GENNAIO 2019
(…) Tra gli altri deboli, «sentiamo di fare Nostra – continuava Paolo VI – la voce […] dei giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità».
[8] Ai giovani, che tante volte si sentono smarriti e privi di certezze per l’avvenire, è stata dedicata la XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Essi saranno pure i protagonisti del viaggio apostolico che compirò a Panama tra qualche giorno in occasione della XXXIV Giornata Mondiale della Gioventù. I giovani sono il futuro, e compito della politica è aprire le strade del futuro. Per questo è quanto mai necessario investire in iniziative che permettano alle prossime generazioni di costruirsi un avvenire, avendo la possibilità di trovare lavoro, formare una famiglia e crescere dei figli. (…)
L’attenzione per i più deboli ci spinge a riflettere anche su un’altra piaga del nostro tempo, ovvero le condizioni dei lavoratori. Se non adeguatamente tutelato, il lavoro cessa di essere il mezzo attraverso il quale l’uomo si realizza e diventa una moderna forma di schiavitù. Cento anni fa nasceva l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che si è adoperata per favorire condizioni adeguate di lavoro e accrescere la dignità degli stessi lavoratori. Dinanzi alle sfide del nostro tempo, prime fra tutte il crescente sviluppo tecnologico che sottrae posti di lavoro e il venir meno di garanzie economiche e sociali per i lavoratori, esprimo l’auspicio che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro continui ad essere, al di là degli interessi parziali, esempio di dialogo e concertazione per il raggiungimento dei suoi alti obiettivi. In questa sua missione essa è chiamata ad affrontare, con altre istanze della comunità internazionale, anche la piaga del lavoro minorile e delle nuove forme di schiavitù, così come una progressiva diminuzione del valore delle retribuzioni, specialmente nei Paesi sviluppati, e la persistente discriminazione delle donne negli ambiti lavorativi.
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(…) La lotta contro la cultura dell’abuso, la ferita nella credibilità, come pure lo sconcerto, la confusione e il discredito nella missione esigono, ed esigono da noi, un atteggiamento nuovo e deciso per risolvere il conflitto. “Voi sapete che coloro che si considerano governanti – ci direbbe Gesù – dominano le nazioni come se ne fossero i padroni, e i potenti fanno sentire loro la propria autorità. Tra di voi questo non deve accadere”. La ferita nella credibilità esige un approccio particolare poiché non si risolve con decreti volontaristici o stabilendo semplicemente nuove commissioni o migliorando gli organigrammi di lavoro come se fossimo capi di un’agenzia di risorse umane. Una simile visione finisce col ridurre la missione del pastore della Chiesa a un mero compito amministrativo/organizzativo nella “impresa dell’evangelizzazione”. Diciamolo chiaramente, molte di queste cose sono necessarie, ma insufficienti, poiché non riescono ad assumere e ad affrontare la realtà nella sua complessità e corrono il rischio di finire col ridurre tutto a problemi organizzativi. (…)
La credibilità nasce dalla fiducia, e la fiducia nasce dal servizio sincero e quotidiano, umile e gratuito verso tutti, ma specialmente verso i prediletti del Signore (Mt 25, 31-46). Un servizio che non intende essere un’operazione di marketing o una mera strategia per recuperare il posto perso o il riconoscimento vano nel tessuto sociale ma – come ho voluto segnalare nell’ultima Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate – perché appartiene “alla sostanza stessa del Vangelo di Gesù” (n. 97). La chiamata alla santità ci protegge dal cadere in false opposizioni o riduzionismi e dal tacere dinanzi a un ambiente propenso all’odio e all’emarginazione, alla disunione e alla violenza tra fratelli. La Chiesa, “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, n. 1), porta nel suo essere e nel suo seno la sacra missione di essere terra d’incontro e ospitalità non solo per i suoi membri, ma anche per tutto il genere umano. È proprio della sua identità e missione lavorare instancabilmente per tutto ciò che può contribuire all’unità tra persone e popoli come simbolo e sacramento del dono di Cristo sulla Croce per tutti gli uomini senza alcun tipo di distinzione, “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). (…)
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(…) L’atteggiamento di prossimità alle persone è tipico anche del vostro lavoro, e voi avete la possibilità di testimoniarlo ogni giorno. Per vocazione, voi siete specialisti in prossimità. Grazie alla vostra preziosa opera di sorveglianza e di ordine pubblico, i pellegrini e i turisti – ognuno con la propria storia –, che da ogni parte del mondo raggiungono la Basilica di San Pietro, sono facilitati nella loro visita. È comunemente riconosciuta la vostra competenza e saggezza nell’affrontare le diverse situazioni, anche quelle più critiche; di questo anch’io voglio rendervi merito. Vi ringrazio tanto per la vostra professionalità e la vostra generosità! Vi esorto a perseverare e cercare il meglio nel vostro stile operativo, sforzandovi di accogliere tutti con tanta pazienza e comprensione, anche in quei momenti in cui si fa sentire la stanchezza o il peso di situazioni spiacevoli. (…)
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Anche noi, Padre, desideriamo essere una Chiesa che sostiene e accompagna, che sa dire: sono qui!, nella vita e nelle croci di tanti cristi che camminano al nostro fianco.
a Maria impariamo a dire “sì” alla resistenza forte e costante di tante madri, tanti padri, nonni, che non smettono di sostenere e accompagnare i loro figli e nipoti quando sono “nei guai”.
Da lei impariamo a dire “sì” alla pazienza testarda e alla creatività di quelli che non si perdono d’animo e ricominciano da capo nelle situazioni in cui sembra che tutto sia perduto, cercando di creare spazi, ambienti familiari, centri di attenzione che siano una mano tesa nella difficoltà.
In Maria impariamo la forza per dire “sì” a quelli che non hanno taciuto e non tacciono di fronte a una cultura del maltrattamento e dell’abuso, del discredito e dell’aggressione, e lavorano per offrire opportunità e condizioni di sicurezza e protezione.
In Maria impariamo ad accogliere e ospitare tutti quelli che hanno sofferto l’abbandono, che hanno dovuto lasciare o perdere la loro terra, le radici, la famiglia, il lavoro.
Padre, come Maria vogliamo essere Chiesa, la Chiesa che favorisce una cultura capace di accogliere, proteggere, promuovere e integrare; che non stigmatizzi e meno ancora generalizzi con la più assurda e irresponsabile condanna di identificare ogni migrante come portatore del male sociale.
Da Lei vogliamo imparare a stare in piedi accanto alla croce, ma non con un cuore blindato e chiuso, ma con un cuore che sappia accompagnare, che conosca la tenerezza e la devozione; che sia esperto di pietà trattando con rispetto, delicatezza e comprensione. Desideriamo essere una Chiesa della memoria che rispetti e valorizzi gli anziani e rivendichi per essi lo spazio che è loro, come custodi delle nostre radici.
Padre, Come Maria vogliamo imparare a stare.
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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO A PANAMA IN OCCASIONE DELLA
XXXIV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
Campo San Juan Pablo II – Metro Park (Panama)
(…)
È impossibile che uno cresca se non ha radici forti che aiutino a stare bene in piedi e attaccato alla terra. È facile disperdersi quando non si ha dove attaccarsi, dove fissarsi. Questa è una domanda che noi adulti siamo tenuti a farci, noi adulti che siamo qui, anzi, è una domanda che voi dovrete farci, voi giovani dovrete fare a noi adulti, e noi avremo il dovere di rispondervi: quali radici vi stiamo dando?, quali basi per costruirvi come persone vi stiamo offrendo? E’ una domanda per noi adulti. Com’è facile criticare i giovani e passare il tempo mormorando, se li priviamo di opportunità lavorative, educative e comunitarie a cui aggrapparsi e sognare il futuro! Senza istruzione è difficile sognare un futuro; senza lavoro è molto difficile sognare il futuro; senza famiglia e senza comunità è quasi impossibile sognare il futuro. Perché sognare il futuro significa imparare a rispondere non solo perché vivo, ma per chi vivo, per chi vale la pena di spendere la mia vita. E questo dobbiamo favorirlo noi adulti, dandovi lavoro, istruzione, comunità, opportunità.
Come ci diceva Alfredo, quando uno si sgancia e rimane senza lavoro, senza istruzione, senza comunità e senza famiglia, alla fine della giornata ci si sente vuoti e si finisce per colmare quel vuoto con qualunque cosa, con qualunque bruttura. Perché ormai non sappiamo per chi vivere, lottare e amare. Agli adulti che sono qui, e a quelli che ci stanno vedendo, domando: che cosa fai tu per generare futuro, voglia di futuro nei giovani di oggi? Sei capace di lottare perché abbiano istruzione, perché abbiano lavoro, perché abbiano famiglia, perché abbiano comunità? Ognuno di noi grandi, risponda nel proprio cuore.
Ricordo che una volta, parlando con alcuni giovani, uno mi ha chiesto: “Perché oggi tanti giovani non si domandano se Dio esiste o fanno fatica a credere in Lui ed evitano di impegnarsi nella vita?”. E io ho risposto: “E voi, cosa ne pensate?”. Tra le risposte che sono venute fuori nella conversazione mi ricordo di una che mi ha toccato il cuore ed è legata all’esperienza che Alfredo ha condiviso: “Padre, è che molti di loro sentono che, a poco a poco, per gli altri hanno smesso di esistere, si sentono molte volte invisibili”. Molti giovani sentono che hanno smesso di esistere per gli altri, per la famiglia, per la società, per la comunità…, e allora, molte volte si sentono invisibili. È la cultura dell’abbandono e della mancanza di considerazione. Non dico tutti, ma molti sentono di non avere tanto o nulla da dare perché non hanno spazi reali a partire dai quali sentirsi interpellati. Come penseranno che Dio esiste se loro stessi, questi giovani da tempo hanno smesso di esistere per i loro fratelli e per la società? Così li stiamo spingendo a non guardare al futuro, e a cadere in preda di qualsiasi droga, di qualsiasi cosa che li distrugge. Possiamo chiederci: cosa faccio io con i giovani che vedo? Li critico, o non mi interessano? Li aiuto, o non mi interessano? E’ vero che per me hanno smesso di esistere da tempo?
Lo sappiamo bene, non basta stare tutto il giorno connessi per sentirsi riconosciuti e amati. Sentirsi considerato e invitato a qualcosa è più grande che stare “nella rete”. Significa trovare spazi in cui con le vostre mani, con il vostro cuore e con la vostra testa potete sentirvi parte di una comunità più grande che ha bisogno di voi e di cui anche voi, giovani, avete bisogno.
E questo i santi l’hanno capito bene. Penso per esempio a Don Bosco [i giovani applaudono] che non se ne andò a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale – si vede che qui ci sono quelli che vogliono bene a Don Bosco!, un applauso! Don Bosco non è andato a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale; semplicemente imparò a guardare, a vedere tutto quello che accadeva attorno nella città e a guardarlo con gli occhi di Dio e, così, fu colpito da centinaia di bambini e di giovani abbandonati senza scuola, senza lavoro e senza la mano amica di una comunità. Molta gente viveva in quella stessa città, e molti criticavano quei giovani, però non sapevano guardarli con gli occhi di Dio. I giovani bisogna guardarli con gli occhi di Dio. Lui lo fece, Don Bosco, seppe fare il primo passo: abbracciare la vita come si presenta; e, a partire da lì, non ebbe paura di fare il secondo passo: creare con loro una comunità, una famiglia in cui con lavoro e studio si sentissero amati. Dare loro radici a cui aggrapparsi per poter arrivare al cielo. Per poter essere qualcuno nella società. Dare loro radici a cui aggrapparsi per non essere abbattuti dal primo vento che viene. Questo ha fatto Don Bosco, questo hanno fatto i santi, questo fanno le comunità che sanno guardare i giovani con gli occhi di Dio. Ve la sentite, voi grandi, di guardare i giovani con gli occhi di Dio?
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FEBBRAIO 2019
VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO NEGLI EMIRATI ARABI UNITI
(3-5 FEBBRAIO 2019)
DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA UMANA
PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE
(…)
Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura.
- È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti.
- La tutela dei diritti fondamentali dei bambini a crescere in un ambiente familiare, all’alimentazione, all’educazione e all’assistenza è un dovere della famiglia e della società. Tali diritti devono essere garantiti e tutelati, affinché non manchino e non vengano negati a nessun bambino in nessuna parte del mondo. Occorre condannare qualsiasi pratica che violi la dignità dei bambini o i loro diritti. È altresì importante vigilare contro i pericoli a cui essi sono esposti – specialmente nell’ambiente digitale – e considerare come crimine il traffico della loro innocenza e qualsiasi violazione della loro infanzia.
- La protezione dei diritti degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi è un’esigenza religiosa e sociale che dev’essere garantita e protetta attraverso rigorose legislazioni e l’applicazione delle convenzioni internazionali a riguardo.
A tal fine, la Chiesa Cattolica e al-Azhar, attraverso la comune cooperazione, annunciano e promettono di portare questo Documento alle Autorità, ai Leader influenti, agli uomini di religione di tutto il mondo, alle organizzazioni regionali e internazionali competenti, alle organizzazioni della società civile, alle istituzioni religiose e ai leader del pensiero; e di impegnarsi nel diffondere i principi di questa Dichiarazione a tutti i livelli regionali e internazionali, sollecitando a tradurli in politiche, decisioni, testi legislativi, programmi di studio e materiali di comunicazione.
Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo Documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi.
In conclusione auspichiamo che:
questa Dichiarazione sia un invito alla riconciliazione e alla fratellanza tra tutti i credenti, anzi tra i credenti e i non credenti, e tra tutte le persone di buona volontà;
sia un appello a ogni coscienza viva che ripudia la violenza aberrante e l’estremismo cieco; appello a chi ama i valori di tolleranza e di fratellanza, promossi e incoraggiati dalle religioni;
sia una testimonianza della grandezza della fede in Dio che unisce i cuori divisi ed eleva l’animo umano;
sia un simbolo dell’abbraccio tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud e tra tutti coloro che credono che Dio ci abbia creati per conoscerci, per cooperare tra di noi e per vivere come fratelli che si amano.
Questo è ciò che speriamo e cerchiamo di realizzare, al fine di raggiungere una pace universale di cui godano tutti gli uomini in questa vita.
