lavoro. Sono venute a cercare un futuro migliore per sé stesse e per le loro famiglie. Hanno abbandonato la loro vita umile, povera ma dignitosa. Molte di loro, per la promessa che certi lavori avrebbero messo fine a situazioni precarie, si sono basati sul luccichio promettente dell’estrazione dell’oro. Però non dimentichiamo che l’oro può diventare un falso dio che pretende sacrifici umani.

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UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 gennaio 2018

(…)
In questo stile di prossimità contano più i gesti delle parole, e un gesto importante che ho potuto compiere è stato visitare il carcere femminile di Santiago: i volti di quelle donne, molte delle quali giovani madri, coi loro piccoli in braccio, esprimevano malgrado tutto tanta speranza. Le ho incoraggiate ad esigere, da sé stesse e dalle istituzioni, un serio cammino di preparazione al reinserimento, come orizzonte che dà senso alla pena quotidiana. Noi non possiamo pensare un carcere, qualsiasi carcere, senza questa dimensione del reinserimento, perché se non c’è questa speranza dei reinserimento sociale, il carcere è una tortura infinita. Invece, quando si opera per reinserire - anche gli ergastolani possono reinserirsi – mediante il lavoro dal carcere alla società, si apre un dialogo. Ma sempre un carcere deve avere questa dimensione del reinserimento, sempre. (…)

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FEBBRAIO 2018

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CAPITOLO GENERALE DELLA CONGREGAZIONE DELLE
 SACRE STIMMATE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO (STIMMATINI)
Sala del Concistoro
Sabato, 10 febbraio 2018

(…) la Santa Famiglia. Gesù, Maria e Giuseppe. Sempre docili a fare la volontà di Dio. Maria, la donna “di fretta”. A me piace tanto quel brano di Luca, quando dice che Maria è andata «in fretta» da sua cugina per aiutarla (cfr 1,39). Nelle Litanie sarebbe bello inserire questo: “Madonna della fretta, prega per noi”. Sempre in fretta, per aiutare. E Giuseppe è l’uomo mite, che nei sogni riceveva le notizie. Dicono le malelingue che, essendo già anziano, Giuseppe era malato di insonnia, non poteva dormire. Ma era un problema psicologico: si era spaventato perché, ogni volta che si era addormentato, gli avevano cambiato i piani! È l’uomo aperto alle rivelazioni del Signore. E con la mitezza, il lavoro... Ma uniti, insieme: la fretta di Maria, la mitezza forte, paziente di Giuseppe…, forte!, ha saputo educare il Figlio. La devozione alla Madonna e a Giuseppe. Non lasciare da parte queste devozioni. Qualcuno può dire: “Ma sono da bambini”. Sì, ma noi siamo bambini davanti a Dio. Magari, magari potessimo diventare bambini davanti a Dio! Alla Mamma che è di fretta dire: aiutami. E andare da lei nei momenti difficili. I mistici russi dicono che nei momenti delle turbolenze spirituali, dobbiamo essere coperti dal manto della Santa Madre di Dio, e da lì viene quella prima Antifona mariana occidentale: “Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix…”. Il manto della Santa Madre di Dio. E Giuseppe: l’uomo mite, l’uomo giusto, l’uomo del silenzio, l’uomo della pazienza, l’uomo del lavoro. Ma tutti insieme, in famiglia. Vi aiuterà tanto questa devozione, e questo che vi dico non è un consiglio per vecchietti, no, no. È per uomini, per uomini che devono essere forti nell’annuncio del Vangelo. Andate dalla Madre e andate da quell’uomo che ha fatto da padre e ha fatto crescere il Signore. E imparate lì, in famiglia.(…)

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI DIRIGENTI E AL PERSONALE DI POSTE ITALIANE
Sala Clementina
Sabato, 10 febbraio 2018

(…) Esorto tutti voi, che ogni giorno siete in rapporto con il pubblico e cercate di rispondere alle sue esigenze, a mantenere questo atteggiamento di disponibilità e benevolenza verso chi si rivolge a voi.
È importante, quando si va a uno sportello o a un ufficio, incontrare persone che svolgono il loro lavoro bene, che non sbuffano o danno l’impressione di considerarti un peso, o fanno finta di non vederti. D’altra parte, i clienti devono essere attenti a non avere – come purtroppo accade! – un atteggiamento di pretesa o di lamentela, caso mai scaricando sugli impiegati le proprie frustrazioni o per tutti i mali della società! Come è difficile, ma anche quanto è importante, che nelle mille relazioni quotidiane tra colleghi e con i cittadini, si conservi uno stile di ascolto, di disponibilità e di rispetto! E questo costa fatica, non è facile. Per riuscirci è indispensabile allenare sé stessi ogni giorno, educandosi ad agire con misericordia anche nei piccoli gesti e nei pensieri. Un sorriso, un sorriso!
Viene la vecchietta che è un po’ sorda, e tu le spieghi ma non sente… E fai il sorriso, invece di “uff”… Il sorriso è sempre un ponte, ma è un ponte dei “grandi” [di animo], perché il sorriso va da cuore a cuore. Non dimenticate il sorriso! Chi si comporta così diventa contagioso, perché il sorriso è contagioso, e la pace che semina non manca di produrre frutto.(…)

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MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Qual è il vero digiuno
Venerdì, 16 febbraio 2018

(…)C’è poi un’aggiunta: «Sciogliere le catene inique» e «togliere il legame del giogo». L’esame di coscienza, in questo caso punta l’obbiettivo sul rapporto con gli altri. Per farsi meglio comprendere, il Papa ha fatto un esempio molto pratico: «Io penso a tante domestiche che guadagnano il pane con il loro lavoro» e che vengono spesso «umiliate, disprezzate». Qui la sua riflessione ha lasciato spazio al ricordo personale: «Mai ho potuto dimenticare una volta che andai a casa di un amico da bambino. Ho visto la mamma dare uno schiaffo alla domestica. Ottantuno anni... Non ho dimenticato quello». Da qui una serie di domande rivolte idealmente a chi ha delle persone a servizio: «Come li tratti? Come persone o come schiavi? Le paghi il giusto, dai loro le vacanze? È una persona o è un animale che ti aiuta a casa tua?». Una richiesta di coerenza che vale anche per i religiosi, «nelle nostre case, nelle nostre istituzioni: come mi comporto io con la domestica che ho in casa, con le domestiche che sono in casa?». Qui il Pontefice ha aggiunto un’altra esperienza personale, ricordando un signore «molto colto» che però «sfruttava le domestiche». e che, messo di fronte alla considerazione che si trattava di «un peccato grave» contro persone che sono «immagine di Dio», obbiettava: «No, Padre dobbiamo distinguere: questa è gente inferiore». (…)

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MARZO 2018

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DELLA FEDERAZIONE DEI COLLEGI INFERMIERI PROFESSIONALI,
ASSISTENTI SANITARI, VIGILATRICI D'INFANZIA (IPASVI)
Aula Paolo VI
Sabato, 3 marzo 2018

(…)Non stancatevi mai di stare vicini alle persone con questo stile umano e fraterno, trovando sempre la motivazione e la spinta per svolgere il vostro compito. Siate anche attenti, però, a non spendervi fino quasi a consumarvi, come accade se si è coinvolti nel rapporto coi pazienti al punto da farsi assorbire, vivendo in prima persona tutto ciò che accade loro. Quello che svolgete è un lavoro usurante, oltre che esposto a rischi, e un eccessivo coinvolgimento, unito alla durezza delle mansioni e dei turni, potrebbero farvi perdere la freschezza e la serenità che vi sono necessarie. State attenti! Un altro elemento che rende gravoso e talora insostenibile lo svolgimento della vostra professione è la carenza di personale, che non può giovare a migliorare i servizi offerti, e che un’amministrazione saggia non può intendere in alcun modo come una fonte di risparmio. Consapevole del compito così impegnativo che svolgete, colgo l’occasione per esortare i pazienti stessi a non dare mai per scontato quanto ricevono da voi. Anche voi, malati, siate attenti all’umanità degli infermieri che vi assistono. Chiedete senza pretendere; non solo aspettatevi un sorriso, ma anche offritelo a chi si dedica a voi.(..)

 

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ESORTAZIONE APOSTOLICA
GAUDETE ET EXSULTATE
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
SULLA CHIAMATA ALLA SANTITÀ NEL MONDO CONTEMPORANEO
Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo, Solennità di San Giuseppe, dell’anno 2018, sesto del mio Pontificato.

 (...)
I santi della porta accanto
(…)
7. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”.[4]
(...)

Anche per te
14.
Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali.[14] (…)

L’attività che santifica
(...)
28. Un impegno mosso dall’ansietà, dall’orgoglio, dalla necessità di apparire e di dominare, certamente non sarà santificante. La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo. Da qui il fatto che si parli spesso, ad esempio, di una spiritualità del catechista, di una spiritualità del clero diocesano, di una spiritualità del lavoro. Per la stessa ragione, in Evangelii gaudium ho voluto concludere con una spiritualità della missione, in Laudato si’ con una spiritualità ecologica e in Amoris laetitia, con una spiritualità della vita familiare. (…)

 

 

In comunità
(...)

141. La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri. Pensiamo, ad esempio, ai sette santi fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, alle sette beate religiose del primo monastero della Visitazione di Madrid, a san Paolo Miki e compagni martiri in Giappone, a sant’Andrea Taegon e compagni martiri in Corea, ai santi Rocco Gonzáles e Alfonso Rodríguez e compagni martiri in Sud America. Ricordiamo anche la recente testimonianza dei monaci trappisti di Tibhirine (Algeria), che si sono preparati insieme al martirio. Allo stesso modo ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri «perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù».

[104] (...)

 

 

Un dono soprannaturale
(...)
171. Anche se il Signore ci parla in modi assai diversi durante il nostro lavoro, attraverso gli altri e in ogni momento, non è possibile prescindere dal silenzio della preghiera prolungata per percepire meglio quel linguaggio, per interpretare il significato reale delle ispirazioni che pensiamo di aver ricevuto, per calmare le ansie e ricomporre l’insieme della propria esistenza alla luce di Dio. Così possiamo permettere la nascita di quella nuova sintesi che scaturisce dalla vita illuminata dallo Spirito.
(...)

