GENNAIO
Cari amici, vi incoraggiamo a perseverare negli ideali e nei propositi che ispirano la vostra vita e il vostro comportamento nell'esercizio delle delicate mansioni a voi affidate. Auspico che il vostro lavoro, compiuto non di rado con rinunce e rischi, sia sempre animato dal desiderio di aiutare il prossimo e la collettività. La nascita del Signore Gesù, che abbiamo da poco celebrato, possa tenere sempre vivo in voi il senso cristiano della fraternità e della solidarietà. Vi invito a riscoprire la bellezza e la forza sempre nuova del Vangelo, ea farlo entrare in modo incisivo nelle vostre coscienze e nella vostra vita, testimoniando coraggiosamente l'amore di Dio in ogni ambiente, anche in quello del lavoro. La forza del Vangelo. Per capire il Vangelo bisogna leggerlo. Mi permetto di darvi un consiglio: abbiate un piccolo Vangelo, piccolino e tascabile. Portatelo in tasca, portatelo nella borsa e poi quando siete di qua, di là, e avete un po' di tempo, ne leggete un pochettino. Tutti i giorni qualche contatto con il Vangelo. Se uno lo ha con sé, è più facile. E questo semina di cose buone l'anima e riempie lentamente l'anima delle parole di Gesù. Questo è un consiglio, voi vedrete.
Nel Messaggio in occasione della recente Giornata Mondiale della Pace ho sottolineato che, anche quando gli eventi della nostra esistenza e della storia sono purtroppo carichi di difficoltà ea volte drammatici, «siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino» (n. 1). Anche il vostro servizio può essere segno della vicinanza di Dio ai fratelli e alle sorelle che ogni giorno incontrate e che attendono da voi un gesto di cortesia e di accoglienza. Questo è un modo concreto di essere operatori di pace, “artigiani” di pace. Questo ricevere la gente, ascoltare la gente, aiutare la gente, con gentilezza. E quanto bisogno c'è oggi di persone che lavorano per la pace non con belle parole, ma con i fatti, svolgendo con cura il proprio dovere al servizio del bene comune!
Con questi auspici, desidero porgere i miei auguri per il nuovo anno a ciascuno di voi e ai vostri familiari. Affido tutti voi alla materna protezione della Vergine Santissima e di San Michele Arcangelo, perché intercedano presso il Signore e vi ottengano prosperità e concordia e vi custodiscano da ogni pericolo. Vi accompagna sempre la mia Benedizione che imparto di cuore a ognuno di voi e alle vostre famiglie. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
(…)
Cari amici, la vostra professione nasce da una scelta valoriale. Con il vostro servizio contribuite a “rialzare e riabilitare” i vostri assistiti, ricordando che prima di tutto sono persone. Al centro infatti dev'esserci sempre la persona, in tutte le sue componenti, compresa quella spirituale: una totalità unificata, in cui si armonizzano le dimensioni biologiche e spirituali, culturali e relazionali, progettuali e ambientali dell'essere umano nel percorso della vita. Questo principio, che è alla base della Costituzione etica della vostra Federazione, orienta il cammino e permette di non cedere a sterili efficientismi oa un'applicazione fredda dei protocolli. I malati sono persone che chiedono di essere curati e di sentirsi curati, e per questo è importante relazionarsi a loro con umanità ed empatia. Certamente con un alto livello professionale, ma con umanità ed empatia.
Ma anche voi, professionisti sanitari, siete persone, e avete bisogno di qualcuno che si prenda cura di voi, attraverso il riconoscimento del vostro servizio, la tutela di condizioni adeguate di lavoro e il coinvolgimento di un numero appropriato di curanti, affinché il diritto alla salute venga riconosciuto a tutti. Spetta ad ogni Paese adoperarsi per ricercare «le strategie e le risorse perché ad ogni essere umano sia garantito l'accesso alle cure e il diritto fondamentale alla salute» ( Messaggio per la XXXI Giornata Mondiale del Malato ). La salute non è un lusso! Un mondo che scarta gli ammalati, che non assiste chi non può permettersi le cure, è un mondo cinico e non ha futuro. Ricordiamo sempre questo: la salute non è un lusso, è per tutti.
Visto a guardare sempre ai valori etici come riferimento indispensabile per le vostre professioni. I valori infatti, se ben assimilati e uniti al sapere scientifico e alle necessarie competenze, permettono di accompagnare nel migliore dei modi le persone che vi sono affidate.
Cari fratelli e sorelle, vi accompagni la materna intercessione della Vergine Maria, che il Vangelo ci presenta come donna premurosa, che si affretta ad aiutare la sua parente Elisabetta. Vegli su di voi e sul vostro lavoro. Di cuore benedico voi e le vostre famiglie. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!