Abu Dhabi, 4 febbraio 2019
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(…) Se nel fratello che incontriamo è presente Gesù, allora l’attività di volontariato può diventare un’esperienza di Dio e di preghiera. Non dimenticate la forza e l’importanza della preghiera per voi e per tutti coloro che sono impegnati nel lavoro caritativo: esso richiede di essere alimentato con opportune soste oranti e di ascolto della Parola di Dio. Il segreto dell’efficacia di ogni vostro progetto è la fedeltà a Cristo e il rapporto personale con lui nella preghiera. Sarete così pronti a soccorrere quanti oggi vivono in condizioni di disagio o di abbandono. La nostra vita di ogni giorno va infatti permeata dalla presenza di Gesù, sotto il cui sguardo dobbiamo porre anche le sofferenze degli ammalati, la solitudine degli anziani, le paure dei poveri, le fragilità degli esclusi. (…)
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MARZO 2019
(…) Per desiderio di Papa Benedetto XVI, voi Superiori e Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, come anche degli Archivi Storici della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, dal 2006 ad oggi state lavorando in un comune progetto di inventariazione e preparazione della corposa documentazione prodotta durante il Pontificato di Pio XII, parte della quale fu già resa consultabile dai miei venerati Predecessori San Paolo VI e San Giovanni Paolo II.
Ringrazio pertanto voi, e per vostro tramite anche gli altri archivisti vaticani, per il paziente e scrupoloso lavoro che avete svolto in questi ultimi dodici anni, e che in parte ancora state svolgendo, per ultimare la suddetta preparazione.Il vostro è un lavoro che si svolge nel silenzio e lontano dai clamori, coltiva la memoria, e in un certo senso mi pare che esso possa essere paragonato alla coltivazione di un maestoso albero, i cui rami sono protesi verso il cielo, ma le cui radici sono solidamente ancorate nella terra. Se paragoniamo questo albero alla Chiesa, vediamo che essa è protesa verso il Cielo, dove è la nostra patria e il nostro ultimo orizzonte; le radici però affondano nel terreno della stessa Incarnazione del Verbo, nella storia, nel tempo. Voi, archivisti, con la vostra paziente fatica lavorate su queste radici e contribuite a mantenerle vive, in modo tale che anche i rami più verdi e più giovani dell’albero possano trarne buona linfa per la loro crescita nel futuro.
Questo costante e non lieve impegno, vostro e dei vostri colleghi, mi permette oggi, in ricordo di quella significativa ricorrenza, di annunciare la mia decisione di aprire alla consultazione dei ricercatori la documentazione archivistica attinente al Pontificato di Pio XII, sino alla sua morte, avvenuta a Castel Gandolfo il 9 ottobre 1958.
Ho deciso che l’apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII avverrà il 2 marzo 2020, a un anno esatto di distanza dall’ottantesimo anniversario dell’elezione al Soglio di Pietro di Eugenio Pacelli. (...)
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(...) Per questo motivo il modello di cooperativa sociale è uno dei nuovi settori sui quali oggi si sta concentrando la cooperazione, perché esso riesce a coniugare, da una parte, la logica dell’impresa e, dall’altra, quella della solidarietà: solidarietà interna verso i propri soci e solidarietà esterna verso le persone destinatarie. Questo modo di vivere il modello cooperativo esercita già una significativa influenza sulle imprese troppo legate alla logica del profitto, perché le spinge a scoprire e a valutare l’impatto di una responsabilità sociale. In tal modo, esse vengono invitate a considerare non solo il bilancio economico, ma anche quello sociale, rendendosi conto che bisogna concorrere a rispondere tanto ai bisogni di quanti sono coinvolti nell’impresa quanto a quelli del territorio e della collettività. È in questo modo che il lavoro cooperativo esplica la sua funzione profetica e di testimonianza sociale alla luce del Vangelo.
Ma non dobbiamo mai dimenticare che questa visione della cooperazione, basata sulle relazioni e non sul profitto, va controcorrente rispetto alla mentalità del mondo. Solo se scopriamo che la nostra vera ricchezza sono le relazioni e non i meri beni materiali, allora troviamo modi alternativi per vivere e abitare in una società che non sia governata dal dio denaro, un idolo che la illude e poi la lascia sempre più disumana e ingiusta, e anche, direi, più povera.
Grazie per il vostro lavoro impegnativo, che crede nella cooperazione ed esprime l’ostinazione a restare umani in un mondo che vuole mercificare ogni cosa. E sull’ostinazione abbiamo sentito questa nostra sorella che ha dato testimonianza oggi: ci vuole ostinazione per andare avanti su questa strada quando la logica del mondo va in un’altra direzione. Vi ringrazio per la vostra ostinazione..., e questo non è peccato! Andate avanti così. (…)
Potremmo così dire che la cooperazione è un altro modo di declinare la prossimità che Gesù ha insegnato nel Vangelo. Farsi prossimo significa impedire che l’altro rimanga in ostaggio dell’inferno della solitudine. Purtroppo la cronaca ci parla spesso di persone che si tolgono la vita spinte dalla disperazione, maturata proprio nella solitudine. Non possiamo rimanere indifferenti davanti a questi drammi, e ognuno, secondo le proprie possibilità, deve impegnarsi a togliere un pezzo di solitudine agli altri. Va fatto non tanto con le parole, ma soprattutto con impegno, amore, competenza, e mettendo in gioco il grande valore aggiunto che è la nostra presenza personale. Va fatto con vicinanza, con tenerezza. Questa parola, tenerezza, che rischia di cadere dal dizionario perché la società attuale non la usa tanto. Solo quando ci mettiamo in gioco in prima persona possiamo fare la differenza.
Ad esempio, è solidarietà impegnarsi per dare lavoro equamente retribuito a tutti; permettere a contadini resi più fragili dal mercato di far parte di una comunità che li rafforza e li sostiene; a un pescatore solitario di entrare in un gruppo di colleghi; ad un facchino di essere dentro una squadra, e così via. In questo modo, cooperare diventa uno stile di vita. Ecco: cooperare è uno stile di vita. “Io vivo, ma da solo, faccio il mio e vado avanti…”. È un modo di vivere, uno stile di vita. L’altro invece è: “Io vivo con gli altri, in cooperazione”. È un altro stile di vita, e noi scegliamo questo. (…)
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VISITA DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN CAMPIDOGLIO
Martedì, 26 marzo 2019
SALUTO DEL SANTO PADRE
AI DIPENDENTI CAPITOLINI CON I FAMILIARI
Cari amici,
a conclusione della mia visita in Campidoglio, sono lieto di salutare voi che siete, in un certo senso, l’ossatura dell’organizzazione comunale. Vi ringrazio per la vostra accoglienza e vi son grato di tutto quello che avete fatto per preparare questa giornata.
La maggior parte del lavoro che voi svolgete non è del genere che fa notizia. Nessuno di voi fa notizia ma fate cose che sostengono. Dietro le quinte, il vostro impegno quotidiano rende possibile l’ordinaria attività del Comune in favore dei cittadini e dei tanti visitatori che ogni giorno giungono a Roma. Con il vostro lavoro, voi vi sforzate di andare incontro alle legittime esigenze delle famiglie romane, che per tanti aspetti dipendono dalla vostra sollecitudine: siate consapevoli di tanta responsabilità! Siete operatori sul campo, funzionari, impiegati ai vari uffici e ai molteplici dipartimenti della pubblica amministrazione, addetti alle pulizie, personale della manutenzione e della sicurezza. Grazie per tutto ciò che fate!.
Il vostro lavoro silenzioso e fedele contribuisce non soltanto al miglioramento della Città, ma ha pure un grande significato per voi personalmente, perché il modo in cui lavoriamo esprime la nostra dignità e il tipo di persone che siamo.
Vi incoraggio a proseguire con generosità e fiducia la vostra attività al servizio della Città di Roma, dei suoi abitanti, dei turisti e dei pellegrini. Pregherò per voi e per le vostre famiglie; e chiedo per favore a ciascuno di ricordarsi di pregare un po’ per me. Dio vi benedica tutti. Grazie.
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UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 marzo 2019
Catechesi sul “Padre nostro”: 11. Dacci il nostro pane quotidiano
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Passiamo oggi ad analizzare la seconda parte del “Padre nostro”, quella in cui presentiamo a Dio le nostre necessità. Questa seconda parte comincia con una parola che profuma di quotidiano: il pane.
La preghiera di Gesù parte da una domanda impellente, che molto somiglia all’implorazione di un mendicante: “Dacci il pane quotidiano!”. Questa preghiera proviene da un’evidenza che spesso dimentichiamo, vale a dire che non siamo creature autosufficienti, e che tutti i giorni abbiamo bisogno di nutrirci.
(…) Dunque, Gesù ci insegna a chiedere al Padre il pane quotidiano. E ci insegna a farlo uniti a tanti uomini e donne per i quali questa preghiera è un grido – spesso tenuto dentro – che accompagna l’ansia di ogni giorno. Quante madri e quanti padri, ancora oggi, vanno a dormire col tormento di non avere l’indomani pane a sufficienza per i propri figli! Immaginiamo questa preghiera recitata non nella sicurezza di un comodo appartamento, ma nella precarietà di una stanza in cui ci si adatta, dove manca il necessario per vivere. Le parole di Gesù assumono una forza nuova. L’orazione cristiana comincia da questo livello. Non è un esercizio per asceti; parte dalla realtà, dal cuore e dalla carne di persone che vivono nel bisogno, o che condividono la condizione di chi non ha il necessario per vivere. Nemmeno i più alti mistici cristiani possono prescindere dalla semplicità di questa domanda. “Padre, fa’ che per noi e per tutti, oggi ci sia il pane necessario”. E “pane” sta anche per acqua, medicine, casa, lavoro… Chiedere il necessario per vivere.
Il pane che il cristiano chiede nella preghiera non è il “mio” ma è il “nostro” pane. Così vuole Gesù. Ci insegna a chiederlo non solo per sé stessi, ma per l’intera fraternità del mondo. Se non si prega in questo modo, il “Padre nostro” cessa di essere una orazione cristiana.
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APRILE 2019
(…) Per quanti non hanno una fede religiosa, il gesto verso i fratelli bisognosi chiede di essere compiuto sulla base di un ideale di disinteressata solidarietà umana. I credenti sono chiamati a viverlo come un’offerta al Signore, il quale si è identificato con quanti soffrono a causa della malattia, di incidenti stradali o di infortuni sul lavoro. È bello, per i discepoli di Gesù, offrire i propri organi, nei termini consentiti dalla legge e dalla morale, perché si tratta di un dono fatto al Signore sofferente, il quale ha detto che ogni cosa che abbiamo fatto a un fratello nel bisogno l’abbiamo fatta a Lui (cfr Mt 25,40).
È importante, quindi, promuovere una cultura della donazione che, attraverso l’informazione, la sensibilizzazione e il vostro costante e apprezzato impegno, favorisca questa offerta di una parte del proprio corpo, senza rischio o conseguenze sproporzionate, nella donazione da vivente, e di tutti gli organi dopo la propria morte. Dalla nostra stessa morte e dal nostro dono possono sorgere vita e salute di altri, malati e sofferenti, contribuendo a rafforzare una cultura dell’aiuto, del dono, della speranza e della vita. Di fronte alle minacce contro la vita, cui dobbiamo purtroppo assistere quasi quotidianamente, come nel caso dell’aborto e dell’eutanasia – per menzionare soltanto l’inizio e la fine della vita –, la società ha bisogno di questi gesti concreti di solidarietà e di amore generoso, per far capire che la vita è una cosa sacra.(…)
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Dopo l’incendio che ha devastato una grande parte della cattedrale di Notre-Dame, mi unisco alla sua tristezza, e anche a quella dei fedeli della sua diocesi, degli abitanti di Parigi e di tutti i Francesi. In questi Giorni Santi in cui facciamo memoria della passione di Gesù, della sua morte e della sua resurrezione, le assicuro la mia vicinanza spirituale e la mia preghiera.
Questa catastrofe ha danneggiato seriamente un edificio storico. Ma sono consapevole che ha anche colpito un simbolo nazionale caro al cuore dei Parigini e dei Francesi nella diversità delle loro convinzioni. Perché Notre-Dame è il gioiello architettonico di una memoria collettiva, il luogo di raduno per molti grandi eventi, il testimone della fede e della preghiera dei cattolici in seno alla città.
Nel rendere omaggio al coraggio e al lavoro dei pompieri che sono intervenuti per circoscrivere l’incendio, formulo l’auspicio che la cattedrale di Notre-Dame possa ridiventare, grazie ai lavori di ricostruzione e alla mobilitazione di tutti, il bello scrigno nel cuore della città, segno della fede di quanti l’hanno edificata, chiesa-madre della sua diocesi, patrimonio architettonico e spirituale di Parigi, della Francia e dell’umanità.
Con questa speranza, le imparto di tutto cuore la benedizione apostolica, che estendo ai Vescovi della Francia e ai fedeli della sua diocesi, e invoco la benedizione di Dio sugli abitanti di Parigi e su tutti i Francesi
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Cari sorelle e fratelli,
(…) La figura umile e grande di San Martino de Porres, che il Papa San Paolo VI, nel 1966, proclamò patrono della vostra categoria, vi aiuta a testimoniare costantemente i valori cristiani. Vi stimola, soprattutto, ad esercitare la vostra professione con stile cristiano, trattando i clienti con gentilezza e cortesia, e offrendo loro sempre una parola buona e di incoraggiamento, evitando di cedere alla tentazione del chiacchiericcio che facilmente si insinua anche nel vostro contesto lavorativo, tutti lo sappiamo. Ciascuno di voi, nello svolgimento del proprio tipico lavoro professionale, possa sempre agire con rettitudine, rendendo così un positivo contributo al bene comune della società.
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MAGGIO 2019
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 1 maggio 2019
(…) Un pensiero particolare rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli. Oggi celebriamo la Memoria di San Giuseppe lavoratore, patrono della Chiesa universale. La figura di san Giuseppe, l’umile lavoratore di Nazareth, ci orienti verso Cristo, sostenga il sacrificio di coloro che operano il bene ed interceda per quanti hanno perso il lavoro o non riescono a trovarlo. Preghiamo specialmente per coloro che non hanno lavoro, che è una tragedia mondiale di questi tempi.
