Discorsi e Messaggi

DISCORSI

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A MEDICI, INFERMIERI E OPERATORI SANITARI DALLA LOMBARDIA
Sala Clementina
Sabato, 20 giugno 2020

 

(…)

 

Cari fratelli e sorelle,

 

rinnovo a ciascuno di voi e a quanti rappresentate il mio vivo apprezzamento per quanto avete fatto in questa situazione faticosa e complessa. La Vergine Maria, venerata nelle vostre terre in numerosi santuari e chiese, vi accompagni e vi sostenga sempre con la sua materna protezione. E non dimenticate che con il vostro lavoro, di tutti voi, medici, paramedici, volontari, sacerdoti, religiosi, laici, che avete fatto questo, avete incominciato un miracolo. Abbiate fede e, come diceva quel sarto, teologo mancato: “Mai ho trovato che Dio abbia incominciato un miracolo senza finirlo bene” [Manzoni, Promessi sposi, cap. 24°]. Che finisca bene questo miracolo che voi avete incominciato! Da parte mia, continuo a pregare per voi e per le vostre comunità, e con affetto vi imparto una speciale Benedizione Apostolica. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me, ne ho bisogno. Grazie.

 

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DEL COLLEGIO CARDINALIZIO E DELLA CURIA ROMANA,
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
Sala della Benedizione
Lunedì, 21 dicembre 2020


Cari fratelli e sorelle,

 

1. Il Natale di Gesù di Nazaret è il mistero di una nascita che ci ricorda che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per rincominciare»,[1] come osserva in maniera tanto folgorante quanto incisiva Hannah Arendt, la filosofa ebrea che rovescia il pensiero del suo maestro Heidegger, secondo cui l’uomo nasce per essere gettato nella morte. Sulle rovine dei totalitarismi del novecento, Arendt riconosce questa verità luminosa: «Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità. […] È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».[2]

 

2. Davanti al Mistero dell’Incarnazione, accanto al Bambino adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16), come pure davanti al Mistero Pasquale, al cospetto dell’uomo crocifisso, troviamo il posto giusto solo se siamo disarmati, umili, essenziali; solo dopo aver realizzato nell’ambiente in cui viviamo – compresa la Curia Romana – il programma di vita suggerito da San Paolo: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,31-32); solo se “rivestiti di umiltà” (cfr 1 Pt 5,5), imitando Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29); solo dopo essersi messi «all’ultimo posto» (Lc 14,10) ed essere diventati “servi di tutti” (cfr Mc 10,44). E a questo proposito, Sant’Ignazio nei suoi Esercizi arriva fino al punto di chiedere di immaginarci nella scena del presepe, «facendomi io – scrive – poverello e indegno servitorello che li guarda, li contempla e li serve nelle loro necessità» (114, 2).

Ringrazio il Cardinale Decano per le sue parole di accoglienza in questo Natale, che ha espresso il sentire di tutti. Grazie, Cardinale Re, grazie.

 

3. Questo Natale è il Natale della pandemia, della crisi sanitaria, della crisi economica sociale e persino ecclesiale che ha colpito ciecamente il mondo intero. La crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale per diventare una realtà condivisa da tutti.

Questo flagello è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità.

Quando il 27 marzo scorso, sul sagrato di San Pietro, davanti alla piazza vuota ma piena di un’appartenenza comune che ci unisce in ogni angolo della terra, quando lì ho voluto pregare per tutti e con tutti, ho avuto modo di dire ad alta voce il possibile significato della “tempesta” (cfr Mc 4,35-41) che si era abbattuta sul mondo: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità, lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».

 

4. La Provvidenza ha voluto che proprio in questo tempo difficile potessi scrivere Fratelli tutti, l’Enciclica dedicata al tema della fraternità e dell’amicizia sociale. E una lezione che ci viene dai Vangeli dell’infanzia, dove è narrata la nascita di Gesù, è quella di una nuova complicità – una nuova complicità! – e unione che si crea tra coloro che ne sono i protagonisti: Maria, Giuseppe, i pastori, i magi e tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno offerto la loro fraternità, la loro amicizia affinché potesse essere accolto nel buio della storia il Verbo che si è fatto carne (cfr Gv 1,14).

Così scrivevo all’inizio di questa Enciclica: «Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra tutti: “Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme”.[3] Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (n. 8).

 

5. La crisi della pandemia è un’occasione propizia per una breve riflessione sul significato della crisi, che può aiutare ciascuno.

La crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare. Come ricorda la radice etimologica del verbo krino: la crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura.

Anche la Bibbia è popolata di persone che sono state “passate al vaglio”, di “personaggi in crisi” che però proprio attraverso di essa compiono la storia della salvezza.

La crisi di Abramo, che lascia la sua terra (cfr Gen 12,1-2) e che deve vivere la grande prova di dover sacrificare a Dio il suo unico figlio (cfr Gen 22,1-19), si risolve da un punto di vista teologale con la nascita di un nuovo popolo. Ma questa nascita non risparmia Abramo dal vivere un dramma dove la confusione e lo spaesamento non hanno avuto la meglio solo per la fortezza della sua fede.

La crisi di Mosè si manifesta nella sfiducia in sé stesso: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?» (Es 3,11); «io non sono un buon parlatore, […] ma sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10); «ho le labbra incirconcise» (Es 6,12.30). Per questo, egli tenta di sottrarsi dalla missione affidatagli da Dio: “Signore, manda altri” (cfr Es 4,13). Ma, attraverso questa crisi, Dio fece di Mosè il suo servo, che guidò il popolo fuori dall’Egitto.

Elia, il profeta tanto forte da essere paragonato al fuoco (cfr Sir 48,1), in un momento di grande crisi desiderò persino la morte, ma poi sperimentò la presenza di Dio non nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma in un “un filo di silenzio sonoro” (cfr 1 Re 19,11-12). La voce di Dio non è mai quella rumorosa della crisi, ma è la voce silenziosa che ci parla dentro la crisi stessa.

Giovanni Battista è attanagliato dal dubbio sull’identità messianica di Gesù (cfr Mt 11,2-6), perché non si presenta come il giustiziere che egli forse attendeva (cfr Mt 3,11-12); ma proprio l’incarcerazione di Giovanni è l’avvenimento in seguito al quale Gesù inizia a predicare il Vangelo di Dio (cfr Mc 1,14).

E infine la crisi teologica di Paolo di Tarso: scosso dal folgorante incontro con Cristo sulla via di Damasco (cfr At 9,1-19; Gal 1,15-16), viene spinto a lasciare le sue sicurezze per seguire Gesù (cfr Fil 3,4-10). San Paolo è stato davvero un uomo che si è lasciato trasformare dalla crisi, e per questo è stato artefice di quella crisi che ha spinto la Chiesa a uscire fuori dal recinto d’Israele per arrivare fino agli estremi confini della terra.

Potremmo prolungare l’elenco di personaggi biblici, e in esso ognuno di noi potrebbe trovare il proprio posto. Sono tanti.