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FEBBRAIO
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DELLA FONDAZIONE ENTE DELLO SPETTACOLO
Sala Clementina
Lunedì, 20 febbraio 2023
Discorso a braccio del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
(…)
Mi piace il lavoro che fate, il lavoro del cinema, il lavoro dell'arte, il lavoro della bellezza come grande espressione di Dio, che è sempre stata lasciata da parte, o almeno nell'angolo. I libri di teologia parlano tanto del verum, della verità; parlano del bonum; del bello, della bellezza, non tanto: il bello è come l'“ancilla”. Sembrava che non c'entrasse, nella riflessione teologico-pastorale, riflettere sulla bellezza. Quella bellezza che ci salverà, come ha detto qualcuno; quella bellezza che è l'armonia, opera dello Spirito Santo.
Quando noi vediamo – e vado su questo – l’opera dello Spirito, che è fare l’armonia nelle differenze, non annientare le differenze, non uniformare le differenze, ma armonizzare, allora capiamo cosa sia la bellezza. La bellezza è quell’opera dello Spirito Santo che fa di tutto l’armonia: dei contrari, degli opposti, di tutto… Pensiamo – a me dice tanto, questo – alla mattina di Pentecoste, quando si crea tutto quel problema, tutti parlano, nessuno capisce che succede, un disordine grande… È lo Spirito a fare un’armonia di tutto questo: tutto è differente, tutto sembra contraddittorio, ma l’armonia è superiore a tutto. E il vostro lavoro va sulla strada dell’armonia.
E poi, se vogliamo qualificare le grandi opere del cinema, possiamo dire che un buon motivo sono gli attori, sì, ma soltanto le opere che sono riuscite a esprimere l’armonia, sia nella gioia, sia nel dolore, l’armonia umana, sono quelle che passano alla storia. Per questo ringrazio per il vostro lavoro. È un lavoro evangelico. Anche un lavoro poetico, perché il cinema è poesia: dare vita è poetica. E ringrazio tanto per il vostro cammino: andate avanti, andate avanti, dietro ai grandi. Voi, come italiani, avete una storia gloriosa su questo, una storia gloriosa. Continuate avanti. Grazie.
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MARZO
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi do il benvenuto e ringrazio il Presidente per le sue parole. Grazie per aver fatto riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Sono lieto di questo incontro per poter incoraggiare il vostro impegno che, come ha detto il Presidente, vuole “costruire una società nella quale nessuno resti indietro”. Voi lo fate operando perché sia tutelata la dignità delle persone nell’ambiente del lavoro. Sappiamo che non è sempre così e non lo è dappertutto. Spesso il peso di un infortunio viene caricato sulle spalle della famiglia, e questa tentazione si manifesta in diverse forme. La recente pandemia ha aumentato il numero di denunce in Italia, in particolare nei settori della sanità e dei trasporti.
Grazie per il supplemento di cura che avete messo in campo nel periodo di massima crisi sanitaria, specialmente nei confronti delle categorie più fragili della popolazione. Negli ultimi mesi, inoltre, si è rilevata una crescita di casi di infortunio femminile, a ricordarci che la piena tutela delle donne nei luoghi di lavoro non è ancora realizzata. E su questo anche, mi permetto di dire, c’è uno scarto previo delle donne, per paura che rimangano incinte; è meno “sicura” una donna, perché può diventare incinta. Questo si pensa al momento di assumerla: quando comincia a “ingrassare” se si può mandarla via è meglio. Questa è la mentalità e dobbiamo lottare contro questo.
L’attività del vostro Istituto è doppiamente preziosa, sia sul versante formativo per prevenire gli infortuni sul lavoro, sia sul versante di accompagnamento degli infortunati e di sostegno concreto alle loro famiglie. Il servizio a cui vi dedicate consente di non far sentire nessuno abbandonato a sé stesso. Questo è decisivo. Senza tutele, la società diventa sempre più schiava della cultura dello scarto. Finisce per cedere allo sguardo utilitaristico nei confronti della persona, piuttosto che riconoscere la sua dignità. La tremenda logica che diffonde lo scarto si riassume nella frase: “Vali se produci”. Così conta solo chi riesce a stare nell’ingranaggio dell’attività e le vittime vengono messe da parte, considerate un peso e affidate al buon cuore delle famiglie.