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LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER L’EVENTO “ECONOMY OF FRANCESCO”
[Assisi, 26-28 marzo 2020]
Ai giovani economisti, imprenditori e imprenditrici di tutto il mondo
Cari amici,
(…) Nella Lettera Enciclica Laudato si’ ho sottolineato come oggi più che mai tutto è intimamente connesso e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. Occorre pertanto correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, l’accoglienza della vita, la cura della famiglia, l’equità sociale, la dignità dei lavoratori, i diritti delle generazioni future. Purtroppo resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità.
(…) Carissimi giovani, io so che voi siete capaci di ascoltare col cuore le grida sempre più angoscianti della terra e dei suoi poveri in cerca di aiuto e di responsabilità, cioè di qualcuno che “risponda” e non si volga dall’altra parte. Se ascoltate il vostro cuore, vi sentirete portatori di una cultura coraggiosa e non avrete paura di rischiare e di impegnarvi nella costruzione di una nuova società. Gesù risorto è la nostra forza! Come vi ho detto a Panama e scritto nell’Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit: «Per favore, non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! Attraverso di voi entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. […] Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore» (n. 174) (…).
Dal Vaticano, 1° maggio 2019
Memoria di San Giuseppe Lavoratore
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Cari amici della Guardia Svizzera!
(...) Durante il vostro soggiorno a Roma, voi siete chiamati a testimoniare la vostra fede con gioia, affinché le molte persone che incontrate, specialmente agli ingressi della Città del Vaticano, possano essere favorevolmente impressionati dallo spirito con il quale svolgete il vostro lavoro. A ciascuno di voi chiedo questo: fate in modo che quanti incontrate nel vostro quotidiano servizio, membri della Curia, colleghi di lavoro nei vari ambiti del Vaticano, pellegrini o turisti, possano scoprire anche attraverso di voi l’amore di Dio per ogni uomo. Questa è la prima missione di ogni cristiano!
È necessario essere forti, sostenuti dalla fede in Cristo, nostro Salvatore. Occorre essere testimoni e apostoli di rinnovamento personale e comunitario, perché la gente attende da coloro che sono al servizio della Santa Sede dedizione totale e santità di vita, che potete conseguire sia mediante il vostro servizio, sia mediante l’esperienza comunitaria. La realtà della caserma insegna alcuni principi etici e spirituali, che riflettono molti dei valori che vanno perseguiti anche nella vita: il dialogo, la lealtà, l’equilibrio nei rapporti, la comprensione. Vi è data la possibilità di sperimentare momenti di gioia e inevitabili momenti di difficoltà, tipici di una esperienza collettiva. Ma soprattutto avete l’opportunità di costruire sane amicizie e allenarvi al rispetto delle peculiarità e delle idee altrui, imparando a riconoscere nell’altro un fratello e un compagno con cui condividere serenamente un tratto di strada. Ciò vi aiuterà a vivere nella società con l’atteggiamento giusto, riconoscendo la diversità culturale, religiosa e sociale come ricchezza umana e non come una minaccia. Questo è particolarmente importante in un mondo che sta vivendo, come mai prima, ingenti movimenti di popoli e di persone alla ricerca di sicurezza e di una vita dignitosa.
Care Guardie Svizzere, vi ringrazio per il vostro lavoro diligente e la vostra dedizione generosa. Affido ciascuno di voi, come pure il vostro prezioso servizio, alla materna intercessione della Vergine Maria e, mentre vi chiedo di pregare per me, volentieri vi imparto la mia Benedizione, in segno di affetto e sincera gratitudine.
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Cari amici del Centro Sportivo Italiano!
(…) Una grande lezione dello sport, che ci aiuta ad affrontare anche la fatica quotidiana dello studio e del lavoro come pure le relazioni con gli altri, è che ci si può divertire solo in un quadro di regole ben precise. Infatti, se in una gara qualcuno si rifiutasse di rispettare la regola del fuorigioco, o partisse prima del “via”, o in uno slalom saltasse qualche bandierina, non ci sarebbe più competizione, ma solo prestazioni individuali e disordinate. Al contrario, quando affrontate una gara, voi imparate che le regole sono essenziali per vivere insieme; che la felicità non la si trova nella sregolatezza, ma nel perseguire con fedeltà i propri obiettivi; e imparate anche che non ci si sente più liberi quando non si hanno limiti, ma quando, coi propri limiti, si dà il massimo. Dobbiamo essere padroni dei nostri limiti e non schiavi dei nostri limiti.
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Cari fratelli e sorelle,
(…) Voglio dirvi anzitutto che stimo il vostro lavoro; la Chiesa vi stima, anche quando mettete il dito sulla piaga, e magari la piaga è nella comunità ecclesiale. Il vostro è un lavoro prezioso perché contribuisce alla ricerca della verità, e solo la verità ci rende liberi. A questo riguardo, mi piace ripetere quanto disse San Giovanni Paolo II, visitando la sede della vostra Associazione, 31 anni fa: «La Chiesa sta dalla vostra parte. Siate cristiani o no, nella Chiesa troverete sempre la giusta stima per il vostro lavoro e il riconoscimento della libertà di stampa» (17 gennaio 1988: Insegnamenti XI, 1 [1988], 135).
(…) Ho ascoltato con dolore le statistiche sui vostri colleghi uccisi mentre facevano il loro lavoro con coraggio e dedizione in tanti Paesi, per informare su ciò che accade durante le guerre e le situazioni drammatiche che vivono tanti nostri fratelli e sorelle nel mondo. La libertà di stampa e di espressione è un indice importante dello stato di salute di un Paese. Non dimentichiamo che le dittature, una delle prime misure che fanno, è togliere la libertà di stampa o “mascherarla”, non lasciare libera la stampa. «Abbiamo bisogno di un giornalismo libero, al servizio del vero, del bene, del giusto; un giornalismo che aiuti a costruire la cultura dell’incontro» (Tweet di Pontifex, 3 maggio 2019). Abbiamo bisogno di giornalisti che stiano dalla parte delle vittime, dalla parte di chi è perseguitato, dalla parte di chi è escluso, scartato, discriminato. C’è bisogno di voi e del vostro lavoro per essere aiutati a non dimenticare tante situazioni di sofferenza, che spesso non hanno la luce dei riflettori, oppure ce l’hanno per un momento e poi ritornano nel buio dell’indifferenza.
(…) In conclusione, vorrei assicurarvi che apprezzo l’impegno con cui svolgete il vostro lavoro, che, vissuto in spirito di servizio, diventa una missione. Durante i miei viaggi apostolici posso rendermi conto della fatica che comporta il vostro lavoro. Inoltre, vivete lontani dai vostri Paesi di origine e vi trovate ad essere specchio del Paese in cui lavorate, sapendone cogliere gli aspetti positivi e quelli negativi. Vi invito a essere uno specchio che sa riflettere speranza, seminare speranza. E vi auguro di essere donne e uomini umili e liberi, che sono quelli che lasciano una buona impronta nella storia.
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GIUGNO 2019
Cari fratelli e sorelle!
(…) L’attività delle Poste e dei Telefoni Vaticani supera di gran lunga il piccolo territorio e l’esigua popolazione in esso residente: si apre alle necessità di innumerevoli persone disseminate nel mondo intero. Proprio per questa ragione, il Vaticano e la Santa Sede riconoscono l’importante funzione dei mezzi di comunicazione e degli Organismi internazionali che incoraggiano la comunicazione. Da sempre, i Papi hanno attribuito grande rilevanza alla comunicazione con i capi di Stato, con le comunità e i singoli fedeli delle diverse Nazioni, avvalendosi dei mezzi che offriva la tecnica. Negli ultimi decenni hanno chiamato a collaborare, in questo settore così significativo, due benemerite famiglie religiose: i Figli della Divina Provvidenza (Orionini) e la Società di San Paolo (Paolini). A questi due Istituti va il mio vivo apprezzamento per la loro generosità e fedeltà.
Il vostro lavoro quotidiano, anche se apparentemente umile, è quanto mai necessario per il buon funzionamento dello Stato della Città del Vaticano. Esso si pone al servizio dell’attività del Successore di Pietro, assicurando la libertà di comunicazione e di espressione, attraverso una rete fisica, dotata di moderni e funzionali strumenti. Inoltre, attraverso la vostra preziosa opera, ogni giorno numerose persone “raggiungono” il Papa ed Egli, anche attraverso i suoi collaboratori, “raggiunge” tanta gente. Questo interscambio comunicativo non conosce distanze; risponde all’innato bisogno degli individui di creare contatti umani; e soprattutto entra in tutte le case servendo ricchi e poveri. Al riguardo, mi piace ricordare un’antica iscrizione latina incisa su una buca da lettere dello Stato Pontificio: «Diviti et inopi, ultro citroque, meandum», che significa: “Bisogna che vada al ricco e al povero, ovunque”.
Nel rispetto delle norme e degli accordi internazionali, le vostre realtà parlano un linguaggio comune, creando ponti tra culture, religioni e società diverse tra di loro. Al tempo stesso, i Servizi delle Poste e dei Telefoni Vaticani garantiscono la condivisione di sentimenti e di idee, contribuiscono a promuovere la comprensione reciproca e la collaborazione tra i Paesi dei diversi continenti, facilitando gli scambi sia delle merci, sia soprattutto dei rispettivi valori spirituali e culturali. In tal senso, i servizi postale e telefonico di uno tra i più piccoli Stati del mondo favoriscono la diffusione del messaggio cristiano. Si tratta di un’attività nella quale siete tutti coinvolti e tutti importanti: perché il buon funzionamento delle Poste e dei Telefoni, voi lo sapete bene, dipende dall’apporto di ciascuno.
Nelle vostre mansioni, molti di voi sono a contatto diretto con la gente: quanto è importante allora il vostro tratto e il vostro esempio per offrire a tutti una semplice ma incisiva testimonianza cristiana! Il fatto di lavorare in Vaticano costituisce un impegno in più a coltivare la propria fede. A questo proposito, oltre che dalla partecipazione attiva alla vita delle vostre comunità parrocchiali, un utile aiuto vi è offerto anche dai momenti di celebrazione e di formazione spirituale animati dai vostri assistenti spirituali, che ringrazio per la loro dedizione. Soprattutto vi invito a far sì che ogni vostra famiglia sia una “piccola Chiesa”, in cui la fede e la vita si intrecciano nello svolgersi delle vicende liete e tristi di tutti i giorni.
Cari amici, rinnovo a ciascuno la mia cordiale gratitudine e vi incoraggio a proseguire il vostro cammino con gioia e fiducia. La Vergine Maria, San Luigi Orione e il Beato Giacomo Alberione vi aiutino a vivere in costante rendimento di grazie, gustando le gioie semplici che Dio ci dona e moltiplicando le opere di bene. Assicuro il mio ricordo per voi e vi benedico con affetto insieme a tutti i vostri cari. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Saluti
È un onore e una gioia per la Santa Sede partecipare a questa 108a assemblea dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Rivolgo un ringraziamento particolare al Direttore Generale, il signor Guy Ryder, che mi ha gentilmente invitato a presentare questo messaggio, e che mi ha invitato — in diverse occasioni — a visitare gli uffici dell’Ilo a Ginevra, invito che spero di poter accettare non appena i miei impegni me lo consentiranno.
Al fine di esprimere la mia gratitudine e il mio apprezzamento per la vitalità della vostra istituzione ormai centenaria, ma ancora giovane, vorrei iniziare col sottolineare l’importanza che il lavoro ha per l’umanità e per il pianeta. Nonostante tutti i nostri sforzi a favore della costruzione della pace, della giustizia sociale e degli standard lavorativi
[1], ci troviamo tuttora di fronte a gravi problemi di disoccupazione, sfruttamento, tratta di esseri umani e lavoro schiavo, salari ingiusti, ambienti lavorativi insalubri, impoverimento degli ambienti naturali, e metodi tecnologici e pratiche discutibili.
Lavoro e realizzazione personale e socio-ecologica
Il lavoro non è soltanto qualcosa che facciamo in cambio di qualcos’altro. Il lavoro è prima di tutto e anzitutto «una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale»
[2]. Ha anche una dimensione soggettiva. È un’espressione del nostro essere creati a immagine e somiglianza di Dio, il lavoratore (Gn 2, 3). Pertanto, «[s]iamo chiamati al lavoro fin dalla nostra creazione»
[3] .
Oltre a essere essenziale per la realizzazione della persona, il lavoro è anche fondamentale per lo sviluppo sociale. Il mio predecessore san Giovanni Paolo II lo ha espresso molto bene quando ha spiegato che «lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri»; e come suo frutto, il lavoro offre «occasione di scambi, di relazioni e d’incontro»
[4]. Ogni giorno milioni di persone cooperano allo sviluppo attraverso le loro attività manuali o intellettuali, nelle grandi città o nelle aree rurali, con compiti sofisticati o semplici. Tutte sono espressione di un amore concreto per la promozione del bene comune, di un amore civile
[5] .
Nondimeno, la nostra vocazione al lavoro è anche inestricabilmente collegata al modo in cui interagiamo con il nostro ambiente e con la natura. Siamo chiamati a lavorare, a «coltivare e custodire» il giardino del mondo (cfr. Gn 2, 15), vale a dire a coltivare il suolo della terra per soddisfare i nostri bisogni, senza dimenticare di prendercene cura e proteggerla
[6]. Il lavoro è un cammino di crescita, ma solo se è una crescita integrale che contribuisce all’intero ecosistema della vita: agli individui, alle società, al pianeta.
Pertanto, il lavoro non può essere considerato come una merce o un mero strumento nella catena di produzione di beni e servizi
[7]. Piuttosto, poiché è la base per lo sviluppo umano, il lavoro ha la priorità su ogni altro fattore della produzione, compreso il capitale[8]. Da qui l’imperativo etico di «difendere i posti di lavoro»
[9] e di crearne di nuovi in proporzione alla crescita della fattibilità economica
[10], nonché di assicurare la dignità del lavoro stesso
[11] .
Creare e difendere i posti di lavoro oggi
Tuttavia, basta uno sguardo franco ai fatti per vedere che, molto spesso, il lavoro purtroppo impedisce la realizzazione umana e non serve a coltivare e custodire il creato di Dio o ad accrescere la dignità dei lavoratori. Dunque, che genere di lavoro dovremmo difendere, creare e promuovere?