Ma la crisi più eloquente è quella di Gesù. I Vangeli sinottici sottolineano che Egli inaugura la sua vita pubblica attraverso l’esperienza della crisi vissuta nelle tentazioni. Per quanto possa sembrare che il protagonista di questa situazione sia il diavolo con le sue false proposte, in realtà il vero protagonista è lo Spirito Santo; è Lui, infatti, che conduce Gesù in questo tempo decisivo per la sua vita: «Fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).

Gli Evangelisti sottolineano che i quaranta giorni vissuti da Gesù nel deserto sono segnati dall’esperienza della fame e della debolezza (cfr Mt 4,2; Lc 4,2). Ed è proprio al fondo di questa fame e di questa debolezza che il Maligno cerca di giocare la sua carta vincente, facendo leva sull’umanità stanca di Gesù. Ma in quell’uomo provato dal digiuno il Tentatore sperimenta la presenza del Figlio di Dio che sa vincere la tentazione mediante la Parola di Dio, non mediante la propria. Gesù mai dialoga con il diavolo, mai, e noi dobbiamo imparare da questo. Con il diavolo mai si dialoga: Gesù o lo caccia via, o lo obbliga a manifestare il suo nome; ma con il diavolo, mai si dialoga.

Successivamente Gesù affrontò una indescrivibile crisi nel Getsemani: solitudine, paura, angoscia, il tradimento di Giuda e l’abbandono degli Apostoli (cfr Mt 26,36-50). Infine, venne la crisi estrema sulla croce: la solidarietà con i peccatori fino a sentirsi abbandonato dal Padre (cfr Mt 27,46). Nonostante ciò, Egli con piena fiducia “consegnò il suo spirito nelle mani del Padre” (cfr Lc 23,46). E questo suo pieno e fiducioso abbandono aprì la via della Risurrezione (cfr Eb 5,7).

 

6. Fratelli e sorelle, questa riflessione sulla crisi ci mette in guardia dal giudicare frettolosamente la Chiesa in base alle crisi causate dagli scandali di ieri e di oggi, come fece il profeta Elia che, sfogandosi con il Signore, gli presentò una narrazione della realtà priva di speranza: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1 Re 19,14). E quante volte anche le nostre analisi ecclesiali sembrano racconti senza speranza. Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire. Dio risponde ad Elia che la realtà non è così come l’ha percepita lui: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; […] Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l’hanno baciato» (1 Re 19,15.18). Non è vero che lui sia solo: è in crisi.

Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi. Qui nella Curia sono molti coloro che danno testimonianza con il lavoro umile, discreto, senza pettegolezzi, silenzioso, leale, professionale, onesto. Sono tanti tra voi, grazie. Anche il nostro tempo ha i suoi problemi, ma ha anche la testimonianza viva del fatto che il Signore non ha abbandonato il suo popolo, con l’unica differenza che i problemi vanno a finire subito sui giornali – questo è di tutti i giorni – invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo molto tempo, e non sempre.

Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi.[4] E’ il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio. «Perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,5).

 

7. Infine, io vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti.

La logica del conflitto cerca sempre i “colpevoli” da stigmatizzare e disprezzare e i “giusti” da giustificare per introdurre la consapevolezza – molte volte magica – che questa o quella situazione non ci appartiene. Questa perdita del senso di una comune appartenenza favorisce la crescita o l’affermarsi di certi atteggiamenti di carattere elitario e di “gruppi chiusi” che promuovono logiche limitative e parziali, che impoveriscono l’universalità della nostra missione. «Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 226).

La Chiesa, letta con le categorie di conflitto – destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti – frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un Corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo, ma non deve mai diventare un corpo in conflitto, con vincitori e vinti. Infatti, in questo modo diffonderà timore, diventerà più rigida, meno sinodale, e imporrà una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa.

La novità introdotta dalla crisi voluta dallo Spirito non è mai una novità in contrapposizione al vecchio, bensì una novità che germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo. Gesù usa un’espressione che esprime in maniera semplice e chiara questo passaggio: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). L’atto di morire del seme è un atto ambivalente, perché nello stesso tempo segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Chiamiamo lo stesso momento morte-marcire e nascita-germogliare perché sono la medesima cosa: davanti ai nostri occhi vediamo una fine e allo stesso tempo in quella fine si manifesta un nuovo inizio.

In questo senso, tutte le resistenze che facciamo all’entrare in crisi lasciandoci condurre dallo Spirito nel tempo della prova ci condannano a rimanere soli e sterili, al massimo in conflitto. Difendendoci dalla crisi, noi ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa. I Padri della Chiesa erano consapevoli di questo, che chiamavano “la metanoia”.

 

8. Sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento: è un passo avanti. Ma se vogliamo davvero un aggiornamento, dobbiamo avere il coraggio di una disponibilità a tutto tondo; si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una nuova Costituzione Apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa.

Non si tratta di “rattoppare un abito”, perché la Chiesa non è un semplice “vestito” di Cristo, bensì è il suo corpo che abbraccia tutta la storia (cfr 1 Cor 12,27). Noi non siamo chiamati a cambiare o riformare il Corpo di Cristo – «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre!» (Eb 13,8) – ma siamo chiamati a rivestire con un vestito nuovo quel medesimo Corpo, affinché appaia chiaramente che la Grazia posseduta non viene da noi ma da Dio: infatti, «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2 Cor 4,7). La Chiesa è sempre un vaso di creta, prezioso per ciò che contiene e non per ciò che a volte mostra di sé. Alla fine, avrò il piacere di donarvi un libro, dono di Padre Ardura, dove si mostra la vita di un vaso di creta, che ha fatto risplendere la grandezza di Dio e le riforme della Chiesa. Questo è un tempo in cui sembra evidente che la creta di cui siamo impastati è scheggiata, incrinata, spaccata. Dobbiamo sforzarci affinché la nostra fragilità non diventi ostacolo all’annuncio del Vangelo, ma luogo in cui si manifesta il grande amore con il quale Dio, ricco di misericordia, ci ha amati e ci ama (cfr Ef 2,4). Se noi tagliassimo Dio, ricco di misericordia, dalla nostra vita, la nostra vita sarebbe una bugia, una menzogna.

Durante il periodo della crisi, Gesù ci mette in guardia da alcuni tentativi per uscirne fuori che sono destinati fin dall’inizio ad essere fallimentari, come colui che «strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio»; il risultato è prevedibile: si strapperà il nuovo, perché «al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo». Analogamente «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 5,36-38).

Il comportamento giusto invece è quello dello «scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli», il quale «è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Il tesoro è la Tradizione che, come ricordava Benedetto XVI, «è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità» (Catechesi, 26 aprile 2006). Mi viene in mente la frase di quel grande musicista tedesco: “La tradizione è la salvaguardia del futuro e non un museo, custode delle ceneri”. Le “cose antiche” sono costituite dalla verità e dalla grazia che già possediamo. Le cose nuove sono i vari aspetti della verità che via via comprendiamo. Quella frase del secolo V: “Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”: questa è la tradizione, così cresce. Nessuna modalità storica di vivere il Vangelo esaurisce la sua comprensione. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito Santo, ogni giorno ci avvicineremo sempre di più a «tutta la verità» (Gv 16,13). Al contrario, senza la grazia dello Spirito Santo, si può persino cominciare a pensare la Chiesa in una forma sinodale che però, invece di rifarsi alla comunione con la presenza dello Spirito, arriva a concepirsi come una qualunque assemblea democratica fatta di maggioranze e minoranze. Come un parlamento, per esempio: e questa non è la sinodalità. Solo la presenza dello Spirito Santo fa la differenza.