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APERTURA DELL’ASSEMBLEA PLENARIA DELLA RIUNIONE PRE-SINODALE IN PREPARAZIONE ALLA XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI (19-24 MARZO 2018), 19.03.2018

(…)

Qualcuno pensa che sarebbe più facile tenervi “a distanza di sicurezza”, così da non farsi provocare da voi. Ma non basta scambiarsi qualche messaggino o condividere foto simpatiche. I giovani vanno presi sul serio! Mi sembra che siamo circondati da una cultura che, se da una parte idolatra la giovinezza cercando di non farla passare mai, dall’altra esclude tanti giovani dall’essere protagonisti. È la filosofia del trucco. Le persone crescono e cercano di truccarsi per sembrare più giovani, ma i giovani non li lascia crescere. Questo è molto comune. Perché? Perché non si lascia che vengano interpellati. È importante. Spesso siete emarginati dalla vita pubblica ordinaria e vi trovate a mendicare occupazioni che non vi garantiscono un domani. Non so se questo succede in tutti i vostri Paesi, ma in tanti… Se non sbaglio il tasso di disoccupazione giovanile qui in Italia dai 25 anni in su è verso il 35%. In un altro Paese d’Europa, confinante con l’Italia, 47%. In un altro Paese d’Europa vicino all’Italia, più del 50%. Cosa fa un giovane che non trova lavoro? Si ammala – la depressione –, cade nelle dipendenze, si suicida – fa pensare: le statistiche di suicidio giovanile sono tutte truccate, tutte –, fa il ribelle – ma è un modo di suicidarsi – o prende l’aereo e va in una città che non voglio nominare e si arruola nell’Isis o in uno di questi movimenti guerriglieri. Almeno ha un senso da vivere e avrà uno stipendio mensile. E questo è un peccato sociale! La società è responsabile di questo. Ma io vorrei che foste voi a dire le cause, i perché, e non dire: “Neanch’io so bene il perché”. Come vivete voi questo dramma? Ci aiuterebbe tanto. Troppo spesso siete lasciati soli. Ma la verità è anche il fatto che voi siete costruttori di cultura, con il vostro stile e la vostra originalità. È un allontanamento relativo, perché voi siete capaci di costruire una cultura che forse non si vede, ma va avanti. Questo è uno spazio che noi vogliamo per sentire la vostra cultura, quella che voi state costruendo. (…)

 

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APRILE 2018

 

PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 4 aprile 2018

(...)
Tuttavia, sappiamo bene che mentre la Messa finisce, si apre l’impegno della testimonianza cristiana. I cristiani non vanno a Messa per fare un compito settimanale e poi si dimenticano, no. I cristiani vanno a Messa per partecipare alla Passione e Risurrezione del Signore e poi vivere di più come cristiani: si apre l’impegno della testimonianza cristiana. Usciamo dalla chiesa per «andare in pace» a portare la benedizione di Dio nelle attività quotidiane, nelle nostre case, negli ambienti di lavoro, tra le occupazioni della città terrena, “glorificando il Signore con la nostra vita” (…)

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

AI MONACI DELLA CONFEDERAZIONE BENEDETTINA

Sala Clementina

Giovedì, 19 aprile 2018

 (...)
La spiritualità benedettina è rinomata per il suo motto: Ora et labora et lege. Preghiera, lavoro, studio. Nella vita contemplativa, Dio spesso annuncia la sua presenza in maniera inaspettata. Con la meditazione della Parola di Dio nella lectio divina, siamo chiamati a rimanere in religioso ascolto della sua voce per vivere in costante e gioiosa obbedienza. La preghiera genera nei nostri cuori, disposti a ricevere i doni sorprendenti che Dio è sempre pronto a darci, uno spirito di rinnovato fervore che ci porta, attraverso il nostro lavoro quotidiano, a ricercare la condivisione dei doni della sapienza di Dio con gli altri: con la comunità, con coloro che vengono al monastero per la loro ricerca di Dio (“quaerere Deum”), e con quanti studiano nelle vostre scuole, collegi e università. Così si genera una sempre rinnovata e rinvigorita vita spirituale. (…)

 

VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AD ALESSANO (LECCE), NELLA DIOCESI DI UGENTO-SANTA MARIA DI LEUCA,
E A MOLFETTA (BARI) NELLA DIOCESI DI MOLFETTA-RUVO-GIOVINAZZO-TERLIZZI,
NEL 25.mo ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI S.E. MONS. TONINO BELLO
INCONTRO CON I FEDELI
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Piazzale antistante il Cimitero di Alessano (Lecce)
Venerdì, 20 aprile 2018

(...)
Don Tonino ci richiama a non teorizzare la vicinanza ai poveri, ma a stare loro vicino, come ha fatto Gesù, che per noi, da ricco che era, si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Don Tonino sentiva il bisogno di imitarlo, coinvolgendosi in prima persona, fino a spossessarsi di sé. Non lo disturbavano le richieste, lo feriva l’indifferenza. Non temeva la mancanza di denaro, ma si preoccupava per l’incertezza del lavoro, problema oggi ancora tanto attuale. Non perdeva occasione per affermare che al primo posto sta il lavoratore con la sua dignità, non il profitto con la sua avidità. Non stava con le mani in mano: agiva localmente per seminare pace globalmente, nella convinzione che il miglior modo per prevenire la violenza e ogni genere di guerre è prendersi cura dei bisognosi e promuovere la giustizia. Infatti, se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra[2]. La pace, perciò, si costruisce a cominciare dalle case, dalle strade, dalle botteghe, là dove artigianalmente si plasma la comunione. Diceva, speranzoso, don Tonino: «Dall’officina, come un giorno dalla bottega di Nazareth, uscirà il verbo di pace che instraderà l’umanità, assetata di giustizia, per nuovi destini»[3].

 

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MAGGIO 2018

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI DIRIGENTI E AL PERSONALE DEL QUOTIDIANO "AVVENIRE", CON I FAMILIARI
Sala Clementina
Martedì, 1° maggio 2018

(…)
Sono contento di condividere questo momento con voi e di farlo nella giornata dedicata a San Giuseppe lavoratore. È facile affezionarsi alla figura di San Giuseppe e affidarsi alla sua intercessione. Ma per diventare davvero suoi amici occorre ricalcarne le orme, che rivelano un riflesso dello stile di Dio.

Giuseppe è l’uomo del silenzio. A prima vista, potrebbe perfino sembrare l’antitesi del comunicatore. In realtà, solo spegnendo il rumore del mondo e le nostre stesse chiacchiere è possibile l’ascolto, che rimane la condizione prima di ogni comunicazione. Il silenzio di Giuseppe è abitato dalla voce di Dio e genera quell’obbedienza della fede che porta a impostare l’esistenza lasciandosi guidare dalla sua volontà.
Non a caso, Giuseppe è l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte, senza scoraggiarsi sotto il peso delle difficoltà. Sa camminare al buio di certi momenti in cui non comprende fino in fondo, forte di una chiamata che lo pone davanti al mistero, dal quale accetta di lasciarsi coinvolgere e al quale si consegna senza riserve.
Giuseppe è, quindi, l’uomo giusto, capace di affidarsi al sogno di Dio portandone avanti le promesse. È il custode discreto e premuroso, che sa farsi carico delle persone e delle situazioni che la vita ha affidato alla sua responsabilità. È l’educatore che – senza pretendere nulla per sé – diventa padre grazie al suo esserci, alla sua capacità di accompagnare, di far crescere la vita e trasmettere un lavoro. Sappiamo quanto quest’ultima dimensione, a cui è legata la festa di oggi, sia importante. Proprio al lavoro, infatti, è strettamente legata la dignità della persona: non al denaro, né alla visibilità o al potere, ma al lavoro. Un lavoro che dia modo a ciascuno, qualunque sia il suo ruolo, di generare quella imprenditorialità intesa come «actus personae» (cfr Enc. Caritas in veritate, 41), dove la persona e la sua famiglia restano più importanti dell’efficienza fine a sé stessa.
A ben vedere, dalla falegnameria di Nazareth alla redazione di Avvenire, il passo non è poi così lungo!
Certamente, nella vostra “cassetta degli attrezzi” oggi ci sono strumenti tecnologici che hanno modificato profondamente la professione, e anche il modo stesso di sentire e pensare, di vivere e comunicare, di interpretarsi e relazionarsi. La cultura digitale vi ha chiesto una riorganizzazione del lavoro, insieme con una disponibilità ancora maggiore a collaborare tra voi e ad armonizzarvi con le altre testate che fanno capo alla Conferenza Episcopale Italiana: l’Agenzia Sir, Tv2000 e il Circuito radiofonico InBlu. Analogamente a quanto sta avvenendo nel settore comunicazione della Santa Sede, la convergenza e l’interattività consentite dalle piattaforme digitali devono favorire sinergie, integrazione e gestione unitaria. Questa trasformazione richiede percorsi formativi e aggiornamento, nella consapevolezza che l’attaccamento al passato potrebbe rivelarsi una tentazione perniciosa. Autentici servitori della tradizione sono coloro che, nel farne memoria, sanno discernere i segni dei tempi (cfr Gaudium et spes, 11) e aprire nuovi tratti di cammino.
Tutto questo, probabilmente, fa già parte del vostro impegno quotidiano all’interno di uno sviluppo tecnologico che ridisegna a livello globale la presenza dei media, il possesso dell’informazione e della conoscenza. In questo scenario, la Chiesa sente di non poter far mancare la propria voce, per essere fedele alla missione che la chiama ad annunciare a tutti il Vangelo della misericordia. I media ci offrono potenzialità enormi per contribuire, con il nostro servizio pastorale, alla cultura dell’incontro.
Per mettere a fuoco tale missione, entriamo un momento insieme nella bottega del falegname; torniamo alla scuola di San Giuseppe, dove la comunicazione è ricondotta a verità, bellezza e bene comune.
Come ho avuto occasione di osservare, oggi «la velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e di giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta» (Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 1 giugno 2014). Anche come Chiesa siamo esposti all’impatto e all’influenza di una cultura della fretta e della superficialità: più che l’esperienza, conta ciò che è immediato, a portata di mano e può essere subito consumato; più che il confronto e l’approfondimento, si rischia di esporsi alla pastorale dell’applauso, a un livellamento del pensiero, a un disorientamento diffuso di opinioni che non si incontrano.
Il falegname di Nazareth ci richiama all’urgenza di ritrovare un senso di sana lentezza, di calma e pazienza. Con il suo silenzio ci ricorda che tutto ha inizio dall’ascolto, dal trascendere sé stessi per aprirsi alla parola e alla storia dell’altro.
Per noi il silenzio implica due cose. Da una parte, non smarrire le radici culturali, non lasciare che si deteriorino. La via per averne cura è quella di ritrovarci sempre nuovamente nel Signore Gesù, fino a fare nostri i suoi sentimenti di umiltà e tenerezza, di gratuità e compassione. Dall’altra parte, una Chiesa che vive della contemplazione del volto di Cristo non fatica a riconoscerlo nel volto dell’uomo. E da questo volto sa lasciarsi interpellare, superando miopie, deformazioni e discriminazioni.
Il dialogo vince il sospetto e sconfigge la paura. Il dialogo mette in comune, stabilisce relazioni, sviluppa una cultura della reciprocità. La Chiesa, mentre si pone come artefice di dialogo, dal dialogo viene purificata e aiutata nella stessa comprensione della fede.
A vostra volta, cari amici di Avvenire, custodite l’eredità dei padri. Non stancatevi di cercare con umiltà la verità, a partire dalla frequentazione abituale della Buona Notizia del Vangelo. Sia questa la linea editoriale, a cui legare la vostra integrità: la professione vi reclama tali, tanto alta è la sua dignità. Avrete, allora, luce per il discernimento e parole vere per cogliere la realtà e chiamarla per nome, evitando di ridurla a una sua caricatura.
Lasciatevi interrogare da quello che accade. Ascoltate, approfondite, confrontatevi. State lontani dai vicoli ciechi in cui si dibatte chi presume di aver già capito tutto. Contribuite a superare le contrapposizioni sterili e dannose. Con la testimonianza del vostro lavoro fatevi compagni di strada di chiunque si spende per la giustizia e la pace.
Giuseppe, uomo del silenzio e dell’ascolto, è anche l’uomo che nella notte non perde la capacità di sognare, di fidarsi e di affidarsi. Il sogno di Giuseppe è visione, coraggio, obbedienza che muove il cuore e le gambe. Questo Santo è icona del nostro popolo santo, che in Dio riconosce il riferimento che abbraccia con senso unitario tutta la vita.
Tale fede coinvolge nell’azione e suscita buone abitudini. È sguardo che accompagna processi, trasforma i problemi in opportunità, migliora e costruisce la città dell’uomo. Vi auguro di saper affinare e difendere sempre questo sguardo; di superare la tentazione di non vedere, di allontanare o escludere. E vi incoraggio a non discriminare; a non considerare nessuno come eccedente; a non accontentarvi di quello che vedono tutti. Nessuno detti la vostra agenda, tranne i poveri, gli ultimi, i sofferenti. Non ingrossate le fila di quanti corrono a raccontare quella parte di realtà che è già illuminata dai riflettori del mondo. Partite dalle periferie, consapevoli che non sono la fine, ma l’inizio della città.
Come avvertiva Paolo VI, i giornali cattolici non devono «dare delle cose che fanno impressione o che fanno clientela. Noi dobbiamo fare del bene a quelli che ascoltano, dobbiamo educarli a pensare, a giudicare» (Discorso agli operatori delle comunicazioni sociali, 27 novembre 1971). Il comunicatore cattolico rifugge le rigidità che soffocano o imprigionano. Non mette «in gabbia lo Spirito Santo», ma cerca di «lasciarlo volare, di lasciarlo respirare nell’animo» (ibid.). Fa sì che mai la realtà ceda il posto all’apparenza, la bellezza alla volgarità, l’amicizia sociale alla conflittualità. Coltiva e rafforza ogni germoglio di vita e di bene.
Le difficoltà non vi blocchino: basta tornare un momento al clima che 50 anni fa avvolse la gestazione del progetto di Avvenire per ricordare quante perplessità e resistenze, quante diffidenze e contrarietà cercarono di frenare la volontà di Paolo VI circa la nascita di un quotidiano cattolico a carattere nazionale.
Giuseppe, infine, è il Santo custode, l’uomo della concretezza e della prossimità. In fondo, proprio in questa disponibilità a prendersi cura dell’altro sta il segreto della sua paternità, ciò che lo ha reso davvero padre. L’esistenza dello sposo della Vergine è richiamo e sostegno a una Chiesa che non accetta la riduzione della fede alla sfera privata e intima, né si rassegna a un relativismo morale che disimpegna e disorienta.
Possiate anche voi esprimere una Chiesa che non guarda la realtà né da fuori né da sopra, ma si cala dentro, si mescola, la abita e – in forza del servizio che offre – suscita e dilata la speranza di tutti.
Vi incoraggio a custodire lo spessore del presente; a rifuggire l’informazione di facile consumo, che non impegna; a ricostruire i contesti e spiegare le cause; ad avvicinare sempre le persone con grande rispetto; a scommettere sui legami che costituiscono e rafforzano la comunità.
Nulla come la misericordia crea vicinanza, suscita atteggiamenti di prossimità, favorisce l’incontro e promuove una coscienza solidale. Farsene portatori è la strada per contribuire al rinnovamento della società nel segno del bene comune, della dignità di ciascuno e della piena cittadinanza.
C’è bisogno di dar voce ai valori incarnati nella memoria collettiva e alle riserve culturali e spirituali del popolo; di contribuire a portare nel mondo sociale, politico ed economico la sensibilità e gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa, essendone, noi per primi, fedeli interpreti e testimoni.
on abbiate paura di essere coinvolti. Le parole – quelle vere – pesano: le sostiene solo chi le incarna nella vita. La testimonianza, del resto, concorre alla vostra stessa affidabilità. Una testimonianza appassionata e gioiosa. È l’augurio conclusivo che vi rivolgo, facendo mie ancora una volta parole del Beato Paolo VI: «Occorre l’amore alla causa: se non si ama questa causa non combineremo che poco, ci stancheremo subito, ne vedremo le difficoltà, ne vedremo anche direi gli inconvenienti, le polemiche, i debiti […] Dobbiamo avere un grande amore alla causa, dire che crediamo in quel che stiamo facendo e vogliamo fare» (ibid.).