È una questione complessa. Nel mondo interconnesso di oggi, rispondere alla complessità delle questioni del “lavoro” esige un’analisi profonda e interdisciplinare. Apprezzo gli approcci dell’Ilo a tale riguardo, specialmente il suo attuale tentativo di ridefinire il lavoro alla luce delle nuove realtà socio-economiche e politiche, soprattutto quelle che colpiscono i poveri. Grazie anche perché consentite alla Chiesa di far parte di questa iniziativa attraverso il ruolo dell’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ilo
[12].
Quando un modello di sviluppo economico si basa solo sulla dimensione materiale della persona, o quando reca benefici solo ad alcuni con l’esclusione di altri, o quando danneggia l’ambiente, provoca «i gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta»
[13]. La nuova rotta per uno sviluppo economico sostenibile deve porre la persona e il lavoro al centro dello sviluppo, cercando al tempo stesso di integrare le questioni lavorative con quelle ambientali. Tutto è interconnesso e dobbiamo rispondere in modo comprensivo
[14].
Contributo della prima serie di tre “t”
Un contributo valido a questa risposta integrale è ciò che alcuni movimenti sociali e sindacati di lavoratori hanno definito le tre “t” (tierra, techo, trabajo): terra, tetto e lavoro
[15]. Non vogliamo un sistema di sviluppo economico che spinge le persone a essere disoccupate, senza tetto o esiliate. «[L]a terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti»
[16] ed «essere partecipati equamente a tutti»
[17]. Tale aspetto assume una particolare importanza in relazione al possesso della terra, tanto nelle aree rurali quanto in quelle urbane, e al processo legale per garantire l’accesso ad essa
[18]. A questo proposito, il criterio di giustizia per eccellenza è l’applicazione del principio della «destinazione universale dei beni» della terra, dove «il diritto universale al loro uso» è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale»
[19].
L’interdipendenza tra lavoro e ambiente ci impone di ripensare i tipi di lavoro che vogliamo promuovere in futuro e quelli che devono essere sostituiti o rilocati, come le attività dell’inquinante industria dei combustibili fossili. È imperativo passare dal modello attuale di energia fossile a uno più rinnovabile se vogliamo prenderci cura di nostra madre terra, senza la quale non c’è alcun lavoro possibile. Ma è ingiusto se questo passaggio energetico viene condotto a spese dei bisognosi. Mentre promoviamo e difendiamo i posti di lavoro, dobbiamo tener conto del collegamento tra “tetto, terra e lavoro”
[20].
Contributo della seconda serie di tre “t”
Un altro contributo a una risposta comprensiva alle questioni attuali che riguardano il lavoro è dato da un’altra serie di tre “T”: più precisamente tradizione, tempo e tecnologia.
La parola tradizione deriva dal latino “tradere”; significa trasmettere ad altri, consegnare, specialmente alle generazioni successive. Nel campo del lavoro, dobbiamo trasmettere non soltanto il “know-how” tecnologico, ma anche le esperienze, le visioni e le speranze. Questa dinamica intergenerazionale è fondamentale nel momento presente della storia, in cui dobbiamo combinare la saggezza con la passione per il bene dell’umanità e della nostra casa comune.
In termini di tempo, sappiamo che «[l]a continua accelerazione dei cambiamenti» e «[..]l’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro» non contribuiscono allo sviluppo sostenibile o al miglioramento della qualità della vita delle persone
[21]. Dobbiamo smettere di concepire il tempo in modo frammentato, come una semplice dimensione usa e getta e costosa degli affari. In realtà, il tempo è un dono (di Dio) da ricevere, apprezzare e valorizzare, in cui possiamo dare inizio a processi di promozione umana, in cui possiamo essere attenti alla vita che ci circonda. È per questo che abbiamo bisogno di tempo per lavorare, e abbiamo bisogno di tempo per riposare; abbiamo bisogno di tempo per faticare e abbiamo bisogno di tempo per contemplare la bellezza dell’opera umana e della natura
[22]. Abbiamo bisogno di tempo per rallentare e comprendere l’importanza di essere presenti nel momento invece di continuare a correre verso il momento successivo.
Sappiamo anche che la tecnologia, dalla quale riceviamo così tanti benefici e opportunità, può impedire lo sviluppo sostenibile quando è associata a un paradigma di potere, dominazione e manipolazione
[23]. Nell’attuale contesto della quarta rivoluzione industriale, caratterizzata da questa tecnologia digitale rapida e raffinata, dalla robotica e dall’intelligenza artificiale
[24] , il mondo ha bisogno di istituzioni come l’Ilo. Voi avete la capacità di sfidare una diffusa mentalità tossica alla quale non importa se c’è un degrado sociale o ambientale; alla quale non importa cosa o chi viene usato e scartato; alla quale non importa se ci sono il lavoro forzato dei bambini o la disoccupazione giovanile
[25] .
Come sostiene il tema della Giornata mondiale contro il lavoro minorile 2019 dell’Ilo, «I bambini non dovrebbero lavorare nei campi, ma sui sogni!»
[26].
In quanto ai giovani, «la mancanza di lavoro recide nei giovani la capacità di sognare e di sperare e li priva della possibilità di dare un contributo allo sviluppo della società»
[27]. La disoccupazione giovanile e l’insicurezza del lavoro sono spesso collegate a una mentalità economica di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, con una cultura tecnocratica che non pone al suo centro l’essere umano, e con la mancanza di volontà politica di affrontare in profondità questa complessa questione
[28]. Non sorprende, quindi, che i giovani esigano un cambiamento e «si domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi»
[29]. Dobbiamo ascoltare la generazione dei giovani al fine di rispondere all’atteggiamento di dominio attraverso un atteggiamento di cura: cura per la terra e per le generazioni future. È «una questione essenziale di giustizia [e di giustizia intergenerazionale], dal momento che la terra che abbiamo ricevuto appartiene anche a coloro che verranno»
[30].
Un’istituzione globale come l’Ilo è ben attrezzata per promuovere, accanto alla Chiesa, una tale mentalità di cura, inclusione e vero sviluppo umano. Per questo dobbiamo favorire e difendere i posti di lavoro, tenendo al tempo stesso conto di questo collegamento tra tradizione, tempo e tecnologia
[31].
Conclusione
Nell’odierno mondo interconnesso e complesso, dobbiamo sottolineare l’importanza di un lavoro buono, inclusivo e dignitoso. È parte della nostra identità umana, necessario per il nostro sviluppo umano e vitale per il futuro del pianeta. Pertanto, mentre elogio il lavoro svolto dall’Ilo nell’ultimo secolo, incoraggio tutti coloro che servono l’istituzione a continuare ad affrontare la questione del lavoro in tutta la sua complessità. Abbiamo bisogno di persone e istituzioni che difendano la dignità dei lavoratori, la dignità del lavoro di ognuno, e il benessere della terra, nostra casa comune!
Che Dio vi benedica tutti!
Dal Vaticano, 10 giugno 2019
[1] Cfr. Organizzazione Internazionale del Lavoro, Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1919), Preambolo.
[2] Lettera Enciclica Laudato Si’ (24 maggio 2015), n. 128; AAS 107 (2015), 808.
[4] Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 273.
[5] Cfr. Lettera Enciclica Laudato si’, n. 131; AAS 107 (2015), 937-938
[6] Cfr. Ibid., n. 67; AAS 107 (2015), 873-874.
[7] San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Laborem exercens (14 settembre 1981), n. 7; AAS 73 (1981), 592-594.
[8] Cfr. Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 276.
[9] Esortazione Apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 203; AAS 105 (2013), 1105.
[10] Cfr. Ibid., n. 204; AAS 105 (2013), 1105-1106.
[11] Cfr. Ibid., n. 205; AAS 105 (2013), 1106.
[12] Vedi, tra gli altri, il progetto: The Future of Work, Labour After Laudato si’.
[13] Laudato si’, n. 53; AAS 107 (2015), 868.
[14] Cfr. Ibid., nn. 16, 91, 117, 138, 240; AAS 107 (2015), 854-855, 883-884, 894, 902-903, 941-942.
[15] Cfr. Discorso ai partecipanti al 3° incontro mondiale dei movimenti popolari, 5 novembre 2016.
[16] Laudato si’, n. 93; AAS 107 (2015), 884-885.
[17] Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 69.
[18] Cfr.
Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 283.
[19] Laudato Si’, n. 93; AAS 107 (2015), 884-885.
[20] Cfr. Lettera in occasione della Conferenza internazionale «Dalla Populorum progressio alla Laudato si’», 23 novembre 2017.
[21] Laudato si’, n. 18; AAS 107 (2015), 854.
[22] Cfr. Ibid., n. 12; AAS 107 (2015), 852.
[23] Cfr. Ibid., nn. 102-114; AAS 107 (2015), 887-893.
[24] Cfr. J. Manyika, «Technology, Jobs, and the Future of Work», Rapporto del McKinsey Global Institute preparato per il Fortune-Time Global Forum, Città del Vaticano, dicembre 2016.
[25] Sebbene il numero di minori impiegati di età dai 5 ai 14 anni stia diminuendo, ciò sta accadendo troppo lentamente. Con ancora più di 100 milioni di minori che lavorano, è improbabile che possiamo raggiungere l’obiettivo di porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme entro il 2025. Inoltre, sebbene il tasso di disoccupazione a livello globale sia diminuito, oltre 170 milioni di persone sono ancora disoccupate. In più, le probabilità d’impiego di donne, persone con disabilità e giovani (di età compresa tra i 15 e i 24 anni) continuano a essere molto basse (per esempio, un giovane su cinque non lavora, non va a scuola e non segue una formazione). Cfr. Organizzazione internazionale del lavoro, World Employment Outlook – Trends 2019 (13 febbraio 2019).
[26] Organizzazione Internazionale del Lavoro, Tema della Giornata mondiale contro il lavoro minorile 2019 (12 giugno 2019).
[27] Esortazione Apostolica Christus vivit (25 marzo 2019), n. 270.
[28] Cfr. Ibid. n. 271; Laudato si’, nn. 4, 106, 109, 149, 166; AAS 107 (2015), 848, 889-890, 891, 907, 913-914.
[29]
Laudato si’, n. 13; AAS 107 (2015), 852.
[30] Ibid., n. 159; AAS 107 (2015), 911.
[31] Cfr. Lettera in occasione della Conferenza internazionale «Dalla Populorum progressio alla Laudato si’», 23 novembre 2017.
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SETTEMBRE 2019
VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
E’ una grande gioia per me trovarmi in mezzo a voi in questa grande opera. Akamasoa è l’espressione della presenza di Dio in mezzo al suo popolo povero; non una presenza sporadica, occasionale: è la presenza di un Dio che ha deciso di vivere e rimanere sempre in mezzo al suo popolo.
Siete numerosi stasera, proprio nel cuore di questa “Città dell’amicizia”, che avete costruito con le vostre mani e che – non ne dubito – continuerete a costruire affinché molte famiglie possano vivere con dignità! Vedendo i vostri volti radiosi, rendo grazie al Signore che ha ascoltato il grido dei poveri e che ha manifestato il suo amore con segni tangibili come la creazione di questo villaggio. Le vostre grida generate dal non poter più vivere senza un tetto, vedere i figli crescere nella malnutrizione, non avere un lavoro, generate dallo sguardo indifferente per non dire sprezzante di molti, si sono trasformate in canti di speranza per voi e per tutti quelli che vi guardano. Ogni angolo di questi quartieri, ogni scuola o dispensario è un canto di speranza che smentisce e mette a tacere ogni fatalità. Diciamolo con forza: la povertà non è una fatalità.
Questo villaggio, infatti, porta in sé una lunga storia di coraggio e di aiuto reciproco. Questa gente è il risultato di molti anni di duro lavoro. Alla base troviamo una fede viva che si è tradotta in azioni concrete capaci di “spostare le montagne”. Una fede che ha permesso di vedere possibilità là dove si vedeva solo precarietà, di vedere speranza dove si vedeva solo fatalità, di vedere vita dove tanti annunciavano morte e distruzione. Ricordate ciò che scriveva l’apostolo Giacomo: «La fede se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (2,17). Le basi del lavoro fatto insieme, del senso di famiglia e di comunità hanno reso possibile ripristinare in maniera artigianale e paziente la fiducia non solo dentro di voi, ma tra di voi, fiducia che vi ha permesso di essere i protagonisti e gli artefici di questa storia. Un’educazione ai valori grazie alla quale quelle prime famiglie che iniziarono l’avventura con padre Opeka hanno potuto trasmettere l’enorme tesoro di impegno, disciplina, onestà, rispetto di sé stessi e degli altri. E avete potuto capire che il sogno di Dio non è solo il progresso personale ma soprattutto quello comunitario; che non c’è peggior schiavitù – come ci ha ricordato padre Pedro – di vivere ognuno solo per sé.
Cari giovani di Akamasoa, vorrei rivolgere a voi un messaggio particolare: non arrendetevi mai davanti agli effetti nefasti della povertà, non cedete mai alle tentazioni della vita facile o del ripiegarvi su voi stessi. Grazie, Fanny, per questa bella testimonianza che ci hai dato a nome dei giovani del villaggio. Cari giovani, questo lavoro realizzato dai vostri anziani, sta a voi portarlo avanti. La forza per farlo la troverete nella vostra fede e nella testimonianza viva che è stata plasmata nella vostra vita. Lasciate sbocciare in voi i doni che il Signore vi ha fatto. Chiedetegli di aiutarvi a mettervi generosamente al servizio dei vostri fratelli e sorelle. Così Akamasoa non sarà soltanto un esempio per le generazioni future ma, soprattutto, il punto di partenza di un’opera ispirata da Dio che troverà il suo pieno sviluppo nella misura in cui continuerà a testimoniare l’amore alle generazioni presenti e future.
Preghiamo perché in tutto il Madagascar e in altre parti del mondo si diffonda lo splendore di questa luce, e possiamo raggiungere modelli di sviluppo che privilegino la lotta contro la povertà e l’inclusione sociale a partire dalla fiducia, dall’educazione, dal lavoro e dall’impegno, che sono sempre indispensabili per la dignità della persona umana.
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Dio nostro Padre, creatore del cielo e della terra,
ti ringraziamo di averci riuniti come fratelli in questo luogo,
di fronte a questa roccia spezzata dal lavoro dell’uomo:
noi ti preghiamo per tutti i lavoratori.
Per quelli che lo fanno con le loro mani
e con enorme sforzo fisico.