 

9. Che cosa fare durante la crisi? Innanzitutto, accettarla come un tempo di grazia donatoci per capire la volontà di Dio su ciascuno di noi e per la Chiesa tutta. Occorre entrare nella logica apparentemente contraddittoria che «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Si deve ricordare l’assicurazione data da San Paolo ai Corinzi: «Dio è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).

Fondamentale è non interrompere il dialogo con Dio, anche se è faticoso. Pregare non è facile. Non dobbiamo stancarci di pregare sempre (cfr Lc 21,36; 1 Ts 5,17). Non conosciamo alcun’altra soluzione ai problemi che stiamo vivendo, se non quella di pregare di più e, nello stesso tempo, fare tutto quanto ci è possibile con più fiducia. La preghiera ci permetterà di “sperare contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18).

 

10. Cari fratelli e sorelle, conserviamo una grande pace e serenità, nella piena consapevolezza che tutti noi, io per primo, siamo solo «servi inutili» (Lc 17,10), ai quali il Signore ha usato misericordia. Per questo, sarebbe bello se smettessimo di vivere in conflitto e tornassimo invece a sentirci in cammino, aperti alla crisi. Il cammino ha sempre a che fare con i verbi di movimento. La crisi è movimento, fa parte del cammino. Il conflitto, invece, è un finto cammino, è un girovagare senza scopo e finalità, è rimanere nel labirinto, è solo spreco di energie e occasione di male. E il primo male a cui ci porta il conflitto, e da cui dobbiamo cercare di stare lontani, è proprio il chiacchiericcio: stiamo attenti a questo! Non è una mania che io ho, parlare contro il chiacchiericcio; è la denuncia di un male che entra nella Curia; qui a Palazzo ci sono tante porte e finestre ed entra, e noi ci abituiamo a questo; il pettegolezzo, che ci chiude nella più triste, sgradevole e asfissiante autoreferenzialità, e trasforma ogni crisi in conflitto. Il Vangelo racconta che i pastori credettero all’annuncio dell’Angelo e si misero in cammino verso Gesù (cfr Lc 2,15-16). Erode invece si chiuse davanti al racconto dei Magi e trasformò questa sua chiusura in menzogna e violenza (cfr Mt 2,1-16).

Ognuno di noi, qualunque posto occupi nella Chiesa, si domandi se vuole seguire Gesù con la docilità dei pastori o con l’auto-protezione di Erode, seguirlo nella crisi o difendersi da Lui nel conflitto.

Permettetemi di chiedere espressamente a tutti voi che siete insieme con me a servizio del Vangelo il regalo di Natale: la vostra collaborazione generosa e appassionata nell’annuncio della Buona Novella soprattutto ai poveri (cfr Mt 11,5). Ricordiamo che conosce veramente Dio solo chi accoglie il povero che viene dal basso con la sua miseria, e che proprio in questa veste viene inviato dall’alto; non possiamo vedere il volto di Dio, possiamo però sperimentarlo nel suo volgersi verso di noi quando onoriamo il volto del prossimo, dell’altro che ci impegna con i suoi bisogni.[5] Il volto dei poveri. I poveri sono il centro del Vangelo. E mi viene in mente quello che diceva quel santo vescovo brasiliano: “Quando io mi occupo dei poveri, dicono di me che sono un santo; ma quando mi domando e domando: ‘Perché tanta povertà?’, mi dicono ‘comunista’”.

Non vi sia nessuno che ostacoli volontariamente l’opera che il Signore sta compiendo in questo momento, e chiediamo il dono dell’umiltà del servizio affinché Lui cresca e noi diminuiamo (cfr Gv 3,30).

Auguri a tutti, a ciascuno di voi, alle vostre famiglie e ai vostri amici. E grazie, grazie per il vostro lavoro, grazie tante; e per favore, pregate sempre per me perché io abbia il coraggio di rimanere in crisi. Buon Natale! Grazie.

 

[Benedizione]

 

Mi sono dimenticato di dirvi che vi darò in dono due libri. Uno, la vita di Charles de Foucauld, un Maestro della crisi, che ci ha lasciato un dono, un’eredità bellissima. Questo è un dono fatto a me da padre Ardura: grazie. L’altro si chiama “Olotropia: i verbi della familiarità cristiana”. Sono per aiutare a vivere la nostra vita. È un libro che è uscito in questi giorni, fatto da un biblista, discepolo del Cardinale Martini; ha lavorato a Milano ma è della diocesi di Albenga - Imperia.

 

 


[1] Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994, 182.

[2] Ibid..

[3] Discorso nell’Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 9 maggio 2019, p. 9.

[4] «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: “Questo vi scandalizza?”» (Gv 6,60-61). Ma è solo a partire da questa crisi che può nascere una professione di fede: «“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”» (Gv 6,68).

[5] Cfr E. Lévinas, Totalité et infini, Paris 2000, 76; ed. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano 1977, 76.

 

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MESSAGGI

 

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DELLA GIORNATA INTERNAZIONALE DELL'INFERMIERE
12 Maggio 2020


Cari fratelli e sorelle!

 

Celebriamo oggi la Giornata Internazionale dell’Infermiere, nel contesto dell’Anno Internazionale dell’Infermiere e dell’Ostetrica indetto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In questo stesso giorno ricordiamo anche il bicentenario della nascita di Florence Nightingale, colei che diede inizio all’infermieristica moderna.

 

In questo momento storico, segnato dall’emergenza sanitaria mondiale provocata dalla pandemia del virus Covid-19, abbiamo riscoperto quanto la figura dell’infermiere, ma anche quella dell’ostetrica, ricoprano un ruolo di fondamentale importanza. Quotidianamente assistiamo alla testimonianza di coraggio e di sacrificio degli operatori sanitari, in particolare delle infermiere e degli infermieri, che con professionalità, abnegazione, senso di responsabilità e amore per il prossimo assistono le persone affette dal virus, anche a rischio della propria salute. Ne è prova il fatto che, purtroppo, è elevato il numero degli operatori sanitari che sono morti nel fedele compimento del loro servizio. Prego per loro – il Signore li conosce ciascuno per nome – e per tutte le vittime di questa epidemia. Il Risorto dia ad ognuno la luce del paradiso e alle loro famiglie il conforto della fede.