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SALUTO DEL SANTO PADRE FRANCESCOALLA GUARDIA SVIZZERA PONTIFICIA E AI SUOI OSPITI  IN OCCASIONE DELLA FESTA DEL GIURAMENTO
Sala Clementina
Venerdì, 4 maggio 2018

 (…)  La Guardia Svizzera svolge quotidianamente un prezioso servizio al Successore di Pietro, alla Curia Romana e allo Stato della Città del Vaticano. Si tratta di un lavoro che si colloca nel solco della perseverante fedeltà al Papa, che ebbe un momento qualificante in quel 6 maggio del 1527, quando i vostri predecessori sacrificarono la loro vita durante il “sacco di Roma”. Il ricordo di quel gesto eroico è un costante invito a tenere presenti e realizzare le qualità tipiche del Corpo: vivere con coerenza la fede cattolica; perseverare nell’amicizia con Gesù e nell’amore verso la Chiesa; essere gioiosi e diligenti nei grandi come nei piccoli e umili compiti quotidiani; coraggio e pazienza, generosità e solidarietà con tutti. Queste sono le virtù che siete chiamati ad esercitare quando prestate il servizio d’onore e di sicurezza in Vaticano, come anche quando avete dismesso la divisa. Una Guardia Svizzera, infatti, è sempre tale, sia quando è in servizio sia quando è fuori dal servizio!
È bello vedere un giovane come voi che dimostra attenzione agli altri, e che con premura è disponibile verso quanti sono nel bisogno. Non è sempre facile testimoniare questo atteggiamento, ma con l’aiuto del Signore è possibile. Pertanto non stancatevi di incontrare il Signore Gesù nella preghiera comunitaria e personale, nell’ascolto attento della Parola di Dio e nella partecipazione fervorosa all’Eucaristia. Il segreto dell’efficacia (…)

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VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCOALLA PARROCCHIA ROMANA DEL "SS. SACRAMENTO A TOR DE' SCHIAVI"
Domenica, 6 maggio 2018

 (…)L’amore è lavoro. Quante tra di voi sono mamme, pensate a quando i bambini erano piccolini: come amavate i vostri bambini? Con il lavoro. Prendendovi cura di loro. Loro piangevano… bisognava allattarli; cambiarli; questo, quell’altro… L’amore è sempre lavoro per gli altri. Perché l’amore si fa vedere nelle opere, non nelle parole. Ricordate quella canzone: “Parole, parole, parole”. Tante volte sono solo parole. L’amore invece è concreto. Ognuno deve pensare: il mio amore per la mia famiglia, nel quartiere, nel lavoro: è servizio agli altri? Mi preoccupo degli altri? Sono stato su – la chiamano la “Casa della Gioia” – ma può ben chiamarsi la “Casa dell’Amore”, perché questa parrocchia si è presa cura di tanti che hanno bisogno di essere curati, di essere sorvegliati. E questo è amore. Amore è lavoro, lavoro per gli altri. L’amore è nelle opere, non nelle parole. “Io ti amo”. “E che cosa fai per me se mi ami?” Ognuno degli ammalati del quartiere si chiede: “Che cosa fai per me?” Nella nostra famiglia, se tu ami i tuoi figli, siano piccoli, grandi, i genitori, gli anziani, che cosa fai per loro? Per vedere com’è l’amore, va sempre detto: che cosa faccio? “Ma padre, dove impariamo questo?” Da Gesù. E nella Seconda Lettura c’è una frase che può aprirci gli occhi: “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio”. In questo sta l’amore. Non siamo stati noi ad amare Dio; ma è Lui che ci ha amato per primo. Il Signore ama sempre per primo. Ci aspetta con l’amore.

 

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GIUGNO 2018

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA SCUOLA ESTIVA DI ASTROFISICA
PROMOSSA DALLA SPECOLA VATICANA
Sala Clementina
Giovedì, 14 giugno 2018

(…). Anche in questo senso possiamo intendere “la gloria e l’onore” di cui parla il Salmista, la gioia di un lavoro intellettuale come il vostro, lo studio dell’astronomia. Attraverso di noi, creature umane, questo universo può diventare, per così dire, consapevole di sé stesso e di Colui che ci ha creati: è il dono – con la relativa responsabilità – che ci è stato dato come esseri pensanti e razionali in questo cosmo.
Ma come esseri umani siamo più che pensanti e razionali. Siamo anche persone con un senso di curiosità che ci spinge a saperne di più; creature che lavorano per imparare e condividere ciò che hanno imparato, per il gusto di farlo. E siamo persone che amano ciò che fanno e che scoprono nell’amore per l’universo un assaggio di quell’amore divino che, contemplando il creato, ha dichiarato che era buono.
Come è noto, Dante ha scritto che è l’amore che muove il sole e le stelle (cfr Paradiso, XXXIII, 145). Possa anche il vostro lavoro essere “mosso” dall’amore: amore per la verità, amore per l’universo stesso, e amore di ognuno di voi per l’altro, lavorando insieme nella diversità.

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MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
La dottrina di Gesù sulla donna cambia la storia
Venerdì, 15 giugno 2018

(…) Donne vittime della «filosofia “usa e getta”», costrette a «vendere la dignità per un posto di lavoro», obbligate a prostituirsi per strada, proposte come «oggetto del desiderio» sui giornali, in tv e persino nei supermarket per piazzare un prodotto. Il sistema di «calpestare la donna perché donna» e di non considerarla una persona è sotto gli occhi di tutti; e insegnerebbe molto un «pellegrinaggio notturno» per le strade della città dove alle ragazze si chiede solo: «quanto costi?». Con questa fortissima denuncia Papa Francesco — nella messa celebrata venerdì 15 giugno a Santa Marta — ha rilanciato l’insegnamento di Gesù che ha cambiato la storia e ridato alla donna piena dignità, risollevando tutte quelle che erano «disprezzate, emarginate, scartate».
Queste parole, ha fatto presente Francesco, sono state «dette in una cultura nella quale la donna era di “seconda classe” — per dirla con un eufemismo — neppure di seconda, era schiava, non godeva neppure della piena libertà». Quelle di Gesù «sono parole forti, parole che cambiano la storia». Davvero, ha insistito il Papa, «la dottrina di Gesù sulla donna cambia la storia». E così «una cosa è la donna prima di Gesù, un’altra cosa è la donna dopo Gesù». In sostanza, ha osservato il Pontefice, «Gesù “dignifica” la donna e la mette allo stesso livello dell’uomo, perché prende quella prima parola del Creatore: tutti e due sono “immagine e somiglianza di Dio”, tutti e due; non prima l’uomo e poi, un pochino più in basso, la donna; no, tutti e due». Tanto che, ha rilanciato Francesco, «l’uomo solo senza la donna accanto — sia come mamma, come sorella, come sposa, come compagna di lavoro, come amica — non è immagine di Dio». (…)
«Questo passo del Vangelo ci aiuti a pensare al mercato delle donne, al mercato, sì: la tratta, lo sfruttamento, che si vede» ha affermato il Pontefice. E ha invitato a pensare «anche al mercato che non si vede, quello che si fa e non si vede». Perché, ha ribadito, «la donna la si calpesta perché è donna».
«Gesù ha avuto una mamma — ha concluso il Papa — e ha avuto tante amiche che lo seguivano per aiutarlo nel suo ministero, per sostenerlo». Inoltre «Gesù ha trovato tante donne disprezzate, emarginate, scartate: e con quanta tenerezza, con quanto amore le ha sollevate, ha ridato loro la dignità». Con questo spirito, ha aggiunto, «preghiamo» per tutte le donne disprezzate, emarginate, scartate «e anche noi facciamo come Gesù: trattiamo le donne come quello che manca a tutti gli uomini per essere immagine e somiglianza di Dio».