Preserva i loro corpi dal troppo logorarsi:
non manchino loro la tenerezza e la capacità di accarezzare
i loro figli e di giocare con loro.
Concedi ad essi il vigore dell’anima e la salute del corpo
perché non restino schiacciati dal peso del loro compito.
Fa’ che il frutto del lavoro permetta ad essi
di assicurare una vita dignitosa alle loro famiglie.
Che trovino in esse, alla sera, calore, conforto e incoraggiamento,
e che insieme, riuniti sotto il tuo sguardo,
conoscano le gioie più vere.
Sappiano le nostre famiglie che la gioia di guadagnare il pane
è perfetta quando questo pane è condiviso.
Che i nostri bambini non siano costretti a lavorare,
possano andare a scuola e proseguire i loro studi,
e i loro professori consacrino tempo a questo compito,
senza aver bisogno di altre attività per la sussistenza quotidiana.
Dio di giustizia, tocca il cuore di imprenditori e dirigenti:
provvedano a tutto ciò che è necessario
per assicurare a quanti lavorano un salario dignitoso
e condizioni rispettose della loro dignità di persone umane.
Prenditi cura con la tua paterna misericordia
di coloro che sono senza lavoro,
e fa’ che la disoccupazione – causa di tante miserie –
sparisca dalle nostre società.
Ognuno conosca la gioia e la dignità di guadagnarsi il pane
per portarlo a casa e mantenere i suoi cari.
Padre, crea tra i lavoratori uno spirito di vera solidarietà.
Sappiano essere attenti gli uni agli altri,
incoraggiarsi a vicenda, sostenere chi è sfinito,
rialzare chi è caduto.
Il loro cuore non ceda mai all’odio, al rancore, all’amarezza
davanti all’ingiustizia, ma conservino viva la speranza
di vedere un mondo migliore e lavorare per esso.
Sappiano, insieme, in modo costruttivo,
far valere i loro diritti
e le loro voci e il loro grido siano ascoltati.
Dio, nostro Padre, tu hai dato come protettore
ai lavoratori del mondo intero San Giuseppe,
padre putativo di Gesù, sposo coraggioso della Vergine Maria.
Affido a lui tutti coloro che lavorano qui, ad Akamasoa,
e tutti i lavoratori del Madagascar, specialmente quelli
che conducono una vita precaria e difficile.
Egli li custodisca nell’amore del tuo Figlio
e li sostenga nella loro vita e nella loro speranza.
Amen
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(…) Vorrei dirvi anche di non demotivarvi, pur fra le tensioni che possono crearsi negli istituti di detenzione. Nel vostro lavoro è di grande aiuto tutto ciò che vi fa sentire coesi: anzitutto il sostegno delle vostre famiglie, che vi sono vicine nelle fatiche. E poi l’incoraggiamento reciproco, la condivisione tra colleghi, che permettono di affrontare insieme le difficoltà e aiutano a far fronte alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari - è un problema grave -, che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero.
(…) Cari fratelli e sorelle, ravvivare questa fiammella è dovere di tutti. Sta ad ogni società alimentarla, fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro. L’ergastolo non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi -, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare! Voi, cari fratelli e sorelle, col vostro lavoro e col vostro servizio siete testimoni di questo diritto: diritto alla speranza, diritto di ricominciare. Vi rinnovo il mio grazie. Avanti, coraggio, con la benedizione di Dio, custodendo coloro che vi sono affidati. Prego per voi e chiedo anche a voi di pregare per me. Grazie.
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Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto e ringrazio, per le parole che mi ha indirizzato a nome di tutti, il Dr. Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero, che per la prima volta presiede l’Assemblea plenaria. Alcuni dei vostri volti mi sono più familiari, perché mi accompagnate nella mia attività quotidiana e nei viaggi apostolici. So però che ci sono tante altre persone che pure vivono la propria settimana lavorativa al ritmo degli impegni del Papa. Ma lo fanno “dietro le quinte”, mettendo nel loro lavoro, al servizio della Chiesa, tutta la loro professionalità e creatività, la loro passione e discrezione.
Sono felice di potervi vedere oggi tutti insieme e ringraziarvi per quello che fate! Grazie al vostro lavoro tante persone sono incoraggiate nel loro cammino di fede e tante sono invitate alla ricerca e all’incontro con il Signore. Grazie al vostro lavoro il Papa parla in quasi quaranta lingue – è un vero “miracolo pentecostale”! Grazie a voi il magistero del Papa e della Chiesa viene letto sulla carta, viene ascoltato sulla radio, viene visto sulle reti televisive e sui siti e condiviso attraverso i social media, nel sempre più vorticoso mondo digitale.
È la prima volta che vi incontro tutti insieme da quando, quattro anni fa, è iniziato il processo di accorpamento in un nuovo Dicastero della Curia Romana di tutte le realtà che, in diversi modi, si occupavano della comunicazione (cfr Motu proprio L’attuale contesto comunicativo, 27 giugno 2015). Le riforme sono quasi sempre faticose, e anche quella dei media vaticani lo è. Possono esserci stati dei tratti di strada particolarmente difficili, possono esserci stati anche dei fraintendimenti, ma sono contento di vedere che il cammino va avanti con lungimiranza e con prudenza. So dello sforzo che avete fatto per utilizzare al meglio le risorse che vi sono affidate, contenendo i costi improduttivi.
Per la Chiesa la comunicazione è una missione. Nessun investimento è troppo alto per diffondere la Parola di Dio. Allo stesso tempo ogni talento deve essere ben speso, fatto fruttare. Anche su questo si misura la credibilità di quel che diciamo. Inoltre, per rimanere fedeli al dono ricevuto, bisogna avere il coraggio di cambiare, mai sentirsi arrivati, né scoraggiarsi. Occorre sempre rimettersi in gioco, uscire dalle proprie false sicurezze e abbracciare la sfida del futuro. Precorrere i tempi non è spegnere la memoria del passato, è mantenerne vivo il fuoco.
Ho visto il lavoro che avete fatto. Lo vedo ogni giorno. Per questo oggi vorrei ringraziare Dio insieme a voi per la forza che vi ha dato e che ci dà. La memoria grata per tutto ciò che è già stato compiuto e la consapevolezza dello sforzo comune vi riempiano di forza per andare avanti su questo cammino. (…)
Sappiamo che da allora le sfide in questo ambito sono cresciute in maniera esponenziale e le nostre forze continuano a non bastare mai. La sfida a cui siete chiamati, come cristiani e come comunicatori, è davvero alta. E proprio per questo è bella.
Mi rallegro perciò che il tema scelto per questa Assemblea sia «Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). La vostra, la nostra forza sta nell’unità, nell’essere membra gli uni degli altri. Solo così potremo rispondere sempre meglio alle esigenze della missione della Chiesa.
Nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali di quest’anno, che porta lo stesso titolo, scrivevo che «una comunità è tanto più forte quanto più è coesa e solidale», quanto più «persegue obiettivi condivisi. La metafora del corpo e delle membra ci porta a riflettere sulla nostra identità, che è fondata sulla comunione e sull’alterità. Come cristiani ci riconosciamo tutti membra dell’unico corpo di cui Cristo è il capo», e «siamo chiamati a manifestare quella comunione che segna la nostra identità di credenti. La fede stessa, infatti, è una relazione, un incontro; e sotto la spinta dell’amore di Dio noi possiamo comunicare, accogliere e comprendere il dono dell’altro e corrispondervi».
La comunicazione nella Chiesa non può che essere caratterizzata da questo principio di partecipazione e condivisione. La comunicazione è veramente efficace solo quando diventa testimonianza, cioè una partecipazione della vita che ci viene donata dallo Spirito e ci fa scoprire in comunione gli uni con gli altri, membra gli uni degli altri.
(…) Per questo vi incoraggio a continuare, nel vostro lavoro quotidiano, a fare sempre più squadra, in questa cooperazione tra laici, religiosi e sacerdoti di tanti Paesi, di tante lingue, che fa molto bene alla Chiesa. Possa lo stile stesso del vostro lavoro rendere testimonianza alla comunione.
Vi incoraggio anche, al di là dei lavori di questa Assemblea plenaria, a cercare con ingegno e con creatività tutti i modi perché sia rafforzata la rete con le Chiese locali. Vi incoraggio in questo a favorire anche la formazione di ambienti digitali, nei quali si comunichi e non solo ci si connetta.
So che recentemente questo Dicastero ha promosso alcuni strumenti concreti perché cresca tra le Chiese locali e il Dicastero stesso la circolarità della comunicazione al servizio di tutti. So che avete progetti nuovi, ai quali certamente non mancherà il sostegno del Papa. Con il vostro lavoro voi partecipate al servizio all’unità della Chiesa e al coordinamento della comunicazione di tutta la Curia romana. Dobbiamo camminare insieme. Dobbiamo saper interpretare e orientare il nostro tempo. Possa la comunicazione ecclesiale essere veramente espressione di un unico “corpo”.
Grazie a ciascuno di voi, grazie anche alle vostre famiglie e comunità. Vi chiedo, per favore, di pregare per me, e di cuore vi benedico.
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(…) Le problematiche che siete stati chiamati ad analizzare riguardano tutta l’umanità e richiedono soluzioni estendibili a tutta l’umanità.
Un buon esempio potrebbe essere la robotica nel mondo del lavoro. Da una parte, essa potrà mettere fine ad alcuni lavori usuranti, pericolosi e ripetitivi – si pensi a quelli emersi agli inizi della rivoluzione industriale dell’Ottocento –, che causano spesso sofferenza, noia, abbruttimento. Dall’altra parte, però, la robotica potrebbe diventare uno strumento meramente efficientistico: utilizzato solo per aumentare profitti e rendimenti priverebbe migliaia di persone del loro lavoro, mettendo a rischio la loro dignità.
Un altro esempio sono i vantaggi e i rischi associati all’uso delle intelligenze artificiali nei dibattiti sulle grandi questioni sociali. Da una parte, si potrà favorire un più grande accesso alle informazioni attendibili e quindi garantire l’affermarsi di analisi corrette; dall’altra, sarà possibile, come mai prima d’ora, fare circolare opinioni tendenziose e dati falsi, “avvelenare” i dibattiti pubblici e, persino, manipolare le opinioni di milioni di persone, al punto di mettere in pericolo le stesse istituzioni che garantiscono la pacifica convivenza civile. Per questo, lo sviluppo tecnologico di cui siamo tutti testimoni richiede da noi che ci riappropriamo e che reinterpretiamo i termini etici che altri ci hanno trasmesso.
Se i progressi tecnologici fossero causa di disuguaglianze sempre più marcate, non potremmo considerarli progressi veri e propri. Il cosiddetto progresso tecnologico dell’umanità, se diventasse un nemico del bene comune, condurrebbe a una infelice regressione, a una forma di barbarie dettata dalla legge del più forte. Perciò, cari amici, vi ringrazio perché con i vostri lavori vi impegnate in uno sforzo di civiltà, che si misurerà anche sul traguardo di una diminuzione delle disuguaglianze economiche, educative, tecnologiche, sociali e culturali.
Voi avete voluto gettare delle basi etiche di garanzia per difendere la dignità di ogni persona umana, convinti che il bene comune non può essere dissociato dal bene specifico di ogni individuo. Fino a quando una sola persona rimarrà vittima di un sistema, per quanto evoluto ed efficiente possa essere, che non riesce a valorizzare la dignità intrinseca e il contributo di ogni persona, il vostro lavoro non sarà terminato.
Un mondo migliore è possibile grazie al progresso tecnologico se questo è accompagnato da un’etica fondata su una visione del bene comune, un’etica di libertà, responsabilità e fraternità, capace di favorire il pieno sviluppo delle persone in relazione con gli altri e con il creato.(…)
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NOVEMBRE 2019
ANGELUS
Domenica, 10 novembre 2019
(…) Oggi in Italia si celebra la Giornata Nazionale del Ringraziamento per i frutti della terra e del lavoro. Mi associo ai Vescovi nel richiamare il forte legame tra il pane e il lavoro, auspicando coraggiose politiche occupazionali che tengano conto della dignità e della solidarietà e prevengano i rischi di corruzione. Che non si sfruttino i lavoratori, che ci sia lavoro per tutti ma lavoro vero, non lavoro da schiavi. (…)
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(…) L’università comporta infatti un impegno non solo formativo ma educativo, che parte dalla persona e arriva alla persona. Impegno che non può che qualificare una università cattolica, dove l’aggettivo “cattolica” non introduce una distinzione, ma semmai un surplus di esemplarità: «Si rende necessaria un’educazione che insegni a pensare criticamente e che offra un percorso di maturazione nei valori» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 64), in particolare «sulla dignità della persona umana e il bene comune» (ibid, 65). Da qui l’esigenza di rinnovare l’assunzione di responsabilità di fronte agli impegni che qualificano l’istituzione universitaria in questa epoca in cui si accelerano i processi comunicativi, tecnologici e di interconnessione globale.
1) Anzitutto, una responsabilità di coerenza, ovvero di fedeltà e di comunità. La comunità universitaria lavora sempre per il futuro, ma lo fa con una forte consapevolezza delle radici e una realistica percezione del presente. Per questo, guardo con fiducia alle nuove generazioni che si formano in Università. Protagonisti consapevoli di quel cambiamento che nasce dalla visione e dalla coerenza, a partire da una prospettiva comunitaria: in questo senso la qualità e lo stile delle relazioni che vivete nell’università è fondamentale.
2) Ne consegue una responsabilità culturale e direi missionaria davanti al mondo. «Che cos’è l’università? Qual è il suo compito?» - si chiedeva Papa Benedetto XVI rivolgendosi alla più antica università della Capitale. E rispondeva così: «Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità» (Insegnamenti, IV,1 [2008], 81). Non dobbiamo avere timore di usare questa parola, in uno spirito di dialogo sincero. Verità, libertà, bene: su questa direttrice auspico che la vostra Università sappia offrire una formazione in cui, trasversalmente al sapere curriculare, ci sia spazio per la formazione integrale della persona.
3) Ecco allora la responsabilità sociale dell’Università. Attivare circuiti virtuosi di sviluppo integrale con le forze vive della società. Serve il coraggio di mettersi in gioco. Aprire le sedi – a Palermo, a Taranto, e a Roma – alle antiche e nuove povertà.