 

Da sempre gli infermieri svolgono un ruolo centrale nell’assistenza sanitaria. Ogni giorno, a contatto con gli ammalati, sperimentano il trauma che la sofferenza provoca nella vita di una persona. Sono uomini e donne che hanno scelto di rispondere “sì” a una vocazione particolare: quella di essere buoni samaritani che si fanno carico della vita e delle ferite del prossimo. Custodi e servitori della vita, mentre somministrano le terapie necessarie, infondono coraggio, speranza e fiducia.[1]

 

Care infermiere e cari infermieri, la responsabilità morale guida la vostra professionalità, che non si riduce alle conoscenze scientifico-tecniche, ma è costantemente illuminata dalla relazione umana e umanizzante con il malato. «Prendendovi cura di donne e di uomini, di bambini e anziani, in ogni fase della loro vita, dalla nascita alla morte, siete impegnati in un continuo ascolto, teso a comprendere quali siano le esigenze di quel malato, nella fase che sta attraversando. Davanti alla singolarità di ogni situazione, infatti, non è mai abbastanza seguire un protocollo, ma si richiede un continuo – e faticoso! – sforzo di discernimento e di attenzione alla singola persona».[2]

 

Voi – e penso anche alle ostetriche – siete vicini alle persone nei momenti cruciali della loro esistenza, la nascita e la morte, la malattia e la guarigione, per aiutarle a superare le situazioni più traumatiche. A volte vi trovate accanto a loro mentre stanno morendo, donando conforto e sollievo negli ultimi istanti. Per questa vostra dedizione, voi siete tra i “santi della porta accanto”.[3] Siete immagine della Chiesa “ospedale da campo”, la quale continua a svolgere la missione di Gesù Cristo, che avvicinò e guarì persone sofferenti per ogni genere di male e si chinò a lavare i piedi dei suoi discepoli. Grazie per questo vostro servizio all’umanità!

 

In tanti Paesi, la pandemia ha messo in luce anche molte carenze a livello di assistenza sanitaria. Per questo, mi rivolgo ai Responsabili delle Nazioni di tutto il mondo, affinché investano nella salute come bene comune primario, potenziando le strutture e impiegando più infermieri, così da garantire a tutti un adeguato servizio di cura, nel rispetto della dignità di ogni persona. È importante riconoscere fattivamente il ruolo essenziale che questa professione ricopre per la cura dei pazienti, l’attività di emergenza territoriale, la prevenzione delle malattie, la promozione della salute, l’assistenza in ambito familiare, comunitario, scolastico.

 

Gli infermieri e le infermiere, come pure le ostetriche, hanno diritto e meritano di essere meglio valorizzati e coinvolti nei processi che riguardano la salute delle persone e della comunità. È dimostrato che investire su di essi migliora i risultati in termini di assistenza e di salute complessiva. Occorre, pertanto, far crescere il loro profilo professionale, fornendo idonei strumenti a livello scientifico, umano, psicologico e spirituale per la loro formazione; come pure migliorare le loro condizioni di lavoro e garantirne i diritti affinché possano svolgere in piena dignità il loro servizio.

 

In questo senso, le Associazioni degli operatori sanitari hanno un ruolo importante, in quanto, oltre ad offrire un’organica formazione, accompagnano i singoli aderenti facendoli sentire parte di un corpo unico e mai smarriti e soli di fronte alle sfide etiche, economiche e umane che la professione comporta.

 

Alle ostetriche, in particolare, che assistono le donne in gravidanza e le aiutano a dare alla luce i loro bambini, dico: il vostro lavoro è tra i più nobili che esistano, dedicato com’è direttamente al servizio della vita e della maternità. Nella Bibbia, i nomi di due eroiche levatrici, Sifra e Pua, sono immortalati all’inizio del Libro dell’Esodo (cfr 1,15-21). Anche oggi il Padre celeste vi guarda con gratitudine.

 

Cari infermieri, care infermiere e ostetriche, possa questa ricorrenza porre al centro la dignità del vostro lavoro, a beneficio della salute dell’intera società. A voi, alle vostre famiglie e a quanti curate assicuro la mia preghiera e imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

 

Roma, San Giovanni in Laterano, 12 maggio 2020

 

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLE PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE
21 maggio 2020

 

Cari fratelli e sorelle!

 

Quest’anno avevo deciso di partecipare alla vostra Assemblea generale annuale, giovedì 21 maggio, festa dell’Ascensione del Signore. Poi l’Assemblea è stata annullata a causa della pandemia che ci coinvolge tutti. E allora vorrei inviare a tutti voi questo messaggio, per farvi giungere comunque le cose che avevo in cuore di dirvi. Questa festa cristiana, nei tempi inimmaginabili che stiamo vivendo, mi appare ancora più feconda di suggestioni per il cammino e la missione di ognuno di noi e di tutta la Chiesa.

 

(…)

 

Ho richiamato molti di questi tratti distintivi della missione nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Ne riprendo alcuni.

 

Attrattiva. Il mistero della Redenzione è entrato e continua a operare nel mondo attraverso un’attrattiva, che può avvincere il cuore degli uomini e delle donne perché è e appare più attraente delle seduzioni che fanno presa sull’egoismo, conseguenza del peccato. «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato», dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (6,44). La Chiesa ha sempre ripetuto che per questo si segue Gesù e si annuncia il suo Vangelo: per la forza dell’attrazione operata da Cristo stesso e dal suo Spirito. La Chiesa – ha affermato Papa Benedetto XVI – cresce nel mondo per attrazione e non per proselitismo (cfr Omelia nella Messa di apertura della V Conferenza Gen. dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007: AAS 99 [2007], 437). Sant’Agostino diceva che Cristo si rivela a noi attirandoci. E, per dare un’immagine di questa attrattiva, citava il poeta Virgilio, secondo il quale ciascuno è attratto da ciò che gli piace. Gesù non solo convince la nostra volontà, ma attira il nostro piacere (Commento al Vangelo di Giovanni, 26, 4). Se si segue Gesù felici di essere attratti da lui, gli altri se ne accorgono. E possono stupirsene. La gioia che traspare in coloro che sono attirati da Cristo e dal suo Spirito è ciò che può rendere feconda ogni iniziativa missionaria.

 

Gratitudine e gratuità. La gioia di annunciare il Vangelo brilla sempre sullo sfondo di una memoria grata. Gli Apostoli non hanno mai dimenticato il momento in cui Gesù toccò loro il cuore: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39).La vicenda della Chiesa risplende quando in essa si manifesta la gratitudine per la gratuita iniziativa di Dio, perché «è lui che ha amato noi» per primo (1 Gv 4,10), perchè «è Dio solo che fa crescere» (1 Cor 3,7). La predilezione amorosa del Signore ci sorprende, e lo stupore, per sua natura, non può essere posseduto né imposto da noi. Non ci si può “stupire per forza”. Solo così può fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito di sé. Anche il fervore missionario non si può mai ottenere in conseguenza di un ragionamento o di un calcolo. Il mettersi “in stato di missione” è un riflesso della gratitudine. È la risposta di chi dalla gratitudine viene reso docile allo Spirito, e quindi è libero. Senza percepire la predilezione del Signore, che rende grati, perfino la conoscenza della verità e la stessa conoscenza di Dio, ostentati come un possesso da raggiungere con le proprie forze, diventerebbero di fatto “lettera che uccide” (cfr 2 Cor 3,6), come hanno mostrato per primi San Paolo e Sant’Agostino. Solo nella libertà della gratitudine si conosce veramente il Signore.Mentre non serve a niente e soprattutto non è appropriato insistere nel presentare la missione e l’annuncio del Vangelo come se fossero un dovere vincolante, una specie di “obbligo contrattuale” dei battezzati.