 

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO NAZIONALE DELLA
 FEDERAZIONE MAESTRI DEL LAVORO D'ITALIA
Aula Paolo VI
Venerdì, 15 giugno 2018

 (…)  Fin dalla storica Enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII, la dottrina sociale della Chiesa ha posto il lavoro al centro delle questioni che riguardano la società. Il lavoro al centro. Il lavoro, infatti, sta al cuore della vocazione stessa data da Dio all’uomo, di prolungare la sua azione creatrice e realizzare, attraverso la sua libera iniziativa e il suo giudizio, un dominio sulle altre creature che si traduca non in asservimento dispotico, ma in armonia e rispetto.
Nel dibattito di questi giorni di Convegno, avete messo in relazione la tematica del lavoro con il ricchissimo patrimonio ambientale, artistico e culturale italiano, che rappresenta per il Paese il bene comune più prezioso. I tesori del passato, infatti, vivono attraverso il tempo grazie alla cura di coloro a cui sono affidati, e l’ineguagliabile eredità di arte e cultura in Italia costituisce un potenziale unico, da mettere a frutto con politiche avvedute e strategie di lungo termine. Anche a voi, dunque, Maestri del Lavoro, spetta il compito morale e civile di diffondere, promuovere e ampliare la cura del “Bel Paese” (cfr F. Petrarca, Canzoniere, CXLVI, v. 13).
Nel perseguire tale obiettivo, emerge come primaria la questione morale. Essa è giustamente posta al centro della vita della Fondazione, che si ispira ai valori della «correttezza, responsabilità e trasparenza» (Codice Etico, art.1), e si propone di vivere, testimoniare e diffondere questi stessi principi in tutto il contesto sociale, specialmente in quello lavorativo. Rinnovare il lavoro in senso etico significa infatti rinnovare tutta la società, bandendo la frode e la menzogna, che avvelenano il mercato, la convivenza civile e la vita stessa delle persone, soprattutto dei più deboli.
Per fare questo, per testimoniare cioè i valori umani ed evangelici in ogni contesto e in ogni circostanza, è necessaria una tensione alla coerenza nella propria vita. Coerenza nella vita, e armonia nella propria vita. C’è bisogno di concepire la totalità della propria vita «come una missione
» (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 23): una missione armonica.

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AGOSTO 2018

 

PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 1° agosto 2018
Catechesi sui Comandamenti. 4. «Non avrai altri dei di fronte a me»

(...)

Come si sviluppa un’idolatria? Il comandamento descrive delle fasi: «Non ti farai idolo né immagine […]. / Non ti prostrerai davanti a loro / e non li servirai» (Es 20,4-5).
La parola “idolo” in greco deriva dal verbo “vedere”.[6] Un idolo è una “visione” che tende a diventare una fissazione, un’ossessione. L’idolo è in realtà una proiezione di sé stessi negli oggetti o nei progetti. Di questa dinamica si serve, ad esempio, la pubblicità: non vedo l’oggetto in sé ma percepisco quell’automobile, quello smartphone, quel ruolo – o altre cose – come un mezzo per realizzarmi e rispondere ai miei bisogni essenziali. E lo cerco, parlo di quello, penso a quello; l’idea di possedere quell’oggetto o realizzare quel progetto, raggiungere quella posizione, sembra una via meravigliosa per la felicità, una torre per raggiungere il cielo (cfr Gen 11,1-9), e tutto diventa funzionale a quella meta.
Allora si entra nella seconda fase: «Non ti prostrerai davanti a loro». Gli idoli esigono un culto, dei rituali; ad essi ci si prostra e si sacrifica tutto. In antichità si facevano sacrifici umani agli idoli, ma anche oggi: per la carriera si sacrificano i figli, trascurandoli o semplicemente non generandoli; la bellezza chiede sacrifici umani. Quante ore davanti allo specchio! Certe persone, certe donne quanto spendono per truccarsi?! Anche questa è un’idolatria. Non è cattivo truccarsi; ma in modo normale, non per diventare una dea. La bellezza chiede sacrifici umani. La fama chiede l’immolazione di sé stessi, della propria innocenza e autenticità. Gli idoli chiedono sangue. Il denaro ruba la vita e il piacere porta alla solitudine. Le strutture economiche sacrificano vite umane per utili maggiori. Pensiamo a tanta gente senza lavoro. Perché? Perché a volte capita che gli imprenditori di quell’impresa, di quella ditta, hanno deciso di congedare gente, per guadagnare più soldi. L’idolo dei soldi. Si vive nell’ipocrisia, facendo e dicendo quel che gli altri si aspettano, perché il dio della propria affermazione lo impone. E si rovinano vite, si distruggono famiglie e si abbandonano giovani in mano a modelli distruttivi, pur di aumentare il profitto. Anche la droga è un idolo. Quanti giovani rovinano la salute, persino la vita, adorando quest’idolo della droga. (…)

Qual è il mio idolo? Toglilo e buttalo dalla finestra!

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SETTEMBRE 2018

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALL'ASSOCIAZIONE NAZIONALE FRA
LAVORATORI MUTILATI E INVALIDI DEL LAVORO (ANMIL)
Sala Clementina
Giovedì, 20 settembre 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
rivolgo il mio affettuoso saluto a tutti voi, al Presidente, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto, e a tutti i membri della vostra Associazione. Riunendo e sostenendo quanti hanno subito mutilazioni o invalidità nel lavoro, e sforzandosi di promuovere una cultura e una prassi attente alla salute e alla sicurezza, l’ANMIL svolge una funzione sociale molto importante, per la quale, a nome del popolo di Dio, vi manifesto stima e gratitudine.
Quanti, sul lavoro, si sono infortunati con conseguenze permanenti e debilitanti, vivono una situazione di particolare sofferenza, soprattutto quando l’handicap che portano impedisce loro di continuare a lavorare e di provvedere a sé e ai loro cari, come un tempo facevano. A tutti costoro esprimo la mia vicinanza. Dio consola chi soffre avendo Egli stesso sofferto, e si fa vicino ad ogni situazione di indigenza e di umiltà. Con la sua forza, ognuno è chiamato a un impegno fattivo di solidarietà e di sostegno nei confronti di chi è vittima di incidenti sul lavoro; sostegno che deve estendersi alle famiglie, ugualmente colpite e bisognose di conforto. Facendo questo, l’ANMIL svolge un compito nobile ed essenziale, e richiama a tutta la società il dovere di riconoscenza e aiuto concreto verso quanti si sono infortunati nello svolgimento dell’attività lavorativa. La scarsità delle risorse, che giustamente preoccupa i governi, non può certo toccare ambiti delicati come questo, perché i tagli devono riguardare gli sprechi, ma non va mai tagliata la solidarietà!
L’indispensabile dimensione assistenziale non esaurisce i compiti della società e dell’Associazione stessa, che nello Statuto (cfr art. 3) prevede che si miri all’inserimento o reinserimento professionale e sociale, ed è attenta a che la solidarietà si coniughi sempre con la sussidiarietà, che ne rappresenta il completamento, in modo che ad ognuno sia permesso di offrire al bene comune il proprio contributo. L’insegnamento sociale della Chiesa, al quale vi esorto a ispirarvi sempre, richiama costantemente questo equilibrio tra solidarietà e sussidiarietà. Esso va ricercato e costruito in ogni circostanza e ambito sociale, in modo che, da un lato, non venga mai a mancare la solidarietà e, dall’altro, non ci si limiti ad essa rendendo passivo chi ancora può dare un importante contributo al mondo del lavoro, ma lo si coinvolga attivamente, mettendo a frutto le sue capacità.
Lo stile sussidiario, che ora ho richiamato, aiuta tutta la comunità civile a superare la fallace e dannosa equivalenza tra lavoro e produttività, che porta a misurare il valore delle persone in base alla quantità di beni o di ricchezza che producono, riducendole a ingranaggio di un sistema, e svilendo la loro peculiarità e ricchezza personale. Questo sguardo malato contiene in sé il germe dello sfruttamento e dell’asservimento, e si radica in una concezione utilitaristica della persona umana.
Proprio per questo è preziosa l’instancabile attività dell’ANMIL a favore dei diritti dei lavoratori, a partire dai più deboli e meno tutelati, quali non di rado sono le donne, i più anziani e gli immigrati. Il nostro mondo ha bisogno qui di un sussulto di umanità, che porti ad aprire gli occhi e vedere che chi ci sta davanti non è una merce, ma una persona e un fratello in umanità.
Non posso che rallegrarmi, a questo proposito, per l’impegno che profondete in collaborazione con le istituzioni civili, e in particolare con il Ministero del Lavoro e con quello dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Avete dato vita a moltissimi progetti di formazione, rivolti agli studenti delle scuole e ai lavoratori, ai dirigenti e ai responsabili delle aziende, in modo che si prenda maggiormente coscienza delle esigenze della sicurezza e della tutela della salute dei lavoratori. Tale sinergia ha anche prodotto, ormai dieci anni fa, l’importante Testo unico sulla sicurezza, sulla cui piena attuazione siete chiamati a vigilare. Questa costante attenzione all’ambito legislativo, oltre che all’impegno solidale, rivela da parte vostra la consapevolezza che la creazione di una nuova cultura del lavoro non può fare a meno di un più adeguato quadro legislativo, che risponda alle reali esigenze dei lavoratori, oltre che di una più profonda coscienza sociale sul problema della tutela della salute e della sicurezza, senza la quale le leggi resterebbero lettera morta.
Al perfezionamento del piano legislativo, oltre che alla formazione di una cultura più attenta alla sicurezza del lavoro, mira il dettagliato e prezioso Rapporto sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, che avete presentato pochi giorni fa. Esso testimonia la vostra dedizione e concretezza e rivela, a chiunque lo prenda in mano, che le battaglie che portate avanti da 75 anni con impegno e determinazione, non riguardano solo chi è stato vittima del lavoro o svolga lavori pericolosi e usuranti, ma ogni cittadino, perché insieme alla cultura del lavoro e della sicurezza è in gioco la sostanza stessa della democrazia, che si fonda sul rispetto e la tutela della vita di ognuno.
Cari amici, vi esorto a portare avanti questa nobile missione, che contrasta l’indifferenza e la tristezza e aumenta la fraternità e la gioia. Vi accompagno con la mia preghiera e la mia benedizione. E anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

 

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INCONTRO CON SACERDOTI, RELIGIOSI E RELIGIOSE, CONSACRATI E CONSACRATE, SEMINARISTI
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo a Kaunas (Lituania)
Domenica, 23 settembre 2018

(…) Dobbiamo domandarci nuovamente: che cosa ci chiede il Signore? Quali sono le periferie che più hanno bisogno della nostra presenza per portare ad esse la luce del Vangelo? (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).
Altrimenti, se voi non avete la gioia della vocazione, chi potrà credere che Gesù Cristo è la nostra speranza? Solo il nostro esempio di vita darà ragione della nostra speranza in Lui.
C’è un’altra cosa che si collega con la tristezza: confondere la vocazione con un’impresa, con una ditta di lavoro. “Io mi impiego in questo, lavoro in questo, mi entusiasmo con questo…, e sono felice perché ho questo”. Ma domani, viene un vescovo, un altro o lo stesso, o viene un altro superiore, superiora, e ti dice: “No, taglia questo e va da quella parte”. È il momento della sconfitta. Perché? Perché, in quel momento, ti accorgerai di essere andato per una strada equivoca. Ti accorgerai che il Signore, che ti ha chiamato per amare, è deluso da te, perché tu hai preferito fare l’affarista. All’inizio vi ho detto che la vita di chi segue Gesù non è la vita di funzionario o funzionaria: è la vita dell’amore del Signore e dello zelo apostolico per la gente. Farò una caricatura: cosa fa un prete funzionario? Ha il suo orario, il suo ufficio, apre l’ufficio a quell’ora, fa il suo lavoro, chiude l’ufficio… E la gente è fuori. Non si avvicina alla gente. Cari fratelli e sorelle, se voi non volete essere dei funzionari, vi dirò una parola: vicinanza!
Vicinanza, prossimità. Vicinanza al Tabernacolo, a tu per tu con il Signore. E vicinanza alla gente. “Ma, padre, la gente non viene…”. Vai a trovarla! “Ma, i ragazzi oggi non vengono…”. Inventa qualcosa: l’oratorio, per seguirli, per aiutarli. Vicinanza con la gente. E vicinanza con il Signore nel Tabernacolo. Il Signore vi vuole pastori di popolo, e non chierici di Stato! (…)