4) Vi è infine una responsabilità interuniversitaria. L’Europa è stata la culla delle università, ma deve ritrovarne il senso. La vostra Università continui a lavorare nel sistema universitario a tutti i livelli e in particolare con le università cattoliche affinché si crei un clima fruttuoso di cooperazione, di scambio e di mutuo aiuto nel costruire progetti didattici e di ricerca innovativi, orientati a quella carità intellettuale che non fa sconti alla verità e che non si accontenta di mediocrità.
Tutti voi, studenti, docenti, e responsabili della comunità universitaria, incoraggio ad aprire i cuori e le menti. A non accontentarsi – voi studenti prima di tutto – degli spartiti correnti, del pensiero apparentemente egemone, di un mondo in cui diversità è conflitto. Possiate sentire la sana ambizione di aggiungere qualcosa di originale, che sia anche concreto e utile. Voi giovani, non abbiate timore di essere esigenti con i vostri docenti, che per essere maestri devono essere anche testimoni. E voi, docenti, non temete di essere esigenti con i vostri studenti, perché esprimano il meglio di sé.
Vi riconsegno, cari fratelli e sorelle, il motto dell’Università: In fide et humanitate. Quell’ “et” significa educazione integrale, in un mondo globalizzato e frammentato, pieno di contraddizioni, che richiede tanto lavoro insieme. Un lavoro serio, creativo, artigianale, che passa attraverso la mente, il cuore, le mani.
Maria, Assunta in cielo, continui ad essere riferimento e guida del vostro cammino che oggi si rinnova. Vi ringrazio di questo gradito incontro e di cuore benedico ciascuno di voi e il vostro lavoro. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
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(…) Le possibilità della tecnologia sono sempre più elevate. Oggi si parla molto delle applicazioni della cosiddetta intelligenza artificiale. L’identificazione e l’eliminazione dalla circolazione in rete delle immagini illegali e nocive ricorrendo ad algoritmi sempre più elaborati è un campo di ricerca molto importante, in cui scienziati e operatori del mondo digitale devono continuare ad impegnarsi in una nobile competizione per contrastare l’uso perverso dei nuovi strumenti a disposizione. Faccio quindi appello agli ingegneri informatici, perché si sentano anch’essi responsabili in prima persona della costruzione del futuro. Tocca a loro, con il nostro appoggio, impegnarsi in uno sviluppo etico degli algoritmi, farsi promotori di un nuovo campo dell’etica per il nostro tempo: la “algor-etica”.
(…) Lo sviluppo tecnologico e del mondo digitale coinvolge enormi interessi economici. Non si può quindi trascurare la forza con cui tali interessi tendono a condizionare la condotta delle imprese. Agire per la responsabilità degli investitori e dei gestori, perché il bene dei minori e della società non sia sacrificato al profitto, è quindi un impegno da incoraggiare. Come già avviene per il crescere della sensibilità sociale nel campo ambientale o del rispetto della dignità del lavoro, così pure l’attenzione alla protezione efficace dei minori e la lotta alla pornografia devono diventare sempre più presenti nella finanza e nell’economia del mondo digitale. La crescita sicura e sana della gioventù è lo scopo nobile per cui vale la pena di lavorare e vale molto di più che il mero profitto economico ottenuto anche a rischio di fare il male dei giovani. (…)
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(…) Non c’è cura senza ricerca. E non c’è futuro, nella medicina, senza ricerca. Da questo punto di vista, il “Bambino Gesù” è già da tempo proiettato nel futuro, con risultati importanti nel campo della diagnostica delle malattie rare e della cura delle patologie complesse, con lo sviluppo di terapie di precisione. Ammiro la passione e l’entusiasmo che mettete nel vostro lavoro di cura e di ricerca, e vorrei che non perdeste mai la capacità di scorgere il volto sofferente di un bambino anche dietro un semplice campione da analizzare, e di udire il grido dei genitori anche all’interno dei vostri laboratori. Il mistero della sofferenza dei bambini non smetta di parlare alle vostre coscienze e di motivare il vostro impegno umano e professionale. Mi viene in mente quella domanda, a cui è difficile trovare risposta, del grande Dostoevskij: “Perché soffrono i bambini?”. Sempre avere viva questa domanda: perché soffre un bambino? Non c’è risposta: soltanto il servizio al bambino sofferente e lo sguardo al Padre di tutti, perché faccia qualcosa. (…)
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(…) In questo senso, per evitare il rischio di avere uno sguardo troppo distaccato e disincarnato sulla realtà, vi invito a pensare sempre alle sfide e alle difficoltà che voi stessi incontrate quando cercate di vivere da cristiani nelle vostre famiglie, nel vostro lavoro, nel quartiere in cui vivete. Partendo dalla vostra esperienza e dalle vostre difficoltà, capirete meglio la fatica quotidiana dei fedeli laici di tutto il mondo, le cui difficoltà sono spesso accresciute da condizioni di povertà e di instabilità sociale, dalla persecuzione religiosa, dalla propaganda ideologica anti-cristiana.
(…) Sentire con il cuore della Chiesa madre e avere uno sguardo da fratelli. Sono le due immagini che vi lascio e che spero vi aiutino a riflettere sul cammino che avete davanti. Sono due immagini che ci fanno volgere lo sguardo a Maria, colei che impersona perfettamente la Chiesa-madre e che insegna a tutti i discepoli di suo Figlio a vivere da fratelli. Quell’icona della Madonna in preghiera, in attesa dello Spirito Santo: è la Madre che fa vivere da fratelli.
E, prima di finire, vorrei tornare su due punti che erano impliciti qui. Prima di tutto, il pericolo di clericalizzare i laici. Voi siete laici, voi dovete lavorare con i laici, non clericalizzare i laici. Tante volte è successo nell’altra diocesi [Buenos Aires], veniva un parroco e mi diceva: “Ho un laico meraviglioso, sa fare tutto, tutto. Lo facciamo diacono?...”. Questo fenomeno lo vedo anche nei diaconi: diventano diaconi permanenti e invece di essere i custodi del servizio nella diocesi, subito guardano l’altare e finiscono per essere “preti mancati”, preti a metà strada. Io consiglio ai vescovi: “Allontanate i diaconi dall’altare”, che vadano al servizio. Sono i custodi del servizio, non chierichetti di prima categoria o preti di seconda categoria. Questo della clericalizzazione è un punto importante.
Poi, la seconda cosa che mi è venuta in mente leggendo è questa: il vostro Dicastero, dopo una lotta non facile – il Prefetto lo sa – ha la grazia di avere due Sottosegretarie, di avere inserito le donne proprio nella struttura. E due sono poche! Dobbiamo andare avanti per inserire le donne nei posti di consiglio, anche di governo, senza paura. Sempre tenendo presente una realtà: il posto della donna nella Chiesa non è soltanto per la funzionalità. Sì, certo, può anche essere capo dicastero. Nella nomina del capo del Dicastero dell’Economia, dell’altro giorno, nella lista finale c’erano due donne; potevano essere capo dicastero. Questa è la funzionalità. Ma è molto importante il consiglio della donna. Una delle vostre Sottosegretarie, nell’incontro dei Presidenti delle Conferenze episcopali a febbraio sull’abuso, ha fatto sentire un’altra musica, un altro modo di vedere e pensare. E questo ha arricchito. Posti di governance, di consiglio, ma che non finisca solo nella funzionalità. E su questo non abbiamo lavorato ancora. Il ruolo della donna nell’organizzazione ecclesiale, nella Chiesa va oltre, e dobbiamo lavorare su questo oltre, perché la donna è l’immagine della Chiesa madre, perché la Chiesa è donna; non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa. La Chiesa è madre. La Chiesa è capace di portare avanti questa realtà e la donna ha un’altra funzione. Non deve avere lavoro funzionale, ma il lavoro va oltre. È quel principio mariano proprio della donna; una donna nella Chiesa è l’immagine della Chiesa sposa e della Madonna.
Mi raccomando queste due cose: non clericalizzare i laici e aprire questo nuovo orizzonte per capire bene cosa è la donna nella Chiesa.(…)
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Cari fratelli e sorelle,
vi accolgo volentieri e vi do il benvenuto, e ringrazio il Presidente per le sue cortesi parole. Il 9 maggio 1993 il mio predecessore San Giovanni Paolo II, poco prima di rivolgere agli “uomini della mafia” il memorabile e perentorio invito alla conversione nella Valle dei Templi, ad Agrigento, aveva incontrato i genitori di un magistrato, Rosario Angelo Livatino, che il 21 settembre 1990, all’età di 38 anni, era stato ucciso mentre si recava al lavoro in Tribunale. In quella occasione il Papa lo definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”.
Sono lieto di incontrare oggi gli iscritti al Centro Studi che ha scelto il suo nome e che tiene l’annuale convegno nazionale. Livatino – per il quale si è concluso positivamente il processo diocesano di beatificazione – continua ad essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice. Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo.
Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni. In una conferenza, riferendosi alla questione dell’eutanasia, e riprendendo le preoccupazioni che un parlamentare laico del tempo aveva per l’introduzione di un presunto diritto all’eutanasia, egli faceva questa osservazione: «Se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana […] è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire» (Canicattì, 30 aprile 1986, in Fede e diritto, a cura della Postulazione).
(…) In questo modo, con queste convinzioni, Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge.
Cari amici, la concordia è il legame tra gli uomini liberi che compongono la società civile. Col vostro impegno di giuristi, voi siete chiamati a contribuire alla costruzione di questa concordia, approfondendo le ragioni della coerenza fra le radici antropologiche, l’elaborazione dei principi e le linee di applicazione nella vita quotidiana.
Dopo la morte di Livatino, in più di uno dei suoi appunti veniva trovata a margine una annotazione, che all’inizio suonava misteriosa: “S.T.D.”. Presto si scoprì che era l’acronimo che attestava l’atto di affidamento totale che Rosario faceva con frequenza alla volontà di Dio: S.T.D. sono le iniziali di sub tutela Dei. Vi auguro di proseguire sulle sue orme, in questa scuola di vita e di pensiero. Vi benedico e, per favore, non dimenticate di pregare per me
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DICEMBRE 2019
(…) Possa questo pellegrinaggio illuminare il vostro discernimento sulle scelte che dovete fare: non è mai stato facile essere cristiani e avere gravi responsabilità. Il fatto di prendere le distanze dal mondo – in ciò che è contrario a Dio e alla sua volontà –; il fatto di voler trasformare questo mondo e salvarlo con Cristo, talvolta può portare al martirio, come attestano San Pietro e San Paolo. Tuttavia, questi gloriosi testimoni ci dimostrano che il messaggio evangelico di cui erano portatori, un messaggio apparentemente debole rispetto alle potenze mondane del potere e del denaro, non è un’utopia, ma, con la forza dello Spirito Santo e il sostegno della fede di coraggiosi discepoli missionari, può diventare realtà, una realtà sempre incompiuta, certo, e da rinnovare.
I conflitti di coscienza nelle decisioni quotidiane che dovete prendere sono – immagino – numerosi: da un lato, la necessità che vi è imposta – spesso per la sopravvivenza delle aziende, delle persone che vi lavorano e delle loro famiglie – di conquistare mercati, aumentare la produttività, ridurre i ritardi, ricorrere agli artifici della pubblicità, incrementare i consumi...; e d’altra parte le esigenze sempre più urgenti di giustizia sociale, per garantire a ciascuno la possibilità di guadagnarsi da vivere dignitosamente. Penso alle condizioni di lavoro, ai salari, alle offerte di impiego e alla loro stabilità, nonché alla protezione dell’ambiente. Come vivere questi conflitti nella serenità e nella speranza, mentre l’imprenditore cristiano è a volte portato a mettere a tacere le proprie convinzioni e i propri ideali?
Un criterio di discernimento si può trovare nella Costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, dove, a proposito dei laici impegnati nelle realtà temporali, si dice: «Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero» (n. 43).
Nell’Enciclica Laudato si’, alla quale vi rimando per nutrire la vostra preghiera e la vostra riflessione, viene fatta una certa valutazione della situazione del mondo, di alcuni sistemi che ne regolano le attività economiche, con le loro conseguenze sugli uomini e sull’ambiente. È una valutazione che potrebbe sembrare a volte severa, ma che porta – credo – a suscitare un grido di allarme per il deterioramento della nostra casa comune, come pure davanti al moltiplicarsi delle povertà e delle schiavitù che conoscono oggi innumerevoli esseri umani. Tutto è collegato.
Di fronte a questa realtà, ed essendo attori, per quanto vi compete, nei sistemi in questione, voi non avete certamente una risposta immediatamente efficace da dare alle sfide del mondo attuale. In questo, talvolta potrete sentirvi impotenti. E tuttavia avete un ruolo essenziale da svolgere. Perché, anche in maniera modesta, in alcuni cambiamenti concreti di abitudini e di stile, sia nelle relazioni con i vostri collaboratori diretti, o meglio ancora nella diffusione di nuove culture aziendali, vi è possibile agire per cambiare concretamente le cose e, a poco a poco, educare il mondo del lavoro a uno stile nuovo.
Avete anche l’opportunità di riunirvi tra voi, di lavorare insieme, di fare proposte a tutti i livelli, di partecipare alle decisioni politiche. Si tratta, come ha evidenziato il recente Sinodo sull’Amazzonia, di operare una “conversione”. La conversione è un processo che agisce in profondità: un processo forse lento, all’apparenza, soprattutto quando si tratta di convertire le mentalità, ma l’unico che consente progressi reali, se attuato con convinzione e determinazione mediante azioni concrete.
Infine, questa «conversione ecologica» non può essere separata dalla conversione spirituale, che ne è la condizione indispensabile. E ognuno è restituito alla sua coscienza e alla sua responsabilità. «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo» (Enc. Laudato si’, 222). Vi invito, già nella vostra vita personale, ad impegnarvi su questa via della semplicità e della sobrietà (cfr ibid.); le decisioni che dovrete prendere nelle vostre occupazioni non potranno che risultare più libere e più serene, e voi stessi ne trarrete maggiore pace e gioia. Perché «la semplicità ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo»
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Cari fratelli e sorelle,
sono lieto di incontrarmi con la grande famiglia della Congregazione delle Cause dei Santi, che svolge il suo lavoro al servizio della Chiesa universale in ordine al riconoscimento della santità di coloro che hanno fedelmente seguito Cristo. (…).