 

Umiltà. Se la verità e la fede, se la felicità e la salvezza non sono un nostro possesso, un traguardo raggiunto per meriti nostri, il Vangelo di Cristo può essere annunciato solo con umiltà. Mai si può pensare di servire la missione della Chiesa esercitando arroganza come singoli e attraverso gli apparati, con la superbia di chi snatura anche il dono dei sacramenti e le parole più autentiche della fede cristiana come un bottino che ci si è meritato. Si può essere umili non per buona educazione, non per voler apparire accattivanti. Si è umili se si segue Cristo, che ai suoi ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Sant’Agostino si chiede come mai, dopo la Risurrezione, Gesù si è fatto vedere solo dai suoi discepoli e non invece da chi lo aveva crocifisso; e risponde che Gesù non voleva dare l’impressione di «sfidare in qualche modo i suoi uccisori. Per lui era infatti più importante insegnare l’umiltà agli amici, piuttosto che rinfacciare la verità ai nemici» (Discorso 284, 6).

 

Facilitare, non complicare. Un altro tratto dell’autentica opera missionaria è quello che rimanda alla pazienza di Gesù, che anche nei racconti del Vangelo accompagnava sempre con misericordia i passi di crescita delle persone. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può far contento il cuore di Dio più delle ampie falcate di chi procede nella vita senza grandi difficoltà. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa «debole con i deboli» (1 Cor 9,22). “Uscire” in missione per giungere alle periferie umane non vuol dire errare senza una direzione e senza senso, come venditori impazienti che si lamentano perché la gente è troppo rozza e primitiva per essere interessata alla loro merce. A volte si tratta di rallentare il passo, per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte c’è da imitare il padre della parabola del figlio prodigo, che lascia le porte aperte e scruta ogni giorno l’orizzonte aspettando il ritorno di suo figlio (cfr Lc 15,20). La Chiesa non è una dogana, e chi in qualsiasi modo partecipa alla missione della Chiesa è chiamato a non aggiungere pesi inutili sulle vite già affaticate delle persone, a non imporre cammini di formazione sofisticati e affannosi per godere di ciò che il Signore dona con facilità. Non mettere ostacoli al desiderio di Gesù, che prega per ognuno di noi e vuole guarire tutti, salvare tutti.

 

Prossimità nella vita “in atto”. Gesù ha incontrato i suoi primi discepoli sulle rive del lago di Galilea, mentre erano intenti al loro lavoro. Non li ha incontrati a un convegno, o a un seminario di formazione, o al tempio. Da sempre, l’annuncio di salvezza di Gesù raggiunge le persone lì dove sono e così come sono, nelle loro vite in atto. L’ordinarietà della vita di tutti, nella partecipazione alle necessità, alle speranze e ai problemi di tutti, è il luogo e la condizione in cui chi ha riconosciuto l’amore di Cristo e ricevuto il dono dello Spirito Santo può rendere ragione, a coloro che lo chiedono, della fede, della speranza e della carità. Camminando insieme con gli altri, al fianco di tutti. Soprattutto nel tempo in cui viviamo, non si tratta di inventare percorsi di addestramento “dedicati”, di creare mondi paralleli, di costruire bolle mediatiche in cui far riecheggiare i propri slogan, le proprie dichiarazioni d’intenti, ridotte a rassicuranti “nominalismi dichiarazionisti”. Ho ricordato altre volte, a titolo di esempio, che nella Chiesa c’è chi continua a far riecheggiare con enfasi lo slogan «È l’ora dei laici!», ma intanto l’orologio sembra essersi fermato.

 

Il “sensus fidei” del Popolo di Dio. C’è una realtà nel mondo che ha una specie di “fiuto” per lo Spirito Santo e la sua azione. È il Popolo di Dio, chiamato e prediletto da Gesù, e che a sua volta continua a cercare Lui e domanda sempre di Lui negli affanni della vita. Il Popolo di Dio mendica il dono del suo Spirito: affida la sua attesa alle parole semplici delle preghiere, e mai si accomoda nella presunzione della propria autosufficienza. Il santo Popolo di Dio radunato e unto dal Signore, in virtù di questa unzione è reso infallibile “in credendo”, come insegna la Tradizione della Chiesa. Il lavoro dello Spirito Santo dota il Popolo dei fedeli di un “istinto” della fede – il sensus fidei– che lo aiuta a non sbagliare quando crede le cose di Dio, anche se non conosce ragionamenti e formule teologiche per definire i doni che sperimenta. Il mistero del popolo pellegrino, che con la sua spiritualità popolare cammina verso i santuari e si affida a Gesù, a Maria e ai santi, attinge e si mostra connaturale alla libera e gratuita iniziativa di Dio, senza dover seguire piani di mobilitazione pastorale.

 

Predilezione per i piccoli e i poveri. Ogni slancio missionario, se è mosso dallo Spirito Santo, manifesta la predilezione per i poveri e i piccoli come segno e riflesso della preferenza del Signore verso di loro. Le persone coinvolte direttamente in iniziative e strutture missionarie della Chiesa non dovrebbero mai giustificare la loro disattenzione verso i poveri con la scusa – molto usata in certi ambienti ecclesiastici – di dover concentrare le proprie energie su incombenze prioritarie per la missione. La predilezione per i poveri non è per la Chiesa un’opzione facoltativa.

 

Le dinamiche e gli approcci sopra descritti fanno parte della missione della Chiesa, animata dallo Spirito Santo. Di solito, negli enunciati e nei discorsi ecclesiastici, la necessità dello Spirito Santo come sorgente della missione della Chiesa viene riconosciuta e affermata. Ma accade anche che tale riconoscimento si riduca a una specie di “omaggio formale” alla Santissima Trinità, una formula convenzionale introduttiva per interventi teologici e piani pastorali. Ci sono nella Chiesa tante situazioni in cui il primato della grazia rimane solo come un postulato teorico, una formula astratta. Succede che tante iniziative e organismi legati alla Chiesa, invece di lasciar trasparire l’operare dello Spirito Santo, finiscono per attestare solo la propria autoreferenzialità. Tanti apparati ecclesiastici, ad ogni livello, sembrano risucchiati dall’ossessione di promuovere sé stessi e le proprie iniziative. Come se fosse quello l’obiettivo e l’orizzonte della loro missione.

 

Fin qui ho voluto riprendere e riproporre criteri e spunti sulla missione della Chiesa, che avevo già esposto in maniera più distesa nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. L’ho fatto perché credo che anche per le POM sia utile e fecondo – e non rinviabile – confrontarsi con quei criteri e suggerimenti, in questo tratto del loro cammino.

 

(…)

 

Tutte le caratteristiche fin qui descritte possono aiutare le Pontificie Opere Missionarie a sottrarsi alle insidie e patologie incombenti sul loro cammino e su quello di tante altre istituzioni ecclesiali. Ne segnalo alcune.