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
 IN OCCASIONE DELLA 60ma GIORNATA MONDIALE DEL SORDO
28.09.2018

 (…)Siamo chiamati insieme ad andare controcorrente, lottando anzitutto perché sia sempre tutelato il diritto di ogni uomo e ogni donna a una vita dignitosa. Non si tratta solo di soddisfare determinati bisogni, ma più ancora di vedere riconosciuto il proprio desiderio di essere accolti e poter vivere in autonomia. La sfida è che l’inclusione diventi mentalità e cultura, e che i legislatori e i governanti non facciano mancare a questa causa il loro coerente e concreto sostegno. Tra i diritti da garantire non vanno poi dimenticati quelli allo studio, al lavoro, alla casa, all’accessibilità nella comunicazione. Per questo, mentre si porta avanti con tenacia la doverosa lotta contro le barriere architettoniche, bisogna impegnarsi per abbattere tutte le barriere che impediscono la possibilità di relazione e di incontro in autonomia e per giungere a un’autentica cultura e pratica dell’inclusione. Questo vale sia per la società civile, sia per la comunità ecclesiale.
Molti di voi hanno raggiunto la propria posizione sociale e professionale, anche di alto livello, con grande fatica a motivo della sordità, e questa è una grande conquista umana e civile. Ma come sono contento quando vedo che voi, come pure altre persone con disabilità, in forza del vostro Battesimo raggiungete tali traguardi anche nell’ambito della Chiesa, soprattutto nel campo dell’evangelizzazione! Questo diventa esempio e stimolo per le comunità cristiane nella loro vita quotidiana.(…)

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OTTOBRE 2018

 

DIALOGO DEL SANTO PADRE FRANCESCO CON GIOVANI E ANZIANI
Istituto Patristico Augustinianum
Martedì, 23 ottobre 2018

(…) Riprendo: la fede va trasmessa sempre in dialetto: il dialetto di casa. E anche il dialetto dell’amicizia, della vicinanza, ma sempre in dialetto. Lei non può trasmettere la fede con il Catechismo: “leggi il Catechismo e avrai la fede”. No. Perché la fede non sono soltanto i contenuti, c’è il modo di vivere, di valutare, di gioire, di rattristarsi, di piangere…: è tutta una vita che porta lì. E la Sua domanda è un po’ – mi permetto –, sembra un po’ esprimere un senso di colpa: “Forse abbiamo fallito nella trasmissione della fede?”. No. Non si può dire questo. La vita è così. All’inizio voi avete trasmesso la fede, ma poi si vive, e il mondo fa delle proposte che entusiasmano i figli nella loro crescita, e tanti si allontanano dalla fede perché fanno una scelta, non sempre cattiva, ma tante volte inconsapevole, tra i valori, sentono delle ideologie più moderne e si allontanano. Ho voluto soffermarmi su questa descrizione della trasmissione della fede per dire il mio parere. La prima cosa è non spaventarsi, non perdere la pace. La pace, sempre parlando con il Signore: “Noi abbiamo trasmesso la fede e adesso…”. Tranquilli. Mai cercare di convincere, perché la fede, come la Chiesa, non cresce per proselitismo, cresce per attrazione – questa è una frase di Benedetto XVI – cioè per testimonianza. Ascoltarli, accoglierli bene, i nipotini, i figli, accompagnarli in silenzio.

Mi viene in mente un aneddoto di un sindacalista – un dirigente, un sindacalista che ho conosciuto –, che a 20/21 anni era caduto nella dipendenza dall’alcol. Viveva da solo con la mamma, perché la mamma lo aveva avuto da ragazza. Lui si ubriacava. E al mattino vedeva che la mamma usciva per andare a lavorare: lavorava lavando le tovaglie, le camicie, come si lavava in quel tempo, con l’asse di legno. Lavorava tutta la giornata, e il figlio lì… E lui vedeva la mamma, ma faceva finta di dormire – non aveva lavoro in un tempo in cui c’era tanto lavoro – e guardava come la mamma si fermava, lo guardava con tenerezza e se ne andava a lavorare. Questo lo ha fatto crollare: quel silenzio, quella tenerezza della mamma ha fatto crollare tutte le resistenze e lui un giorno ha detto: “No, non può essere così”, si è dato da fare, è maturato e ha fatto una buona famiglia, una buona carriera… Silenzio, tenerezza… Silenzio che accompagna, non il silenzio dell’accusa, no, quello che accompagna. E’ una delle virtù dei nonni. Abbiamo visto tante cose nella vita che tante volte soltanto il silenzio buono, quello caldo, può aiutare (…).

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DICEMBRE 2018

 

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Manuale per fare la pace
Martedì, 4 dicembre 2018

(…)

Con lo stile umile degli artigiani «vivere in pace nella nostra anima, a casa con la famiglia, a scuola, nel lavoro, nel quartiere»: ecco l’impegno pratico per l’Avvento — un vero e proprio manuale per costruire la pace nella quotidianità con tanto di esame di coscienza per tutti, bambini compresi — suggerito da Francesco nella messa celebrata martedì 4 dicembre a Santa Marta.

(…)

«Questo tempo di Avvento è un tempo per prepararci a questa venuta del principe della pace» ha rilanciato il Pontefice. È, dunque, «un tempo per pacificarsi: prima di tutto, pacificarci con noi stessi, pacificare l’anima», perché «tante volte noi non siamo in pace; siamo in ansia, siamo in angoscia, senza speranza e la domanda che ci fa il Signore è: “Come è la tua anima, oggi, è in pace?” — “Eh, non so” – “Ma, guarda, se non è in pace incomincia questa strada per pacificarla” — “Ma io non posso”». Ma «lui può», ha affermato il Papa, invitando a chiedere «a lui di pacificarti: il principe della pace pacifica l’anima».
Ecco che, ha fatto presente Francesco, «il primo passo di questo tempo di Avvento è pacificare l’anima di ognuno». In realtà, «noi siamo abituati a guardare l’anima altrui: “Ma guarda quello, guarda quella, cosa fa”». Dobbiamo invece guardare la nostra anima e chiedere e a noi stessi: «Come stai? Il tuo cuore cosa sente? È in pace? Sei arrabbiato? Sei arrabbiata? Sei ansioso, ansiosa?». Così, ha insistito il Papa, «chiedi al Signore la grazia di pacificare l’anima, per prepararti all’incontro con lui».
«Poi un’altra cosa da pacificare è la casa» ha detto ancora il Pontefice, suggerendo di domandarci: «a casa come va la pace?». Bisogna sempre «pacificare la famiglia: ci sono tante tristezze nelle famiglie, tante lotte, tante piccole guerre, tanta disunione delle volte». E così «non c’è pace: uno contro l’altro o sfida l’altro». Perciò, ha proposto Francesco, «ognuno si domandi: come è la mia famiglia? È in pace o è in guerra? È unita o c’è la disunione? Ci sono tutti ponti fra noi o ci sono muri che ci separano?». Con l’obiettivo di «pacificare la famiglia».
Occorre anche allargare gli orizzonti per «guardare il mondo — ha invitato il Papa — e vedere che c’è più guerra che pace: c’è tanta guerra, tanta disunione, tanto odio, tanto sfruttamento. Non c’è pace». Ma «cosa faccio io per aiutare la pace nel mondo?». Ci si potrebbe giustificare dicendo che «il mondo è troppo lontano». E allora il Pontefice ha invitato a verificare «cosa faccio io per aiutare la pace nel quartiere, nella scuola, nel posto di lavoro: prendo sempre qualche scusa per entrare in guerra, per odiare, per sparlare degli altri? Questo è fare la guerra! Sono mite? Cerco di fare dei ponti? Non condanno?». È una questione che riguarda anche i bambini, ai quali bisogna chiedere: «A scuola, quando c’è un compagno, una compagna che non ti piace, è un po’ odioso o è debole, tu fai il bullismo o fai la pace, cerchi di fare pace? Perdono tutto?». Lo stile deve essere quello degli «artigiani di pace» e «ci vuole questo tempo di Avvento, di preparazione alla venuta del Signore che è il principe della pace».
«E la pace — ha spiegato Francesco — sempre va avanti, mai è ferma, arriva a un punto e dà un altro passo di pace, un altro passo di pace: è feconda». Di più, «la pace incomincia dall’anima e poi torna all’anima dopo aver fatto tutto questo cammino di pacificazione». Perciò «fare la pace è un po’ imitare Dio quando ha voluto fare la pace con noi e ci ha perdonati, ci ha inviato suo Figlio a fare la pace, a essere il principe della pace».
Tutti sono chiamati a essere artigiani di pace. Forse, ha suggerito il Pontefice, «qualcuno può dire: “padre, io non ho studiato come si fa la pace, non sono una persona colta, non so, sono giovane, non so”». Ma è Gesù stesso, nel passo evangelico di Luca proposto dalla liturgia (10, 21-24), a dirci «quale deve essere l’atteggiamento: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”». Magari, ha ripetuto il Papa, «tu non hai studiato, non sei sapiente», ma «fatti piccolo, fatti umile, fatti servitore degli altri: fatti piccolo e il Signore ti darà la capacità di capire come si fa la pace e la forza di farla».
«Vivere in pace nella nostra anima, a casa con la famiglia, a scuola, nel lavoro, nel quartiere, vivere in pace, questa sarà la preghiera di questo tempo di Avvento» ha suggerito Francesco. Si tratta di «pacificare, fare la pace, con umiltà». E «ogni volta che noi vediamo che c’è la possibilità di una piccola guerra, sia a casa sia nel mio cuore sia a scuola, a lavoro, fermarsi e cercare di fare la pace». Soprattutto «mai, mai ferire l’altro, mai». E il primo passo «per non ferire l’altro» è proprio «non sparlare degli altri, non buttare la prima cannonata». Con la certezza che «se tutti noi facessimo solo questo — non sparlare degli altri — la pace andrebbe più avanti».
«Che il Signore ci prepari il cuore per il Natale del principe della pace» ha concluso il Papa. Ma, ha aggiunto, «ci prepari facendo noi del tutto la nostra parte per pacificare: pacificare il mio cuore, la mia anima, pacificare la mia famiglia, la scuola, il quartiere, il posto di lavoro». Ed essere così veramente «uomini e donne di pace».

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MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
L'uomo del silenzio
Martedì, 18 dicembre 2018

Nel vangelo di Matteo (1, 18-24) Giuseppe «è presentato come è, con la sua personalità», e il Papa ha voluto soffermarsi su due «caratteristiche»: egli infatti è «l’uomo che sa accompagnare in silenzio» e «l’uomo dei sogni».