Nell’Enciclica Fratelli tutti si mette in rilievo che lo «scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà» (n. 20). Tra le conseguenze del mancato investimento sulla sicurezza nei luoghi di lavoro vi è anche l’aumento degli infortuni. Davanti a questa mentalità abbiamo bisogno di ricordare che la vita non ha prezzo. La salute di una persona non è scambiabile con qualche soldo in più o con l’interesse individuale di qualcuno. E bisogna purtroppo aggiungere che un aspetto della cultura dello scarto è la tendenza a colpevolizzare le vittime. Questo si vede sempre, è un modo di giustificare, ed è segno della povertà umana in cui rischiamo di far cadere le relazioni, se perdiamo la retta gerarchia dei valori, che ha in cima la dignità della persona umana.
Cari amici, la vostra presenza oggi consente di riflettere sul senso del lavoro e su come sia possibile, in contesti storici diversi, coniugare la parabola evangelica del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37). La cura per la qualità del lavoro, come pure per i luoghi e per i trasporti, è fondamentale se si vuole promuovere la centralità della persona; quando si degrada il lavoro, si impoverisce la democrazia e si allentano i legami sociali. È importante fare in modo che siano rispettate le normative sulla sicurezza: non possono mai essere viste come un peso o un fardello inutile. Come sempre accade, ci rendiamo conto del valore della salute solo quando viene a mancare. Un aiuto può venire anche dal ricorso alla tecnologia. Ad esempio, essa ha favorito lo sviluppo del lavoro “a distanza”, che in certi casi può essere una buona soluzione, purché non isoli i lavoratori impedendo loro di sentirsi parte di una comunità. La netta separazione tra luoghi di vita familiare e ambienti lavorativi ha avuto conseguenze negative non solo sulla famiglia, ma anche sulla cultura del lavoro. Ha avvalorato l’idea secondo cui la famiglia sarebbe il luogo del consumo e l’impresa quello della produzione. Questo è troppo semplicistico. Ha fatto pensare che la cura sia fatto esclusivo della famiglia e non c’entri con il lavoro. Ha rischiato di far crescere la mentalità secondo la quale le persone valgono per quel che producono, per cui fuori dal mondo produttivo perdono valore, identificato in modo esclusivo con il denaro. Questo è un pensiero abituale, un pensiero direi non del tutto conscio, ma subliminale.
La vostra attività ricorda che lo stile del buon Samaritano è sempre attuale ed ha una valenza sociale. «Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (Fratelli tutti, 66). Quando una persona invoca aiuto, si trova nella sofferenza e rischia di essere abbandonata sul ciglio della strada della società, è fondamentale l’impegno sollecito ed efficace di istituzioni come la vostra, che mettano in pratica i verbi della parabola evangelica: vedere, avere compassione, farsi vicini, fasciare le ferite, farsi carico. E questo non è un bell’affare, è sempre in perdita!
Vi incoraggio a guardare in faccia tutte le forme di inabilità che si presentano. Non solo quelle fisiche, anche quelle psicologiche, culturali e spirituali. L’abbandono sociale ha riflessi sul modo in cui ciascuno di noi guarda e percepisce sé stesso. “Vedere” l’altro significa anche trattare le persone nella loro unicità e singolarità, facendole uscire dalla logica dei numeri. La persona non è un numero. Non esiste l’“infortunato” ma il nome e il volto di chi ha subito un infortunio. Esiste il sostantivo, non l’aggettivo: un infortunato; no, è una persona che ha subito un infortunio. Noi siamo abituati a usare troppo gli aggettivi, siamo in una civiltà che è caduta un po’ nell’usare troppo gli aggettivi e abbiamo il rischio di perdere la cultura del sostantivo. Questo non è un infortunato, è una persona che ha avuto un infortunio ma è una persona.
Non rinunciate alla compassione – che non è una cosa stupida da donne, da vecchiette, no, è una realtà umana molto grande –: io condivido perché ho una certa compassione, che non è lo stesso di lástima [spagnolo: pietà], ma è condividere il destino. Si tratta di sentire nella propria carne la sofferenza dell’altro. È il contrario dell’indifferenza – noi viviamo in una cultura dell’indifferenza –, che porta a girare lo sguardo altrove, a tirare dritto senza lasciarsi toccare interiormente. La compassione e la tenerezza sono atteggiamenti che riflettono lo stile di Dio. Se noi ci domandiamo qual è lo stile di Dio, tre parole lo indicano: vicinanza, Dio sempre è vicino, non si nasconde; misericordia, è misericordioso, ha compassione e per questo è misericordioso; e terzo, è tenero, ha tenerezza. Vicinanza, misericordia compassionevole e tenerezza. Questo è lo stile di Dio e su questa strada dobbiamo andare.
Pensiamo alla vicinanza, alla prossimità: colmare le distanze e collocarsi sullo stesso piano di fragilità condivisa. Quanto più uno avverte di essere fragile, tanto più merita vicinanza. In questo modo, si abbattono le barriere per trovare un comune piano di comunicazione che è la nostra umanità.