 

Insidie da evitare

 

Autoreferenzialità. Organizzazioni ed entità ecclesiastiche, al di là delle buone intenzioni dei singoli, finiscono talvolta per ripiegarsi su sé stesse, dedicando energie e attenzioni soprattutto alla propria auto-promozione e alla celebrazione in chiave pubblicitaria delle proprie iniziative. Altre sembrano dominate dall’ossessione di ridefinire continuamente la propria rilevanza e i propri spazi in seno alla Chiesa, con la giustificazione di voler rilanciare al meglio la propria missione. Per queste vie – ha detto una volta l’allora Cardinale Joseph Ratzinger – si alimenta anche l’idea ingannevole che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in strutture intra-ecclesiali, mentre in realtà quasi tutti i battezzati vivono la fede, la speranza e la carità nelle loro vite ordinarie, senza essere mai comparsi in comitati ecclesiastici e senza occuparsi degli ultimi sviluppi di politica ecclesiastica (cfr Una compagnia sempre riformanda, Conferenza al Meeting di Rimini, 1 settembre 1990).

 

Ansia di comando. A volte capita che istituzioni e organismi sorti per aiutare le comunità ecclesiali, servendo i doni suscitati in esse dallo Spirito Santo, col tempo pretendano di esercitare supremazie e funzioni di controllo nei confronti delle comunità che dovrebbero servire. Questo atteggiamento si accompagna quasi sempre con la presunzione di esercitare il ruolo di “depositari” dispensatori di patenti di legittimità nei confronti degli altri. Di fatto, in questi casi ci si comporta come se la Chiesa fosse un prodotto delle nostre analisi, dei nostri programmi, accordi e decisioni.

 

Elitarismo. Tra chi fa parte di organismi e realtà organizzate nella Chiesa, prende piede diverse volte un sentimento elitario, l’idea non detta di appartenere a un’aristocrazia. Una classe superiore di specialisti che cerca di allargare i propri spazi in complicità o in competizione con altre elite ecclesiastiche, e addestra i suoi membri secondo i sistemi e le logiche mondani della militanza o della competenza tecnico-professionale, sempre con l’intento primario di promuovere le proprie prerogative oligarchiche.

 

Isolamento dal popolo. La tentazione elitista in alcune realtà connesse alla Chiesa si accompagna talvolta a un sentimento di superiorità e di insofferenza verso la moltitudine dei battezzati, verso il popolo di Dio che magari frequenta le parrocchie e i santuari, ma non è composto di “attivisti” occupati in organizzazioni cattoliche. In questi casi, anche il popolo di Dio viene guardato come una massa inerte, che ha sempre bisogno di essere rianimata e mobilitata attraverso una “presa di coscienza” da stimolare attraverso ragionamenti, richiami, insegnamenti. Si agisce come se la certezza della fede fosse conseguenza di un discorso persuasivo o di metodi di addestramento.

 

Astrazione. Organismi e realtà legate alla Chiesa, quando diventano autoreferenziali, perdono il contatto con la realtà e si ammalano di astrazione. Si moltiplicano inutili luoghi di elaborazione strategica, per produrre progetti e linee-guida che servono solo come strumenti di autopromozione di chi li inventa. Si prendono i problemi e li si seziona in laboratori intellettuali, dove tutto viene addomesticato, verniciato secondo le chiavi ideologiche di preferenza. Dove tutto, fuori dal contesto reale, può essere cristallizzato in simulacro, anche i riferimenti alla fede o i richiami verbali a Gesù e allo Spirito Santo.

 

Funzionalismo. Le organizzazioni autoreferenziali ed elitarie, anche nella Chiesa, finiscono spesso per puntare tutto sull’imitazione dei modelli di efficienza mondani, come quelli imposti dalla esasperata competizione economica e sociale. La scelta del funzionalismo garantisce l’illusione di “sistemare i problemi” con equilibrio, tenere le cose sotto controllo, accrescere la propria rilevanza, migliorare l’ordinaria amministrazione dell’esistente. Ma come già vi dissi nell’incontro che abbiamo avuto nel 2016, una Chiesa che ha paura di affidarsi alla grazia di Cristo e punta sull’efficientismo degli apparati è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli.

 

Consigli per il cammino

 

Guardando al presente e al futuro, e cercando anche nel percorso delle POM le risorse per superare le insidie del cammino e andare avanti, mi permetto di dare alcuni suggerimenti, per aiutare il vostro discernimento. Dal momento che avete intrapreso anche un percorso di riconsiderazione delle POM, che volete sia ispirato dalle indicazioni del Papa, offro alla vostra attenzione criteri e spunti generali, senza entrare nei dettagli, anche perché i diversi contesti possono richiedere adattamenti e varianti.

(…)

10) Le POM non sono nella Chiesa un’entità a sé stante, sospesa nel vuoto. Tra le loro specificità che conviene sempre coltivare e rinnovare c’è il vincolo speciale che le unisce al Vescovo della Chiesa di Roma, che presiede nella carità. È bello e confortante riconoscere che questo vincolo si manifesta in un lavoro condotto in letizia, senza cercare applausi o accampare pretese. Un’opera che proprio nella sua gratuità si intreccia con il servizio del Papa, servo dei servi di Dio. Vi chiedo che il carattere distintivo della vostra vicinanza al Vescovo di Roma sia proprio questo: la condivisione dell’amore alla Chiesa, riflesso per l’amore verso Cristo, vissuto ed espresso nel silenzio, senza gonfiarsi, senza marcare i “propri territori”. Con un lavoro quotidiano che attinga alla carità e al suo mistero di gratuità. Con un’opera che sostenga innumerevoli persone interiormente grate, ma che magari non sanno nemmeno chi ringraziare, perché delle POM non conoscono neanche il nome. Il mistero della carità, nella Chiesa, si realizza così. Continuiamo ad andare avanti insieme, contenti di avanzare tra le prove grazie ai doni e alle consolazioni del Signore. Mentre, ad ogni passo, riconosciamo in letizia di essere tutti servi inutili, a partire da me.

 

Conclusione

 

Partite con slancio: nel cammino che vi aspetta ci sono tante cose da fare. Se ci sono cambiamenti da sperimentare nelle procedure, è bene che essi puntino ad alleggerire, e non ad aumentare i pesi; che siano volti a guadagnare flessibilità operativa, e non a produrre ulteriori apparati rigidi e sempre minacciati di introversione. Tenendo presente che un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, può complicare la dinamica missionaria. E anche un’articolazione su scala puramente nazionale delle iniziative mette a repentaglio la fisionomia stessa della rete delle POM, nonché lo scambio di doni tra Chiese e comunità locali vissuto come frutto e segno tangibile della carità tra i fratelli, nella comunione con il Vescovo di Roma.

 

In ogni caso, chiedete sempre che ogni considerazione riguardante l’assetto operativo delle POM sia illuminata dall’unica cosa necessaria: un po’ d’amore vero alla Chiesa, come riflesso dell’amore a Cristo. Il vostro è un servizio reso al fervore apostolico, cioè a uno slancio di vita teologale che solo lo Spirito Santo può operare nel Popolo di Dio. Voi pensate a fare bene il vostro lavoro, «come se tutto dipendesse da voi, sapendo che in realtà tutto dipende da Dio» (S. Ignazio di Loyola). Come vi ho già detto in un nostro incontro, abbiate la prontezza di Maria. Quando andò da Elisabetta, Maria non lo fece come un gesto proprio: andò come una serva del Signore Gesù, che portava in grembo. Di sé stessa non disse nulla, soltanto portò il Figlio e lodò Dio. Non era lei la protagonista. Andava come la serva di Colui che è anche l’unico protagonista della missione. Ma non perse tempo, andò di fretta, a fare cose per accudire la sua congiunta. Lei ci insegna questa prontezza, la fretta della fedeltà e dell’adorazione.