Innanzitutto, ha sottolineato il Pontefice citando la Scrittura, Giuseppe «era un uomo “giusto”, un osservante della legge, un lavoratore, umile, innamorato di Maria». Di fatto, «un uomo normale» che si trova improvvisamente a dover affrontare «una cosa che non capisce». Nel momento in cui egli, per amore di Maria, decide di «farsi da parte di nascosto», ecco che «Dio gli rivela la sua missione: “La tua missione sarà questa: coprire, accompagnare, far crescere”. E lui dice di sì. E lo fa in silenzio».

Ecco la prima caratteristica fondamentale di quest’uomo. Addirittura, ha ricordato Francesco, nel vangelo «non c’è una sola parola di Giuseppe». Non vengono neanche riportate le sue parole di assenso: «Sì, lo farò». Matteo scrive direttamente: «“Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo”. Senza parlare».

E Giuseppe abbracciò così, «nel silenzio», il suo ruolo di genitore che aiuta a crescere: «Cercò un posto perché il figlio nascesse; lo curò; lo aiutò a crescere; gli insegnò il lavoro: tante cose... in silenzio». E proprio il «lascia crescere», ha spiegato il Papa, «sarebbe la parola che ci aiuterebbe tanto, a noi che per natura sempre vogliamo mettere il naso in tutto, soprattutto nella vita altrui. “E perché fa quello? Perché l’altro…?” E cominciano a chiacchierare, dire». Giuseppe, invece, «lascia crescere, custodisce, aiuta, ma in silenzio».

Un verbo sintetizza questo atteggiamento: “accompagnare”. A tale riguardo il Pontefice ha fatto riferimento a tante situazioni che si verificano nella vita quotidiana: «Tante volte i genitori vedono i loro figli che non fanno cose buone, e alcune volte gli parlano, ma alcune volte sentono che non devono parlare, e guardare dall’altra parte. Questa è la saggezza dei bravi genitori, che sanno educare. Anche se vedono il figlio che passa per un momento difficile, che prende una strada sbagliata, aspettano il momento di parlare. Non sgridano subito: no, aspettano, e cercano l’opportunità per dire la parola che faccia crescere».

È uno stile che rimanda a quello di Dio, alla sua «pazienza» nei confronti dell’uomo — «Ma come ci tollera il nostro Dio, eh?» si è chiesto Francesco — ed è un suggerimento per ogni genitore: «Lascia, lascia andare i processi, e parla un po’ meno».

Dal vangelo del giorno emerge, poi, la seconda caratteristica di Giuseppe, «l’uomo dei sogni». Il Papa ha approfondito questo aspetto spiegandone l’importanza: «Nei sogni noi siamo un po’ più liberi, ci liberiamo... E nei sogni vengono su tante cose del nostro inconscio, si rivelano cose che noi non capiamo bene della nostra vita o ricordi. Il sogno è un posto privilegiato per cercare la verità, perché lì non ci difendiamo dalla verità». Può anche accadere, ha aggiunto, che Dio parli nei sogni: «Non sempre, perché di solito è il nostro inconscio che parla, ma Dio tante volte ha scelto di parlare nei sogni». Nella Bibbia viene raccontato molte volte.

Giuseppe, quindi, era «l’uomo dei sogni, ma non era un sognatore, eh? Non era un fantasioso». La differenza è sostanziale: «un sognatore è un’altra cosa: è quello che crede... va... sta sull’aria, e non ha i piedi sulla terra». Giuseppe, invece, «aveva i piedi sulla terra. Ma era aperto, e lasciò che la parola di Dio si avverasse lì, in sogno, nella sua libertà, nel suo cuore aperto. Capì, e portò avanti quel sogno. Senza fantasia: il sogno “reale”, perché lui non era sognatore: era uomo concreto».

Cosa può insegnare all’uomo questa caratteristica? «Noi — ha detto il Pontefice — possiamo pensare se abbiamo la capacità di sognare o l’abbiamo persa. Pensiamo a una coppia di fidanzati: sognano il futuro insieme, i tanti figli che avranno, tante cose... È bello. E vanno avanti, si sposano... Poi vengono le difficoltà, e si scoraggiano un po’, alcuni si amareggiano, diventano amari, litigano tra loro, e quell’amore può fallire, perché guardano soltanto le difficoltà e non si ricordano dei sogni che avevano avuto».

Non si deve, ha aggiunto, «perdere la capacità di sognare il futuro». Questo vale per tutti: «sognare sulla nostra famiglia, sui nostri figli, sui nostri genitori. Guardare come io vorrei che andasse la vita loro». E vale anche per i sacerdoti: «Sognare sui nostri fedeli, cosa vogliamo per loro». Ognuno deve «sognare come sognano i giovani, che sono “spudorati” nel sognare, e lì trovano una strada. Non perdere la capacità di sognare, perché sognare è aprire le porte al futuro. Essere fecondi nel futuro».

 

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA CURIA ROMANA PER GLI AUGURI DI NATALE
Sala Clementina
Venerdì, 21 dicembre 2018

«La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm 13,12).

Cari fratelli e sorelle,

avvolti dalla gioia e dalla speranza che si irradiano dal volto del Bambino divino, ci incontriamo anche quest’anno per lo scambio degli auguri natalizi, portando nel cuore tutte le fatiche e le gioie del mondo e della Chiesa.

Auguro di vero cuore un Santo Natale a voi, ai vostri collaboratori, a tutte le persone che prestano servizio nella Curia, ai Rappresentanti Pontifici e ai collaboratori delle Nunziature. E desidero ringraziare voi per la vostra dedizione quotidiana al servizio della Santa Sede, della Chiesa e del Successore di Pietro. Tante grazie!

Permettetemi anche di dare un caloroso benvenuto al nuovo Sostituto della Segreteria di Stato, Sua Eccellenza Mons. Edgar Peña Parra, che ha iniziato il suo servizio, delicato e importante, il 15 ottobre scorso. La sua provenienza venezuelana rispecchia la cattolicità della Chiesa e la necessità di aprire sempre più gli orizzonti fino ai confini della terra. Benvenuto, cara Eccellenza, e buon lavoro!

Il Natale è la festa che ci riempie di gioia e ci dona la certezza che nessun peccato sarà mai più grande della misericordia di Dio, e nessun atto umano potrà mai impedire all’alba della luce divina di nascere e di rinascere nei cuori degli uomini. È la festa che ci invita a rinnovare l’impegno evangelico di annunciare Cristo, Salvatore del mondo e luce dell’universo. Se infatti «Cristo, “santo, innocente, immacolato” (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e immacolata e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” – fra le persecuzioni dello spirito mondano e le consolazioni dello Spirito di Dio – annunciando la passione e la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di Lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8).

Sulla base, dunque, della ferma convinzione che la luce è sempre più forte delle tenebre, vorrei riflettere con voi sulla luce che collega il Natale – cioè la prima venuta nell’umiltà – alla Parusia – la seconda venuta nello splendore – e ci conferma nella speranza che non delude mai. Quella speranza dalla quale dipende la vita di ciascuno di noi e tutta la storia della Chiesa e del mondo. Sarebbe brutta una Chiesa senza speranza!

Gesù, in realtà, nasce in una situazione sociopolitica e religiosa carica di tensione, di agitazioni e di oscurità. La sua nascita, da una parte attesa e dall’altra rifiutata, riassume la logica divina che non si ferma dinanzi al male, anzi lo trasforma radicalmente e gradualmente in bene, e anche la logica maligna che trasforma perfino il bene in male, per portare l’umanità a rimanere nella disperazione e nelle tenebre: «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5).

Ogni anno il Natale ci ricorda, però, che la salvezza di Dio, donata gratuitamente all’umanità intera, alla Chiesa e in particolare a noi, persone consacrate, non agisce senza la nostra volontà, senza la nostra cooperazione, senza la nostra libertà, senza il nostro sforzo quotidiano. La salvezza è un dono, questo è vero, ma un dono che deve essere accolto, custodito e fatto fruttificare (cfr Mt 25,14-30). L’essere cristiani, in generale, e per noi in particolare l’essere unti, consacrati del Signore non significa comportarci come una cerchia di privilegiati che credono di avere Dio in tasca, ma da persone che sanno di essere amate dal Signore nonostante il nostro essere peccatori e indegni. I consacrati, infatti, non sono altro che servi nella vigna del Signore che devono dare, a tempo debito, il raccolto e il ricavato al Padrone della vigna (cfr Mt 20,1-16).

La Bibbia e la storia della Chiesa ci danno la dimostrazione che tante volte perfino gli stessi eletti, strada facendo, iniziano a pensare, a credere e a comportarsi come padroni della salvezza e non come beneficiari, come controllori dei misteri di Dio e non come umili distributori, come doganieri di Dio e non come servitori del gregge loro affidato.

Tante volte – per zelo eccessivo e mal indirizzato – invece di seguire Dio ci si mette davanti a Lui, come Pietro che criticò il Maestro e meritò il rimprovero più duro che Cristo abbia mai rivolto a una persona: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33).

Cari fratelli e sorelle,

nel mondo turbolento, la barca della Chiesa quest’anno ha vissuto e vive momenti difficili, ed è stata investita da tempeste e uragani. Tanti si sono trovati a chiedere al Maestro, che apparentemente dormiva: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38). Altri, sbalorditi dalle notizie, hanno iniziato a perdere la fiducia in essa e a abbandonarla; altri, per paura, per interesse, per secondi fini, hanno cercato di percuotere il suo corpo aumentandone le ferite; altri non nascondono la loro soddisfazione nel vederla scossa; moltissimi però continuano ad aggrapparsi con la certezza che «le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18).

Intanto la Sposa di Cristo prosegue il suo pellegrinaggio tra gioie e afflizioni, tra successi e difficoltà, esterne e interne. Certamente le difficoltà interne rimangono sempre quelle più dolorose e più distruttive.

 

Le afflizioni

Tante sono le afflizioni. Quanti immigrati – costretti a lasciare la patria e a rischiare la vita – incontrano la morte, o quanti sopravvivono ma trovano le porte chiuse e i loro fratelli in umanità impegnati nelle conquiste politiche e di potere. Quanta paura e pregiudizio! Quante persone e quanti bambini muoiono ogni giorno per mancanza di acqua, di cibo e di medicine! Quanta povertà e miseria! Quanta violenza contro i deboli e contro le donne! Quanti scenari di guerre dichiarate e non dichiarate! Quanto sangue innocente viene versato ogni giorno! Quanta disumanità e brutalità ci circondano da ogni parte! Quante persone vengono sistematicamente torturate ancora oggi nelle stazioni di polizia, nelle carceri e nei campi dei profughi in diverse parti del mondo!

Viviamo anche, in realtà, una nuova epoca di martiri. Sembra che la crudele e atroce persecuzione dell’impero romano non conosca fine. Nuovi Neroni nascono continuamente per opprimere i credenti, soltanto per la loro fede in Cristo. Nuovi gruppi estremisti si moltiplicano prendendo di mira le chiese, i luoghi di culto, i ministri e i semplici fedeli. Nuovi e vecchi circoli e conventicole vivono nutrendosi di odio e ostilità verso Cristo, la Chiesa e i credenti. Quanti cristiani vivono ancora oggi sotto il peso della persecuzione, dell’emarginazione, della discriminazione e dell’ingiustizia in tante parti del mondo! Continuano, tuttavia, coraggiosamente ad abbracciare la morte per non negare Cristo. Quanto è difficile, ancora oggi, vivere liberamente la fede in tante parti del mondo ove manca la libertà religiosa e la libertà di coscienza!