È un’occasione significativa quella che motiva il nostro incontro odierno: la Congregazione delle Cause dei Santi compie quest’anno mezzo secolo di vita. Infatti, l’8 maggio 1969 San Paolo VI decise di sostituire la Congregazione dei Sacri Riti con due Dicasteri: la Congregazione delle Cause dei Santi e la Congregazione per il Culto Divino. Con tale decisione egli permetteva di dedicare adeguate risorse di persone e di lavoro a due grandi aree chiaramente distinte, per meglio corrispondere sia alle richieste sempre piú numerose delle Chiese particolari, sia alla sensibilità conciliare.
In questo mezzo secolo di attività, la vostra Congregazione ha vagliato un gran numero di profili biografici e spirituali di uomini e donne, per presentarli quali modelli e guide di vita cristiana. Le moltissime beatificazioni e canonizzazioni, che si sono celebrate in questi ultimi decenni, stanno a significare che i Santi non sono degli esseri umani irraggiungibili, ma sono vicini a noi e ci possono sostenere nel cammino della vita. Infatti, «sono persone che hanno sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti, trovando nel Signore la forza di rialzarsi sempre e proseguire il cammino» (Angelus, 1 novembre 2019). Ed è importante misurare la nostra coerenza evangelica con diverse tipologie di santità, poiché «ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 19).
La testimonianza dei Beati e dei Santi ci illumina, ci attrae e ci mette anche in discussione, perché è “parola di Dio” incarnata nella storia e vicina a noi. La santità permea e accompagna sempre la vita della Chiesa pellegrina nel tempo, spesso in modo nascosto e quasi impercettibile. Pertanto, dobbiamo imparare a «vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. [...] Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (ibid., 7).
Il vostro Dicastero è chiamato a verificare le varie modalità della santità eroica, quella che risplende più visibile come quella piú nascosta e meno appariscente, ma altrettanto straordinaria. La santità è la vera luce della Chiesa: come tale, essa va messa sul candelabro perché possa illuminare e guidare il cammino verso Dio di tutto il popolo redento. Si tratta di una verifica quotidianamente compiuta dal vostro Dicastero, che fin dall’antichità è stata svolta con scrupolosità e accuratezza nella ricerca investigativa, con serietà e perizia nello studio delle fonti processuali e documentali, con obiettività e rigore nell’esame e in ogni grado di giudizio, relativo al martirio, all’eroicità delle virtú, all’offerta della vita e al miracolo. Si tratta di criteri fondamentali, che sono richiesti dalla gravità della materia trattata, dalla legislazione e dalle giuste attese del popolo di Dio, che si affida all’intercessione dei Santi e si ispira al loro esempio di vita.
Seguendo questa via, il lavoro della Congregazione consente di sgombrare il campo da ogni ambiguità e dubbio, conseguendo una piena certezza nella proclamazione della santità. Non posso quindi che esortare ognuno di voi a proseguire sulla strada tracciata e percorsa per circa quattro secoli dalla Congregazione dei Sacri Riti, e continuata negli ultimi cinquant’anni dalla Congregazione delle Cause dei Santi. Incoraggio in questo i Superiori, i Cardinali, i Vescovi Membri del Dicastero, e tutti gli Officiali.
(…) Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per il solerte servizio che rendete a tutta la Chiesa. Mediante la vostra opera, voi vi ponete al fianco specialmente dei Vescovi per sostenere il loro impegno nel diffondere la consapevolezza che la santità è l’esigenza più profonda di ogni battezzato, l’anima della Chiesa e l’aspetto prioritario della sua missione. Affido il vostro lavoro quotidiano alla materna intercessione di Maria, Regina dei Santi, e, mentre vi chiedo di pregare per me, di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica.
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(…) Considerando e vivendo la vecchiaia come la stagione del dono e la stagione del dialogo, si contrasterà lo stereotipo tradizionale dell’anziano: malato, invalido, dipendente, isolato, assediato da paure, lasciato da parte, con una identità debole per la perdita di un ruolo sociale. In pari tempo, si eviterà di focalizzare l’attenzione generale prevalentemente sui costi e i rischi, dando più evidenza alle risorse e alle potenzialità degli anziani. Purtroppo, tante volte si scartano i giovani, perché non hanno lavoro, e si scartano gli anziani con la pretesa di mantenere un sistema economico “equilibrato”, al centro del quale non vi è la persona umana, ma il denaro. E questo non va. Il futuro – e questo non è esagerato – sarà nel dialogo fra giovani e anziani. Se i nonni non dialogano con i nipoti, non ci sarà futuro. Siamo tutti chiamati a contrastare questa velenosa cultura dello scarto. Siamo chiamati a costruire con tenacia una società diversa, più accogliente, più umana, più inclusiva, che non ha bisogno di scartare chi è debole nel corpo e nella mente, anzi, una società che misura il proprio “passo” proprio su queste persone (…).
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«E il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Cari fratelli e sorelle,
a tutti voi il mio cordiale benvenuto. Ringrazio il Cardinale Angelo Sodano per le parole che mi ha rivolto, e soprattutto desidero esprimergli la mia gratitudine, anche a nome dei Membri del Collegio Cardinalizio, per il prezioso e puntuale servizio che Egli ha svolto quale Decano, per lunghi anni, con disponibilità, dedizione, efficienza e grande capacità organizzativa e di coordinamento. Con quel modo di agire della “rassa nostrana”, come direbbe Nino Costa [scrittore piemontese]. Grazie di cuore, Eminenza! Adesso tocca ai Cardinali Vescovi eleggere un nuovo Decano; spero che scelgano qualcuno che si occupi a tempo pieno di questa carica tanto importante. Grazie.
A voi qui presenti, ai vostri collaboratori, a tutte le persone che prestano servizio nella Curia, come pure ai Rappresentanti Pontifici e a quanti li affiancano, auguro un santo e lieto Natale. Ed agli auguri aggiungo la riconoscenza per la dedizione quotidiana che offrite al servizio della Chiesa. Grazie tante!
Anche quest’anno il Signore ci offre l’occasione di incontrarci per questo gesto di comunione, che rafforza la nostra fraternità ed è radicato nella contemplazione dell’amore di Dio rivelatosi nel Natale. Infatti, «la nascita di Cristo – ha scritto un mistico del nostro tempo – è la testimonianza più forte ed eloquente di quanto Dio abbia amato l’uomo. Lo ha amato di un amore personale. È per questo che ha preso un corpo umano al quale si è unito e lo ha fatto proprio per sempre. La nascita di Cristo è essa stessa una “alleanza d’amore” stipulata per sempre tra Dio e l’uomo»[1]. E San Clemente d’Alessandria scrive: «Per questo lui [Cristo] è disceso, per questo rivestì l’umanità, per questo patì volontariamente ciò che è degli uomini, affinché, dopo essersi misurato con la debolezza di noi che egli amò, potesse in cambio misurare noi con la sua potenza»[2].
Considerando tanta benevolenza e tanto amore, lo scambio degli auguri natalizi è altresì un’occasione per accogliere nuovamente il suo comandamento: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). Qui, di fatto, Gesù non ci chiede di amare Lui come risposta al suo amore per noi; ci domanda, piuttosto, di amarci l’un l’altro con il suo stesso amore. Ci domanda, in altre parole, di essere simili a Lui, perché Egli si è fatto simile a noi. Il Natale, dunque – esorta il santo Cardinale Newman –, «ci trovi sempre più simili a Colui che, in questo tempo è divenuto bambino per amor nostro; che ogni nuovo Natale ci trovi più semplici, più umili, più santi, più caritatevoli, più rassegnati, più lieti, più pieni di Dio»[3]. E aggiunge: «Questo è il tempo dell’innocenza, della purezza, della dolcezza, della gioia, della pace»[4].
Il nome di Newman ci ricorda anche una sua ben nota affermazione, quasi un aforisma, rintracciabile nella sua opera Lo sviluppo della dottrina cristiana, che storicamente e spiritualmente si colloca al crocevia del suo ingresso nella Chiesa Cattolica. Dice così: «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni»[5]. Non si tratta ovviamente di cercare il cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode, ma di avere la convinzione che lo sviluppo e la crescita sono la caratteristica della vita terrena e umana, mentre, nella prospettiva del credente, al centro di tutto c’è la stabilità di Dio[6].
Per Newman il cambiamento era conversione, cioè un interiore trasformazione[7]. La vita cristiana, in realtà, è un cammino, un pellegrinaggio. La storia biblica è tutta un cammino, segnato da avvii e ripartenze; come per Abramo; come per quanti, duemila anni or sono in Galilea, si misero in cammino per seguire Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11). Da allora, la storia del popolo di Dio – la storia della Chiesa – è segnata sempre da partenze, spostamenti, cambiamenti. Il cammino, ovviamente, non è puramente geografico, ma anzitutto simbolico: è un invito a scoprire il moto del cuore che, paradossalmente, ha bisogno di partire per poter rimanere, di cambiare per potere essere fedele[8].
Tutto questo ha una particolare valenza nel nostro tempo, perché quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. Il cambiamento, in questo caso, assumerebbe tutt’altro aspetto: da elemento di contorno, da contesto o da pretesto, da paesaggio esterno… diventerebbe sempre più umano, e anche più cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica[9].
Noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi: «Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa»[10]. Da ciò siamo sollecitati a leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento «risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi»[11].
Affrontando oggi il tema del cambiamento che si fonda principalmente sulla fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione, desidero ritornare sull’attuazione della riforma della Curia romana, ribadendo che tale riforma non ha mai avuto la presunzione di fare come se prima niente fosse esistito; al contrario, si è puntato a valorizzare quanto di buono è stato fatto nella complessa storia della Curia. È doveroso valorizzarne la storia per costruire un futuro che abbia basi solide, che abbia radici e perciò possa essere fecondo. Appellarsi alla memoria non vuol dire ancorarsi all’autoconservazione, ma richiamare la vita e la vitalità di un percorso in continuo sviluppo. La memoria non è statica, è dinamica. Implica per sua natura movimento. E la tradizione non è statica, è dinamica, come diceva quel grande uomo [G. Mahler riprendendo una metafora di Jean Jaurès]: la tradizione è la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri.
Cari fratelli e sorelle,
nei nostri precedenti incontri natalizi, vi ho parlato dei criteri che hanno ispirato questo lavoro di riforma. Ho anche motivato alcune attuazioni che sono già state realizzate, sia definitivamente sia ad experimentum[12]. Nel 2017 ho evidenziato alcune novità dell’organizzazione curiale, come, ad esempio, la Terza Sezione della Segreteria di Stato, che sta andando molto bene; o le relazioni tra Curia romana e Chiese particolari, ricordando anche l’antica prassi delle Visite ad limina Apostolorum; o la struttura di alcuni Dicasteri, in particolare quello per le Chiese Orientali e altri per il dialogo ecumenico e per quello interreligioso, in particolare con l’Ebraismo.
Nell’incontro odierno vorrei soffermarmi su alcuni altri Dicasteri partendo dal cuore della riforma, ossia dal primo e più importante compito della Chiesa: l’evangelizzazione. San Paolo VI affermò: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare»[13]. Evangelii nuntiandi, che anche oggi continua ad essere il documento pastorale più importante del dopo Concilio, e attuale. In realtà, l’obiettivo dell’attuale riforma è che «le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 27). E allora, proprio ispirandosi a questo magistero dei Successori di Pietro dal Concilio Vaticano II fino ad oggi, si è pensato di proporre per l’instruenda nuova Costituzione Apostolica sulla riforma della Curia romana il titolo di Praedicate evangelium. Cioè l'atteggiamento missionario.
Ecco perché il mio pensiero va oggi ad alcuni fra i Dicasteri della Curia romana che con tutto questo hanno un esplicito riferimento già nelle loro denominazioni: la Congregazione per la Dottrina della Fede, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli; ma penso anche al Dicastero della Comunicazione e al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.
Quando queste prime due Congregazioni citate furono istituite, si era in un’epoca nella quale era più semplice distinguere tra due versanti abbastanza definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra. Adesso questa situazione non esiste più. Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati[14]. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata. Ciò fu sottolineato da Benedetto XVI quando, indicendo l’Anno della Fede (2012), scrisse: «Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone»[15]. E per questo fu istituito nel 2010 il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, per «promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo»[16]. A volte ne ho parlato con alcuni di voi... Penso a cinque Paesi che hanno riempito il mondo di missionari – vi ho detto quali sono – e oggi non hanno risorse vocazionali per andare avanti. E questo è il mondo attuale.
La percezione che il cambiamento di epoca ponga seri interrogativi riguardo all’identità della nostra fede non è giunta, a dire il vero, all’improvviso[17]. In tale quadro s’inserirà pure l’espressione “nuova evangelizzazione” adottata da San Giovanni Paolo II, il quale nell’Enciclica Redemptoris missio scrisse: «Oggi la Chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo» (n. 30). C’è bisogno di una nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione (cfr n. 33).
Tutto questo comporta necessariamente dei cambiamenti e delle mutate attenzioni anche nei suindicati Dicasteri, come pure nell’intera Curia[18].
Alcune considerazioni vorrei riservarle pure al Dicastero per la Comunicazione, di recente istituzione. Siamo nella prospettiva del cambiamento di epoca, in quanto «larghe fasce dell’umanità vi sono immerse in maniera ordinaria e continua. Non si tratta più soltanto di “usare” strumenti di comunicazione, ma di vivere in una cultura ampiamente digitalizzata che ha impatti profondissimi sulla nozione di tempo e di spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere, di informarsi, di entrare in relazione con gli altri. Un approccio alla realtà che tende a privilegiare l’immagine rispetto all’ascolto e alla lettura influenza il modo di imparare e lo sviluppo del senso critico» (Esort. ap postsin. Christus vivit, 86).
Al Dicastero per la Comunicazione è stato dunque affidato il compito di accorpare in una nuova istituzione i nove enti che, precedentemente, si occupavano, in varie modalità e con diversi compiti, di comunicazione: il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, la Sala Stampa della Santa Sede, la Tipografia Vaticana, la Libreria Editrice Vaticana, l’Osservatore Romano, la Radio Vaticana, il Centro Televisivo Vaticano, il Servizio Internet Vaticano, il Servizio Fotografico. Questo accorpamento, tuttavia, in linea con quanto detto, non si proponeva un semplice raggruppamento “coordinativo”, ma di armonizzare le diverse componenti in ordine a produrre una migliore offerta di servizi e anche a tenere una linea editoriale coerente.