 

La Madonna custodisca voi e le Pontificie Opere Missionarie, e vi benedica suo Figlio, il Signore Nostro Gesù Cristo. Lui, prima di salire al Cielo, ci ha promesso di stare sempre con noi. Fino alla fine del tempo.

 

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 21 maggio 2020, Solennità dell’Ascensione del Signore

 

Francesco

 

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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER IL PERSONALE MARITTIMO E LE LORO FAMIGLIE
Mercoledì, 17 giugno 2020

 

Cari fratelli e sorelle,

 

questi sono tempi difficili per il mondo, perché abbiamo a che fare con le sofferenze causate dal coronavirus. Il vostro lavoro da marittimi e pescatori è diventato ancora più importante, per assicurare alla grande famiglia umana cibo e altri generi di prima necessità. Di questo, noi vi siamo riconoscenti. Anche perché siete una categoria molto esposta. Negli ultimi mesi la vostra vita e il vostro lavoro sono notevolmente cambiati e avete affrontato – e ancora affrontate – tanti sacrifici, lunghi periodi di lontananza a bordo delle navi senza poter scendere a terra. La lontananza dai familiari, dagli amici e dal proprio Paese, la paura del contagio, tutti questi elementi sono un peso faticoso da portare, ora più che mai.

 

Vorrei dirvi: sappiate che non siete soli e non siete dimenticati. Il vostro lavoro in mare vi tiene spesso lontani, ma voi siete presenti nelle mie preghiere e nei miei pensieri, così come in quelli dei cappellani e dei volontari della “Stella Maris”. Il Vangelo stesso ce lo fa ricordare, quando ci parla di Gesù con i suoi primi discepoli, che erano tutti pescatori, come voi. Oggi desidero mandarvi un messaggio e una preghiera di speranza, una preghiera di conforto e di consolazione contro ogni avversità e nello stesso tempo incoraggio tutti quelli che lavorano con voi nella pastorale della gente di mare.

 

Il Signore benedica ognuno di voi, benedica il vostro lavoro e le vostre famiglie; e la Vergine Maria, Stella del Mare, vi protegga sempre. Anch’io vi benedico e prego per voi. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

 

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DELLA CATHOLIC PRESS ASSOCIATION
IN OCCASIONE DELLA 2020 VIRTUAL CATHOLIC MEDIA CONFERENCE
30 Giugno 2020

 

(…)

 

Cari amici, invoco su di voi e sul lavoro della vostra Conferenza i doni di saggezza, comprensione e buon consiglio dello Spirito Santo. Solo lo sguardo dello Spirito ci permette di non chiudere gli occhi davanti a coloro che soffrono e di cercare il vero bene per tutti. Solo con quello sguardo possiamo lavorare efficacemente per superare le malattie del razzismo, dell'ingiustizia e dell'indifferenza che deturpano il volto della nostra famiglia comune. Attraverso la vostra dedizione e il vostro lavoro quotidiano, potete aiutare gli altri a contemplare situazioni e persone con gli occhi dello Spirito. Laddove il nostro mondo parla troppo spesso con aggettivi e avverbi, possano i comunicatori cristiani parlare con nomi che riconoscano e promuovano la rivendicazione silenziosa della verità e favoriscano la dignità umana. Laddove il mondo vede conflitti e divisioni, guardate alla sofferenza e ai poveri per dare voce alla richiesta dei nostri fratelli e sorelle bisognosi di misericordia e comprensione.

 

(…)

 

Vaticano, 30 giugno 2020

 

Francesco

 

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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DELLA 75.ma SESSIONE
DELL'ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE
Venerdì, 25 settembre 2020


(...)

 

La crisi attuale ci ha anche dimostrato che la solidarietà non può essere una parola o una promessa vana. Inoltre, ci mostra l’importanza di evitare la tentazione di superare i nostri limiti naturali. «La libertà umana è capace di limitare la tecnica, di orientarla e porla al servizio di un altro tipo di progresso più sano, più umano, più sociale, più integrale»[4]. Dovremmo anche tener conto di tutti questi aspetti nei dibattiti sul complesso tema dell’intelligenza artificiale (IA). Tenendo presente questo, penso anche agli effetti sul lavoro, settore destabilizzato da un mercato occupazionale sempre più guidato dall’incertezza e dalla «robotizzazione» generalizzata. È particolarmente necessario trovare nuove forme di lavoro che siano davvero capaci di soddisfare il potenziale umano e che al tempo stesso affermino la nostra dignità. Per garantire un lavoro dignitoso occorre cambiare il paradigma economico dominante che cerca solo di aumentare gli utili delle imprese. L’offerta di lavoro a più persone dovrebbe essere uno dei principali obiettivi di ogni imprenditore, uno dei criteri di successo dell’attività produttiva. Il progresso tecnologico è utile e necessario purché serva a far sì che il lavoro delle persone sia più dignitoso, più sicuro, meno gravoso e spossante.
E tutto ciò richiede un cambio di rotta, e per questo abbiamo già le risorse e abbiamo i mezzi culturali e tecnologici, e abbiamo la coscienza sociale. Tuttavia, questo cambiamento ha bisogno di un contesto etico più forte, capace di superare «la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”»[5].(…)
Per di più, molti si vedono costretti ad abbandonare le loro case. Spesso, i rifugiati, i migranti e gli sfollati interni nei paesi di origine, transito e destinazione, soffrono abbandonati, senza opportunità di migliorare la loro situazione nella vita o nella loro famiglia. Fatto ancor più grave, in migliaia vengono intercettati in mare e rispediti con la forza in campi di detenzione dove sopportano torture e abusi. Molti sono vittime della tratta, della schiavitù sessuale o del lavoro forzato, sfruttati in compiti umilianti, senza un salario equo. Tutto ciò è intollerabile, ma oggi è una realtà che molti ignorano intenzionalmente!(…)
«Una nuova etica presuppone l’essere consapevoli della necessità che tutti s’impegnino a lavorare insieme per chiudere i rifugi fiscali, evitare le evasioni e il riciclaggio di denaro che derubano la società, come anche per dire alle nazioni l’importanza di difendere la giustizia e il bene comune al di sopra degli interessi delle imprese e delle multinazionali più potenti»[9]. Questo è il tempo propizio per rinnovare l’architettura finanziaria internazionale[10].
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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE
IN OCCASIONE DELL'INCONTRO PROMOSSO E ORGANIZZATO
DALLA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA:
"GLOBAL COMPACT ON EDUCATION. TOGETHER TO LOOK BEYOND"

 

[Aula Magna della Pontificia Università Lateranense - Giovedì, 15 ottobre 2020]

Cari fratelli e sorelle,

 

quando vi ho invitato a iniziare questo cammino di preparazione, partecipazione e progettazione di un patto educativo globale, non potevamo mai immaginare la situazione in cui si sarebbe sviluppato; il Covid ha accelerato e amplificato molte delle urgenze e delle emergenze che riscontravamo e ne ha rivelate tante altre. Alle difficoltà sanitarie hanno fatto seguito quelle economiche e sociali. I sistemi educativi di tutto il mondo hanno sofferto la pandemia sia a livello scolastico che accademico.