Dall’altra parte, l’esempio eroico dei martiri e dei numerosissimi buoni samaritani, ossia dei giovani, delle famiglie, dei movimenti caritativi e di volontariato e di tanti fedeli e consacrati, non ci fa scordare comunque la contro-testimonianza e gli scandali di alcuni figli e ministri della Chiesa.

Mi limito qui soltanto alle due piaghe degli abusi e dell’infedeltà.

La Chiesa da diversi anni è seriamente impegnata a sradicare il male degli abusi, che grida vendetta al Signore, al Dio che non dimentica mai la sofferenza vissuta da molti minori a causa di chierici e persone consacrate: abusi di potere, di coscienza e sessuali.

Pensando a questo doloroso argomento mi è venuta in mente la figura del re Davide – un «unto del Signore» (cfr 1 Sam 16,13; 2 Sam 11–12). Egli, dalla cui discendenza deriva il Bambino Divino – chiamato anche il “Figlio di Davide” –, nonostante il suo essere eletto, re e unto del Signore, commise un triplice peccato, cioè tre gravi abusi insieme: abuso sessuale, di potere e di coscienza. Tre abusi distinti, che però convergono e si sovrappongono.

La storia inizia, come sappiamo, quando il re, pur essendo esperto di guerra, rimane a casa a oziare invece di andare in mezzo al popolo di Dio in battaglia. Davide approfitta, per suo comodo e interesse, del suo essere il re (abuso di potere). L’unto, abbandonandosi alla comodità, inizia l’irrefrenabile declino morale e di coscienza. Ed è proprio in questo contesto che egli, dalla terrazza della reggia, vede Betsabea, moglie di Uria l’ittita, mentre fa il bagno e se ne sente attratto (cfr 2 Sam 11). La manda a chiamare e si unisce a lei (altro abuso di potere, più abuso sessuale). Così abusa di una donna sposata e sola e, per coprire il suo peccato, richiama a casa Uria e cerca invano di convincerlo a passare la notte con la moglie. E successivamente ordina al capo dell’esercito di esporre Uria a morte certa in battaglia (altro abuso di potere, più abuso di coscienza). La catena del peccato si allarga a macchia d’olio e diventa rapidamente una rete di corruzione. Lui è rimasto a casa a oziare.

Dalle scintille dell’accidia e della lussuria, e dall’“abbassare la guardia”, inizia la catena diabolica dei peccati gravi: adulterio, menzogna e omicidio. Presumendo, essendo re, di poter fare tutto e ottenere tutto, Davide cerca anche di ingannare il marito di Betsabea, la gente, sé stesso e perfino Dio. Il re trascura la sua relazione con Dio, trasgredisce i comandamenti divini, ferisce la propria integrità morale, senza neanche sentirsi in colpa. L’unto continuava a esercitare la sua missione come se niente fosse. L’unica cosa che gli importava era salvaguardare la sua immagine e la sua apparenza. «Perché coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 164). Da peccatori finiscono per diventare corrotti.

Anche oggi ci sono tanti “unti del Signore”, uomini consacrati, che abusano dei deboli, approfittando del proprio potere morale e di persuasione. Compiono abomini e continuano a esercitare il loro ministero come se niente fosse; non temono Dio o il suo giudizio, ma temono soltanto di essere scoperti e smascherati. Ministri che lacerano il corpo della Chiesa, causando scandali e screditando la missione salvifica della Chiesa e i sacrifici di tanti loro confratelli.

Anche oggi, cari fratelli e sorelle, tanti Davide, senza batter ciglio, entrano nella rete di corruzione, tradiscono Dio, i suoi comandamenti, la propria vocazione, la Chiesa, il popolo di Dio e la fiducia dei piccoli e dei loro familiari. Spesso dietro la loro smisurata gentilezza, impeccabile operosità e angelica faccia, nascondono spudoratamente un lupo atroce pronto a divorare le anime innocenti.

I peccati e i crimini delle persone consacrate si colorano di tinte ancora più fosche di infedeltà, di vergogna e deformano il volto della Chiesa minando la sua credibilità. Infatti, la Chiesa, insieme ai suoi figli fedeli, è anche vittima di queste infedeltà e di questi veri e propri “reati di peculato”.

 

Cari fratelli e sorelle,

sia chiaro che dinanzi a questi abomini la Chiesa non si risparmierà nel compiere tutto il necessario per consegnare alla giustizia chiunque abbia commesso tali delitti. La Chiesa non cercherà mai di insabbiare o sottovalutare nessun caso. È innegabile che alcuni responsabili, nel passato, per leggerezza, per incredulità, per impreparazione, per inesperienza – dobbiamo giudicare il passato con l’ermeneutica del passato – o per superficialità spirituale e umana hanno trattato tanti casi senza la dovuta serietà e prontezza. Ciò non deve accadere mai più. Questa è la scelta e la decisione di tutta la Chiesa.

A febbraio prossimo la Chiesa ribadirà la sua ferma volontà nel proseguire, con tutta la sua forza, sulla strada della purificazione. La Chiesa si interrogherà, avvalendosi anche degli esperti, su come proteggere i bambini; come evitare tali sciagure, come curare e reintegrare le vittime; come rafforzare la formazione nei seminari. Si cercherà di trasformare gli errori commessi in opportunità per sradicare tale piaga non solo dal corpo della Chiesa ma anche da quello della società. Infatti, se questa gravissima calamità è arrivata a colpire alcuni ministri consacrati, ci si domanda: quanto essa potrebbe essere profonda nelle nostre società e nelle nostre famiglie? La Chiesa dunque non si limiterà a curarsi, ma cercherà di affrontare questo male che causa la morte lenta di tante persone, al livello morale, psicologico e umano.

 

Cari fratelli e sorelle,

parlando di questa piaga, alcuni all’interno della Chiesa si infervorano contro certi operatori della comunicazione, accusandoli di ignorare la stragrande maggioranza dei casi di abusi, che non sono commessi dai chierici della Chiesa – le statistiche parlano di più del 95% - e accusandoli di voler intenzionalmente dare una falsa immagine, come se questo male avesse colpito solo la Chiesa Cattolica. Invece io vorrei ringraziare vivamente quegli operatori dei media che sono stati onesti e oggettivi e che hanno cercato di smascherare questi lupi e di dare voce alle vittime. Anche se si trattasse di un solo caso di abuso – che rappresenta già di per sé una mostruosità – la Chiesa chiede di non tacere e di portarlo oggettivamente alla luce, perché lo scandalo più grande in questa materia è quello di coprire la verità.

Ricordiamo tutti che solo grazie all’incontro con il profeta Natan Davide comprende la gravità del suo peccato. Abbiamo bisogno oggi di nuovi Natan che aiutino i tanti Davide a svegliarsi da una vita ipocrita e perversa. Per favore, aiutiamo la Santa Madre Chiesa nel suo compito difficile, ossia quello di riconoscere i casi veri distinguendoli da quelli falsi, le accuse dalle calunnie, i rancori dalle insinuazioni, le dicerie dalle diffamazioni. Un compito assai difficile, in quanto i veri colpevoli sanno nascondersi scrupolosamente, al punto che tante mogli, madri e sorelle non riescono a scoprirli nelle persone più vicine: mariti, padrini, nonni, zii, fratelli, vicini, maestri... Anche le vittime, ben scelte dai loro predatori, spesso preferiscono il silenzio e addirittura, in balia della paura, diventano sottomesse alla vergogna e al terrore di essere abbandonate.

E a quanti abusano dei minori vorrei dire: convertitevi e consegnatevi alla giustizia umana, e preparatevi alla giustizia divina, ricordandovi delle parole di Cristo: «Chi scandalizzerà anche uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!» (Mt 18,6-7).

 

Cari fratelli e sorelle,

ora permettetemi di parlare anche di un’altra afflizione, ossia dell’infedeltà di coloro che tradiscono la loro vocazione, il loro giuramento, la loro missione, la loro consacrazione a Dio e alla Chiesa; coloro che si nascondono dietro buone intenzioni per pugnalare i loro fratelli e seminare zizzania, divisione e sconcerto; persone che trovano sempre giustificazioni, perfino logiche, perfino spirituali, per continuare a percorrere indisturbati la strada della perdizione.

E questa non è una novità nella storia della Chiesa. Sant’Agostino, parlando del buon grano e della zizzania, afferma : «Credete forse, fratelli miei, che la zizzania non possa salire fino alle cattedre episcopali? Credete forse che essa sia solo nei ceti inferiori e non in quelli superiori? Volesse il cielo che noi non fossimo zizzania! […] Anche sulle cattedre episcopali c’è il frumento e c’è la zizzania; e tra le varie comunità di fedeli c’è il frumento e c’è la zizzania» (Sermo 73, 4: PL 38, 472).

Queste parole di Sant’Agostino ci esortano a ricordare il proverbio: “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”; e ci aiutano a capire che il Tentatore, il Grande Accusatore, è colui che divide, semina discordia, insinua inimicizia, persuade i figli e li porta a dubitare.

In realtà, in realtà dietro questi seminatori di zizzania si trovano quasi sempre le trenta monete d’argento. Ecco allora che la figura di Davide ci porta a quella di Giuda Iscariota, un altro scelto dal Signore che vende e consegna alla morte il suo maestro. Davide peccatore e Giuda Iscariota saranno sempre presenti nella Chiesa, in quanto rappresentano la debolezza, che fa parte del nostro essere umano. Sono icone dei peccati e dei crimini compiuti da persone elette e consacrate. Uniti nella gravità del peccato, si distinguono tuttavia nella conversione. Davide si pentì affidandosi alla misericordia di Dio, mentre Giuda si suicidò.

Tutti noi quindi, per far risplendere la luce di Cristo, abbiamo il dovere di combattere ogni corruzione spirituale, che «è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). Così terminò i suoi giorni Salomone, mentre il gran peccatore Davide seppe superare la sua miseria» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165).

 

Le gioie

Passiamo alle gioie. Sono state numerose quest’anno, ad esempio, la buona riuscita del Sinodo dedicato ai giovani, di cui parlava il Cardinale Decano. I passi finora compiuti nella riforma della Curia. Tanti si domandano: quando finirà? Non finirà mai, ma i passi sono buoni. Ad esempio, i lavori di chiarimento e di trasparenza nell’economia; i lodevoli sforzi compiuti dall’Ufficio del Revisore Generale e dall’Autorità di Informazione Finanziaria; i buoni risultati raggiunti dall’Istituto per le Opere di Religione; la nuova Legge dello Stato della Città del Vaticano; il Decreto sul lavoro in Vaticano, e tante altre realizzazioni meno visibili. Ricordiamo, tra le gioie, i nuovi Beati e Santi che sono le “pietre preziose” che adornano il volto della Chiesa e irradiano nel mondo speranza, fede e luce. È doveroso menzionare qui i diciannove martiri d’Algeria: «Diciannove vite donate per Cristo, per il suo vangelo e per il popolo algerino, […] modelli di santità comune, la santità “della porta accanto”» (Thomas Georgeon, “Nel segno della fraternità”, L’Osservatore romano, 8 dicembre 2018, p. 6); l’alto numero di fedeli che ogni anno, ricevendo il Battesimo, rinnovano la giovinezza della Chiesa, quale madre sempre feconda, e i numerosissimi figli che rientrano a casa e riabbracciano la fede e la vita cristiana; le famiglie e i genitori che vivono seriamente la fede e la trasmettono quotidianamente ai propri figli attraverso la letizia del loro amore (cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 259-290); la testimonianza di tanti giovani che scelgono coraggiosamente la vita consacrata e il sacerdozio.