La nuova cultura, marcata da fattori di convergenza e multimedialità, ha bisogno di una risposta adeguata da parte della Sede Apostolica nell’ambito della comunicazione. Oggi, rispetto ai servizi diversificati, prevale la forma multimediale, e questo segna anche il modo di concepirli, di pensarli e di attuarli. Tutto ciò implica, insieme al cambiamento culturale, una conversione istituzionale e personale per passare da un lavoro a compartimenti stagni – che nei casi migliori aveva qualche coordinamento – a un lavoro intrinsecamente connesso, in sinergia.
Cari fratelli e sorelle,
molte delle cose sin qui dette, valgono anche, in linea di principio, per il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Anch’esso è stato istituito recentemente al fine di rispondere ai cambiamenti intervenuti a livello globale, attuando la confluenza di quattro precedenti Pontifici Consigli: Giustizia e Pace, Cor Unum, Pastorale dei Migranti e Operatori Sanitari. La coerenza dei compiti affidati a questo Dicastero è sinteticamente richiamata dall’esordio del Motu Proprio Humanam progressionem che lo ha istituito: «In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo. Tale sviluppo si attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato». Si attua nel servire i più deboli ed emarginati, in particolare i migranti forzati, che rappresentano in questo momento un grido nel deserto della nostra umanità. La Chiesa è dunque chiamata a ricordare a tutti che non si tratta solo di questioni sociali o migratorie ma di persone umane, di fratelli e sorelle che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata. È chiamata a testimoniare che per Dio nessuno è “straniero” o “escluso”. È chiamata a svegliare le coscienze assopite nell’indifferenza dinanzi alla realtà del Mar Mediterraneo divenuto per molti, troppi, un cimitero.
Vorrei richiamare l’importanza del carattere di integralità dello sviluppo. San Paolo VI affermò che «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Enc. Populorum progressio, 14). In altre parole, radicata nella sua tradizione di fede e richiamandosi, negli ultimi decenni, al magistero del Concilio Vaticano II, la Chiesa ha sempre affermato la grandezza della vocazione di tutti gli esseri umani, che Dio ha creato a sua immagine e somiglianza perché formassero una sola famiglia; e al tempo stesso ha cercato di abbracciare l’umano in tutte le sue dimensioni.
È proprio questa esigenza di integralità a riproporre oggi a noi l’umanità che ci accomuna in quanto figli di un unico Padre. «In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo» (M.P. Humanam progressionem). Il Vangelo riporta sempre la Chiesa alla logica dell’incarnazione, a Cristo che ha assunto la nostra storia, la storia di ognuno di noi. Questo ci ricorda il Natale. L’umanità, allora, è la cifra distintiva con cui leggere la riforma. L’umanità chiama, interpella e provoca, cioè chiama a uscire fuori e a non temere il cambiamento.
Non dimentichiamo che il Bambino adagiato nel presepe ha il volto dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi, dei poveri che «sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi» (Lett. ap. Admirabile signum, 1 dicembre 2019, 6).
Cari fratelli e sorelle,
si tratta dunque di grandi sfide e di necessari equilibri, molte volte non facili da realizzare, per il semplice fatto che, nella tensione tra un passato glorioso e un futuro creativo e in movimento, si trova il presente in cui ci sono persone che necessariamente hanno bisogno di tempo per maturare; ci sono circostanze storiche da gestire nella quotidianità, perché durante la riforma il mondo e gli eventi non si fermano; ci sono questioni giuridiche e istituzionali che vanno risolte gradualmente, senza formule magiche o scorciatoie.
C’è, infine, la dimensione del tempo e c’è l’errore umano, coi quali non è possibile né giusto non fare i conti perché fanno parte della storia di ciascuno. Non tenerne conto significa fare le cose astraendo dalla storia degli uomini. Legata a questo difficile processo storico, c’è sempre la tentazione di ripiegarsi sul passato (anche usando formulazioni nuove), perché più rassicurante, conosciuto e, sicuramente, meno conflittuale. Anche questo, però, fa parte del processo e del rischio di avviare cambiamenti significativi[19].
Qui occorre mettere in guardia dalla tentazione di assumere l’atteggiamento della rigidità. La rigidità che nasce dalla paura del cambiamento e finisce per disseminare di paletti e di ostacoli il terreno del bene comune, facendolo diventare un campo minato di incomunicabilità e di odio. Ricordiamo sempre che dietro ogni rigidità giace qualche squilibrio. La rigidità e lo squilibro si alimentano a vicenda in un circolo vizioso. E oggi questa tentazione della rigidità è diventata tanto attuale.
Cari fratelli e sorelle,
la Curia romana non è un corpo staccato dalla realtà – anche se il rischio è sempre presente –, ma va concepita e vissuta nell’oggi del cammino percorso dagli uomini e dalle donne, nella logica del cambiamento d’epoca. La Curia romana non è un palazzo o un armadio pieno di vestiti da indossare per giustificare un cambiamento. La Curia romana è un corpo vivo, e lo è tanto più quanto più vive l’integralità del Vangelo.
Il Cardinale Martini, nell’ultima intervista a pochi giorni della sua morte, disse parole che devono farci interrogare: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. [...] Solo l’amore vince la stanchezza»[20].
Il Natale è la festa dell’amore di Dio per noi. L’amore divino che ispira, dirige e corregge il cambiamento e sconfigge la paura umana di lasciare il “sicuro” per rilanciarci nel “mistero”.
Buon Natale a tutti!
Nella preparazione al Natale, abbiamo ascoltato le prediche sulla Santa Madre di Dio. Rivolgiamoci a lei prima della benedizione.
[Ave Maria e benedizione]
Adesso vorrei darvi un ricordo, un pensiero: due libri. Il primo è il “documento”, diciamolo così, che ho voluto fare per il mese missionario straordinario [ottobre 2019], e l’ho fatto in forma di intervista, Senza di Lui non possiamo far nulla. Mi ha ispirato una frase, non so di chi, che diceva che quando il missionario arriva in un posto già c’è lo Spirito Santo lì che lo aspetta. Questa è l’ispirazione di questo documento. E il secondo è un ritiro dato ai sacerdoti poco tempo fa da Don Luigi Maria Epicoco, un ritiro ai sacerdoti, Qualcuno a cui guardare. Li do di cuore perché servano a tutta la comunità. Grazie!
[1] Matta El Meskin, L’umanità di Dio, Qiqajon-Bose, Magnano 2015, 170-171.
[2] Quis dives salvetur 37, 1-6.
[3] Sermone “L’incarnazione, Mistero di grazia”: Parochial and Plain SermonsV, 7.
[4] Ibid. V, 97-98.
[5] Meditazioni e preghiere, a cura di G. Velocci, Milano 2002, 75.
[6] In una sua preghiera Newman affermava: «Non c’è nulla di stabile, al di fuori di te, o mio Dio. Tu sei il centro e la vita di tutti quelli che cambiano, che confidano in te come loro Padre, che guardano a te e che sono contenti di mettersi nelle tue mani. Io so, mio Dio, che devo cambiare se voglio vedere il tuo volto» (ibid., 112).
[7] Newman così lo descrive: «Al momento della conversione non ebbi coscienza d’un qualsiasi cambiamento, intellettuale o morale, che avvenisse nel mio spirito… mi sembrava di ritornare in porto dopo una navigazione tempestosa; ed a questo riguardo la mia felicità è continuata ininterrottamente fino ad oggi» (Apologia pro vita sua, a cura di A. Bosi, Torino 1988, 360; cfr J. Honoré, Gli aforismi di Newman, LEV, Città del Vaticano 2010, 167).
[8] Cfr J. M. Bergoglio, Messaggio quaresimale ai sacerdoti e consacrati, 21 febbraio 2007, in Nei tuoi occhi è la mia parola, Milano, 2016, 501.
[9] Cfr Cost. ap. Veritatis gaudium (27 dicembre 2017), 3: «Si tratta, in definitiva, di cambiare il modello di sviluppo globale e di ridefinire il progresso: il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade».
[10] Intervista rilasciata a P. Antonio Spadaro: La Civiltà Cattolica,19 settembre 2013, 468.
[11] Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania, 29 giugno 2019.
[12] Cfr Discorso alla Curia, 22 dicembre 2016.
[13] Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 14. San Giovanni Paolo II scrisse che l’evangelizzazione missionaria «costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza» (Enc. Redemptoris missio, 7 dicembre 1990, 2).
[14] Cfr Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale della Pastorale delle Grandi Città, 27 novembre 2014.
[15] Lett. ap. M.P. Porta fidei, 2.
[16] Benedetto XVI, Omelia, 28 giugno 2010; cfr Lett. ap. M.P. Ubicumque et semper, 17 ottobre 2010.
[17] Il cambiamento di epoca fu pure avvertito in Francia dal Card. Suhard (si pensi alla sua lettera pastorale Essor ou déclin de l’Église, 1947) e pure dall’allora Arcivescovo di Milano G.B. Montini. Anch’egli si chiedeva se l’Italia fosse ancora un Paese cattolico (cfr Prolusione alla VIII Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, 22 settembre 1958, in Discorsi e Scritti milanesi 1954-1963, vol. II, Brescia-Roma 1997, 2328).
[18] San Paolo VI, circa cinquant’anni fa, presentando ai fedeli il nuovo Messale Romano, richiamò l’equazione fra la legge della preghiera (lex orandi) e la legge della fede (lex credendi) e descrisse il Messale come “dimostrazione di fedeltà e vitalità”. Concludendo la sua riflessione affermò: «Non diciamo dunque “nuova Messa”, ma piuttosto “nuova epoca” della vita della Chiesa» (Udienza generale del 19 novembre 1969). È quanto, analogamente, si potrebbe dire anche nel nostro caso: non una nuova Curia romana, ma piuttosto una nuova epoca.
[19] Evangelii gaudium enuncia la regola di «privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).
[20] Intervista a Georg Sporschill, S.J. e Federica Radice Fossati Confalonieri: “Corriere della Sera”, 1 settembre 2012.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono contento di ritrovarmi con voi in questo nostro appuntamento natalizio. Vi ringrazio di essere venuti, anche con i vostri familiari. Grazie!
Il mio augurio questa volta lo riassumo in una parola: sorriso.
Lo spunto me lo ha dato uno degli ultimi Paesi che ho visitato, il mese scorso: la Tailandia. È chiamato il Paese del sorriso, perché lì la gente è molto sorridente, hanno una speciale gentilezza, molto nobile, che si riassume in questo tratto del viso, che si riflette in tutto il loro portamento. Questa esperienza mi è rimasta impressa, e mi fa pensare al sorriso come espressione di amore, espressione di affetto, tipicamente umana.
Quando guardiamo un neonato, siamo portati a sorridergli, e se sul suo piccolo viso sboccia un sorriso, allora proviamo un’emozione semplice, ingenua. Tante volte li carezziamo anche con il dito, così, perché sorridano. Il bambino risponde al nostro sguardo, ma il suo sorriso è molto più “potente”, perché è nuovo, è puro, come acqua di sorgente, e in noi adulti risveglia un’intima nostalgia d’infanzia.
Questo è avvenuto in modo unico tra Maria e Giuseppe e Gesù. La Vergine e il suo sposo, con il loro amore, hanno fatto sbocciare il sorriso sulle labbra del loro bambino appena nato. Ma quando ciò è accaduto, i loro cuori sono stati riempiti di una gioia nuova, venuta dal Cielo. E la piccola stalla di Betlemme si è come illuminata.
Gesù è il sorriso di Dio. È venuto a rivelarci l’amore del Padre, la sua bontà, e il primo modo in cui l’ha fatto è stato sorridere ai suoi genitori, come ogni neonato di questo mondo. E loro, la Vergine Maria e San Giuseppe, per la loro grande fede hanno saputo accogliere quel messaggio, hanno riconosciuto nel sorriso di Gesù la misericordia di Dio per loro e per tutti quelli che aspettavano la sua venuta, la venuta del Messia, il Figlio di Dio, il Re d’Israele.
Ecco, carissimi, nel presepe anche noi riviviamo questa esperienza: guardare il Bambino Gesù e sentire che lì Dio ci sorride, e sorride a tutti i poveri della terra, a tutti quelli che aspettano la salvezza, che sperano in un mondo più fraterno, dove non ci siano più guerre e violenze, dove ogni uomo e donna possa vivere nella sua dignità di figlio e figlia di Dio.
Anche qui, in Vaticano e nei vari uffici romani della Santa Sede, abbiamo sempre bisogno di lasciarci rinnovare dal sorriso di Gesù. Lasciare che la sua bontà disarmata ci purifichi dalle scorie che spesso incrostano i nostri cuori, e ci impediscono di dare il meglio di noi stessi. È vero, il lavoro è lavoro, e ci sono altri luoghi e momenti in cui ognuno si esprime in maniera più piena e più ricca; però è anche vero che nell’ambiente di lavoro passiamo buona parte delle nostre giornate, e siamo convinti che la qualità del lavoro si accompagna con la qualità umana delle relazioni, dello stile di vita. Questo vale specialmente per noi, che lavoriamo al servizio della Chiesa e nel nome di Cristo.
A volte diventa difficile sorridere, per tanti motivi. Allora abbiamo bisogno del sorriso di Dio: Gesù, solo Lui ci può aiutare. Solo Lui è il Salvatore, e a volte ne facciamo esperienza concreta nella nostra vita.
Altre volte le cose vanno bene, ma allora c’è il pericolo di sentirsi troppo sicuri e di dimenticare gli altri che fanno fatica. Anche allora abbiamo bisogno del sorriso di Dio, che ci spogli delle false sicurezze e ci riporti al gusto della semplicità e della gratuità.
Allora, carissimi, scambiamoci questo augurio: a Natale, partecipando alla Liturgia, e anche contemplando il presepe, lasciamoci stupire dal sorriso di Dio, che Gesù è venuto a portare. È Lui stesso, questo sorriso. Come Maria, come Giuseppe e i pastori di Betlemme, accogliamolo, lasciamoci purificare, e potremo anche noi portare agli altri un umile e semplice sorriso.
Grazie a tutti! Portate questo augurio ai vostri cari a casa, specialmente ai malati e ai più anziani: che sentano la carezza del vostro sorriso. È una carezza. Sorridere è accarezzare, accarezzare con il cuore, accarezzare con l’anima. E rimaniamo uniti nella preghiera. Buon Natale!