 

Ovunque si è cercato di attivare una rapida risposta attraverso le piattaforme educative informatiche, le quali hanno mostrato non solo una marcata disparità delle opportunità educative e tecnologiche, ma anche che, a causa del confinamento e di tante altre carenze già esistenti, molti bambini e adolescenti sono rimasti indietro nel naturale processo di sviluppo pedagogico. Secondo alcuni recenti dati di agenzie internazionali, si parla di “catastrofe educativa” – è un po’ forte, ma si parla di “catastrofe educativa” – di fronte ai circa dieci milioni di bambini che potrebbero essere costretti a lasciare la scuola a causa della crisi economica generata dal coronavirus, aumentando un divario educativo già allarmante (con oltre 250 milioni di bambini in età scolare esclusi da ogni attività formativa).

 

(…)

 

Facciamo appello in modo particolare, in ogni parte del mondo, agli uomini e alle donne della cultura, della scienza e dello sport, agli artisti, agli operatori dei media, affinché anch'essi sottoscrivano questo patto e, con la loro testimonianza e il loro lavoro, si facciano promotori dei valori di cura, di pace, di giustizia, di bene, di bellezza, di accoglienza dell'altro e di fratellanza. «Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e nuove trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti» (Enc. Fratelli tutti, 77). Un processo plurale e poliedrico capace di coinvolgerci tutti in risposte significative, dove le diversità e gli approcci sappiano armonizzarsi per la ricerca del bene comune. Capacità di fare armonia: ci vuole questo, oggi.

 

(…)

 

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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL SEMINARIO VIRTUALE "AMERICA LATINA: CHIESA, PAPA FRANCESCO E GLI SCENARI DELLA PANDEMIA"
Giovedì, 19 novembre 2020

 

Saluto i partecipanti a questo Seminario virtuale intitolato «America Latina: Chiesa, Papa Francesco e gli scenari della pandemia», il cui obiettivo è riflettere e analizzare la situazione di pandemia del covid-19 in America Latina, le sue conseguenze e, soprattutto, le possibili linee di azione e di aiuto solidale che vanno sviluppate da tutti coloro che fanno parte e intessono la bellezza e la speranza del continente.

 

La pandemia del covid ha amplificato e messo ancora più in evidenza i problemi e le ingiustizie socio-economiche che già affliggevano gravemente tutta l’America Latina, e con maggior durezza i poveri.

 

Alle disuguaglianze e alla discriminazione, che aumentano il divario sociale, si aggiungono le difficili condizioni in cui si trovano i malati e molte famiglie che attraversano momenti d’incertezza e subiscono situazioni d’ingiustizia sociale. E ciò appare evidente quando si constata che non tutti dispongono delle risorse necessarie per adottare le misure elementari di protezione contro il covid-19: un tetto sicuro dove poter attuare il distanziamento sociale, acqua e prodotti sanitari per igienizzarsi e disinfettare gli ambienti, un lavoro sicuro che garantisca l’accesso alle prestazioni, solo per citare quelle più imprescindibili. Credo che questo dobbiamo tenerlo ben presente. È essere concreti. Non solo come misura di protezione — come ho detto poco fa — ma anche come fatti che devono preoccuparci. Tutti hanno un tetto sicuro? Tutti hanno accesso all’acqua? Hanno prodotti per igienizzarsi e disinfettare gli ambienti? Hanno un lavoro sicuro? La pandemia ha reso ancora più visibili le nostre vulnerabilità preesistenti. (…)

 

Siamo consapevoli che gli effetti devastanti della pandemia continueremo a viverli a lungo, soprattutto nelle nostre economie, che richiedono attenzione solidale e proposte creative per alleviare il peso della crisi. Nel Regno di Dio, che inizia già in questo mondo, il pane giunge a tutti e avanza, l’organizzazione sociale si basa sul contribuire, condividere e distribuire, non sul possedere, escludere e accumulare. Queste due terne credo che debbano scandire un po’ il passo del nostro pensiero. Nel Regno di Dio il pane giunge a tutti e avanza, l’organizzazione sociale si basa sul contribuire, condividere e distribuire, non sul possedere, escludere e accumulare. Perciò siamo tutti chiamati, individualmente e collettivamente, a svolgere il nostro lavoro o missione con responsabilità, trasparenza e onestà.

 

La pandemia ha fatto vedere il meglio e il peggio dei nostri popoli e il meglio e il peggio di ogni persona. Ora più che mai è necessario riprendere coscienza della nostra appartenenza comune. Il virus ci ricorda che il modo migliore di prenderci cura di noi è imparando a prenderci cura e a proteggere quanti abbiamo accanto: coscienza di quartiere, coscienza di popolo, coscienza di regione, coscienza di casa comune. Sappiamo che, accanto alla pandemia di covid-19, esistono altri malesseri sociali — la mancanza di un tetto, la mancanza di terra e la mancanza di lavoro, le tre famose T (techotierratrabajo) — che servono da indicatori e richiedono una risposta generosa e un’attenzione immediata.

 

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EVENTO INTERNAZIONALE ONLINE:
“THE ECONOMY OF FRANCESCO - I GIOVANI, UN PATTO, IL FUTURO”
[Basilica di San Francesco d’Assisi, 19-21 novembre 2020]
VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO
Sabato, 21 novembre 2020


Cari giovani, buon pomeriggio!

 

Grazie per essere lì, per tutto il lavoro che avete fatto, per l’impegno di questi mesi, malgrado i cambi di programma. Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare.

 

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La vocazione di Assisi

 

“Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Queste furono le parole che smossero il giovane Francesco e che diventano un appello speciale per ognuno di noi. Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della “normalità” da costruire, voi sapete dire “sì”, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità. Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista»[1] e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati.

 

Attenzione però a non lasciarsi convincere che questo sia solo un ricorrente luogo comune. Voi siete molto più di un “rumore” superficiale e passeggero che si può addormentare e narcotizzare con il tempo. Se non vogliamo che questo succeda, siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.[2] Tutto ciò mi ha spinto a invitarvi a realizzare questo patto. La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra.

 

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Il patto di Assisi

 

Non possiamo permetterci di continuare a rimandare alcune questioni. Questo enorme e improrogabile compito richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche – che sono isole –, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente.[15] È tempo, cari giovani economisti, imprenditori, lavoratori e dirigenti d’azienda, è tempo di osare il rischio di favorire e stimolare modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità in cui le persone, e specialmente gli esclusi (e tra questi anche sorella terra), cessino di essere – nel migliore dei casi – una presenza meramente nominale, tecnica o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale.

 

Questo non sia una cosa nominale: esistono i poveri, gli esclusi… No, no, che quella presenza non sia nominale, non sia tecnica, non funzionale. È tempo che diventino protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale. Non pensiamo per loro, pensiamo con loro. 

 

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