Un vero motivo di gioia è anche il grande numero di consacrati e consacrate, vescovi e sacerdoti, che vivono quotidianamente la loro vocazione in fedeltà, silenzio, santità e abnegazione. Sono persone che illuminano il buio dell’umanità, con la loro testimonianza di fede, di amore e di carità. Persone che lavorano pazientemente, per amore a Cristo e al suo Vangelo, a favore dei poveri, degli oppressi e degli ultimi, senza cercare di mettersi sulle prime pagine dei giornali o di occupare i primi posti. Persone che, lasciando tutto e offrendo la loro vita, portano la luce della fede dove Cristo è abbandonato, assetato, affamato, carcerato e nudo (cfr Mt 25,31-46). E penso particolarmente ai numerosi parroci che offrono ogni giorno buon esempio al popolo di Dio, sacerdoti vicini alle famiglie, conoscono i nomi di tutti e vivono la loro vita in semplicità, fede, zelo, santità e carità. Persone dimenticate dai mass media ma senza le quali regnerebbe il buio.

 

Cari fratelli e sorelle,

parlando della luce, delle afflizioni, di Davide e di Giuda, ho voluto mettere in risalto il valore della consapevolezza, che si deve trasformare in un dovere di vigilanza e di custodia da parte di chi, nelle strutture della vita ecclesiastica e consacrata, esercita il servizio del governo. In realtà, la forza di qualsiasi Istituzione non risiede nell’essere composta da uomini perfetti (questo è impossibile) ma nella sua volontà di purificarsi continuamente; nella sua capacità di riconoscere umilmente gli errori e correggerli; nella sua abilità di rialzarsi dalle cadute; nel vedere la luce del Natale che parte dalla mangiatoia di Betlemme, percorre la storia e arriva fino alla Parusia.

È necessario dunque aprire il nostro cuore alla vera luce, Gesù Cristo: la luce che può illuminare la vita e trasformare le nostre tenebre in luce; la luce del bene che vince il male; la luce dell’amore che supera l’odio; la luce della vita che sconfigge la morte; la luce divina che trasforma in luce tutto e tutti; la luce del nostro Dio: povero e ricco, misericordioso e giusto, presente e nascosto, piccolo e grande.

Ricordiamo le parole stupende di San Macario il Grande, padre del deserto egiziano del IV secolo, che, parlando del Natale, afferma: «Dio si fa piccolo! L’inaccessibile e increato, nella sua infinita e inimmaginabile bontà ha assunto un corpo e si è fatto piccolo. Nella sua bontà è disceso dalla sua gloria. Nessuno, nei cieli e sulla terra può comprendere la grandezza di Dio e nessuno, nei cieli e sulla terra può comprendere come Dio si fa povero e piccolo per i poveri e i piccoli. Come è incomprensibile la sua grandezza, così lo è anche la sua piccolezza» (cfr Omelie IV, 9-10; XXXII, 7: in Spirito e fuoco. Omelie spirituali. Collezione II, Qiqajon-Bose, Magnano 1995, p. 88-89; 332-333).

Ricordiamo che il Natale è la festa del «Dio grande che si fa piccolo e nella sua piccolezza non smette di essere grande. E in questa dialettica, grande è piccolo: c’è la tenerezza di Dio. Quella parola che la mondanità cerca sempre di togliere dal dizionario: tenerezza. Il Dio grande che si fa piccolo, che è grande e continua a farsi piccolo» (cfr Omelia a S. Marta, 14 dicembre 2017; Omelia a S. Marta, 25 aprile 2013).

Il Natale ci dona ogni anno la certezza che la luce di Dio continuerà a brillare nonostante la nostra miseria umana; la certezza che la Chiesa uscirà da queste tribolazioni, ancora più bella e purificata e splendida. Perché tutti i peccati, le cadute e il male commesso da alcuni figli della Chiesa non potranno mai oscurare la bellezza del suo volto, anzi, danno perfino la prova certa che la sua forza non sta in noi, ma sta soprattutto in Cristo Gesù, Salvatore del mondo e Luce dell’universo, che la ama e ha dato la sua vita per lei, sua sposa. Il Natale dà la prova che i gravi mali commessi da taluni non potranno mai offuscare tutto il bene che la Chiesa compie gratuitamente nel mondo. Il Natale dà la certezza che la vera forza della Chiesa e del nostro lavoro giornaliero, tante volte nascosto – come quello della Curia, dove ci sono dei santi –, sta nello Spirito Santo che la guida e la protegge attraverso i secoli, trasformando perfino i peccati in occasioni di perdono, le cadute in occasioni di rinnovamento, il male in occasione di purificazione e vittoria.

Grazie tante e Buon Natale a tutti!

[Benedizione]

Anche quest’anno vorrei lasciarvi un pensiero. E’ un classico: il Compendio di teologia ascetica e mistica di Tanquerey, ma nella recente edizione elaborata da Mons. Libanori, Vescovo ausiliare di Roma, e da padre Forlai, padre spirituale del Seminario di Roma. Credo che sia buono. Non leggerlo dall’inizio alla fine, ma cercare nell’indice questa virtù, questo atteggiamento, questa cosa… Ci farà bene, per la riforma di ognuno di noi e la riforma della Chiesa. È per voi!

 

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DISCORSO DEL SANTO PADRE
AI DIPENDENTI DELLA SANTA SEDE E DELLO
STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO IN OCCASIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
Aula Paolo VI
Venerdì, 21 dicembre 2018


Cari fratelli e sorelle,

grazie di essere venuti, molti anche con i familiari. Mi è piaciuto salutare le famiglie, ma il premio è per la bisnonna, 93 anni, con la figlia, che è nonna, con i genitori e i due bambini. È bella la famiglia così! E voi lavorate per la famiglia, per i figli, per portare avanti la famiglia. È una grazia! Custodite le famiglie. E buon Natale a tutti!

Il Natale è per eccellenza una festa gioiosa, ma spesso ci accorgiamo che la gente, e forse noi stessi, siamo presi da tante cose e alla fine la gioia non c’è, o, se c’è, è molto superficiale. Perché?

Mi è venuta in mente quella espressione dello scrittore francese Léon Bloy: «Non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi» (La donna povera, Reggio Emilia 1978, p. 375; cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 34). Dunque, il contrario della tristezza, cioè la gioia, è legata all’essere santi. Anche la gioia del Natale. Essere buoni, almeno avere il desiderio di essere buoni.

Guardiamo il presepe. Chi è felice, nel presepe? Questo mi piacerebbe chiederlo a voi bambini, che amate osservare le statuine… e magari anche muoverle un po’, spostarle, facendo arrabbiare il papà, che le ha sistemate con tanta cura!

Allora, chi è felice nel presepe? La Madonna e San Giuseppe sono pieni di gioia: guardano il Bambino Gesù e sono felici perché, dopo mille preoccupazioni, hanno accolto questo Regalo di Dio, con tanta fede e tanto amore. Sono “straripanti” di santità e quindi di gioia. E voi mi direte: per forza! Sono la Madonna e San Giuseppe! Sì, ma non pensiamo che per loro sia stato facile: santi non si nasce, si diventa, e questo vale anche per loro.

Poi, pieni di gioia sono i pastori. Anche i pastori sono santi, certo, perché hanno risposto all’annuncio degli angeli, sono accorsi subito alla grotta e hanno riconosciuto il segno del Bambino nella mangiatoia. Non era scontato. In particolare, nei presepi c’è spesso un pastorello, giovane, che guarda verso la grotta con aria trasognata, incantata: quel pastore esprime la gioia stupita di chi accoglie il mistero di Gesù con animo di fanciullo. Questo è un tratto della santità: conservare la capacità di stupirsi, di meravigliarsi davanti ai doni di Dio, alle sue “sorprese”, e il dono più grande, la sorpresa sempre nuova è Gesù. La grande sorpresa è Dio!

Poi, in alcuni presepi, quelli più grandi, con tanti personaggi, ci sono i mestieri: il ciabattino, l’acquaiolo, il fabbro, il fornaio…, e chi più ne ha più ne metta. E tutti sono felici. Perché? Perché sono come “contagiati” dalla gioia dell’avvenimento a cui partecipano, cioè la nascita di Gesù. Così anche il loro lavoro è santificato dalla presenza di Gesù, dalla sua venuta in mezzo a noi.

E questo ci fa pensare anche al nostro lavoro. Naturalmente lavorare ha sempre una parte di fatica, è normale. Ma io nella mia terra conoscevo qualcuno che non faticava mai: faceva finta di lavorare, ma non lavorava. Non faceva fatica, si capisce! Ma se ciascuno riflette un po’ della santità di Gesù, basta poco, un piccolo raggio – un sorriso, un’attenzione, una cortesia, un chiedere scusa – allora tutto l’ambiente del lavoro diventa più “respirabile”, non è vero? Si dirada quel clima pesante che a volte noi uomini e donne creiamo con le nostre prepotenze, le chiusure, i pregiudizi, e si lavora anche meglio, con più frutto.

C’è una cosa che ci rende tristi nel lavoro e fa ammalare l’ambiente del lavoro: è il chiacchiericcio. Per favore, non parlare male degli altri, non sparlare. “Sì, ma quello mi è antipatico, e quello…”. Guarda, prega per lui, ma non sparlare, per favore, perché questo distrugge: distrugge l’amicizia, la spontaneità. E criticare questo e quello. Guarda, meglio tacere. Se tu hai qualcosa contro di lui, vai e dillo direttamente. Ma non sparlare. “Eh padre, viene da sé, di sparlare…”. Ma c’è una bella medicina per non sparlare, ve la dirò: mordersi la lingua. Quando ti viene la voglia, morditi la lingua e così non sparlerai.

Anche negli ambienti di lavoro esiste “la santità della porta accanto” (cfr Gaudete et exsultate, 6-9). Anche qui in Vaticano, certo, io posso testimoniarlo. Conosco alcuni di voi che sono un esempio di vita: lavorano per la famiglia, e sempre con quel sorriso, con quella laboriosità sana, bella. È possibile la santità. È possibile. Questo è ormai il mio sesto Natale da Vescovo di Roma, e devo dire che ho conosciuto diversi santi e sante che lavorano qui. Santi e sante che vivono la vita cristiana bene, e se fanno qualche cosa brutta chiedono scusa. Ma vanno avanti, con la famiglia. Si può vivere così. È una grazia, ed è tanto bello. Di solito sono persone che non appaiono, persone semplici, modeste, ma che fanno tanto bene nel lavoro e nei rapporti con gli altri. E sono persone gioiose; non perché ridono sempre, no, ma perché hanno dentro una grande serenità e sanno trasmetterla agli altri. E da dove viene quella serenità? Sempre da Lui, Gesù, il Dio-con-noi. È Lui la fonte della nostra gioia, sia personale, sia in famiglia, sia sul lavoro.

Allora il mio augurio è questo: essere santi, per essere felici. Ma non santi da immaginetta, no, no. Santi normali. Santi e sante in carne e ossa, col nostro carattere, i nostri difetti, anche i nostri peccati – chiediamo perdono e andiamo avanti –, ma pronti a lasciarci “contagiare” dalla presenza di Gesù in mezzo a noi, pronti ad accorrere a Lui, come i pastori, per vedere questo Avvenimento, questo Segno incredibile che Dio ci ha dato. Cosa dicevano gli angeli? «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). Andremo a vederlo? O saremo presi da altre cose?

Cari fratelli e sorelle, non abbiamo paura della santità. Vi assicuro, è la strada della gioia. Buon Natale a tutti!