Fasciare le ferite può significare per voi dedicare tempo e allontanare ogni tentazione burocratica. La persona che ha subito un infortunio chiede di essere accolta prima ancora di essere risarcita. Ed ogni risarcimento economico acquista pieno valore nell’accoglienza e nella comprensione della persona.
Si tratta poi di farsi carico con la famiglia della situazione drammatica di chi è costretto ad abbandonare il lavoro a causa di un infortunio; prendersene cura in maniera integrale. Questo richiede anche creatività, perché la persona si senta accompagnata e sostenuta per quello che è e non con falsa pietà. Non è un’elemosina, è un atto di giustizia.
Cari amici, lasciamoci interpellare dalle ferite delle nostre sorelle e dei nostri fratelli – queste ferite ci interpellano, lasciamoci interpellare – e tracciamo sentieri di fraternità. La nostra assicurazione è data dalla solidarietà e dalla carità, prima di tutto. Essa non risponde solo a criteri di giustizia legale, ma è cura dell’umanità nelle sue diverse dimensioni. Quando questo viene meno, il “si salvi chi può” si traduce rapidamente nel “tutti contro tutti” (cfr Fratelli tutti, 33). L’indifferenza è segno di una società disperata e mediocre. Dico disperata nel senso che non ha speranza.
Vi affido alla protezione di San Giuseppe, patrono di tutti i lavoratori. Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E per favore, pregate per me. Grazie!
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO PROMOSSO DALLA
"STRATEGIC ALLIANCE OF CATHOLIC RESEARCH UNIVERSITIES" (SACRU)
E DALLA FONDAZIONE CENTESIMUS ANNUS PRO PONTIFICE
Sala Clementina
Sabato, 11 marzo 2023
Cari amici, buongiorno e benvenuti!
(...)
In questa luce, vorrei sottolineare tre aspetti del prendersi cura quale apporto delle donne per una maggiore inclusività, per un maggior rispetto dell’altro e per affrontare in modo nuovo sfide nuove.
In primo luogo per una maggiore inclusività. Nel volume si parla del problema delle discriminazioni che spesso colpiscono le donne, come altre categorie deboli della società. Tante volte ho ricordato con forza che la diversità non deve mai sfociare nella disuguaglianza, ma piuttosto in una grata e reciproca accoglienza. La vera sapienza, con le sue mille sfaccettature, si impara e si vive camminando insieme, e solo così diventa generatrice di pace. Questa vostra ricerca è dunque un invito, grazie alle donne e in favore delle donne, a non discriminare ma a integrare tutti, specialmente i più fragili a livello economico, culturale, razziale, e di genere. Nessuno deve essere escluso: questo è un principio sacro. Infatti, il progetto di Dio Creatore è un progetto «essenzialmente inclusivo» - sempre -, che mette al centro proprio «gli abitanti delle periferie esistenziali» [2]; è un progetto che, come fa una madre, guarda ai figli come alle dita diverse della sua mano: inclusiva, sempre.
Secondo apporto: per un maggiore rispetto dell’altro. Ogni persona va rispettata nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali: istruzione, lavoro, libertà di espressione, e così via. Questo vale in modo particolare per le donne, più facilmente soggette a violenze e soprusi. Una volta ho sentito un esperto in storia che diceva come sono nati i gioielli che portano le donne – alle donne piace portare i gioielli, ma adesso anche agli uomini –. C’era una civiltà dove c’era l’abitudine che il marito, quando arrivava a casa, avendo tante mogli, se una non le piaceva le diceva: “Vattene, fuori!”; e quella doveva andarsene con ciò che aveva addosso, non poteva entrare a prendere le sue cose, no, “te ne vai adesso”. È per questo – secondo quella storia – che le donne hanno incominciato ad avere oro addosso, e lì sarebbe l’inizio dei gioielli. È una leggenda, forse, ma interessante. Da tanto tempo la donna è il primo materiale di scarto. È terribile questo. Ogni persona va rispettata nei suoi diritti.
Non possiamo tacere di fronte a questa piaga del nostro tempo. La donna è usata. Sì, qui, in una città! Ti pagano di meno: beh, sei donna. Poi, guai ad andare con la pancia, perché se ti vedono incinta non ti danno il lavoro; anzi, se al lavoro ti vedono che incomincia, ti mandano a casa. È una della modalità che, oggi, nelle grandi città si usa: scartare le donne, per esempio con la maternità. È importante vedere questa realtà, è una piaga. Non lasciamo senza voce le donne vittime di abuso, sfruttamento, emarginazione e pressioni indebite, come queste che ho detto con il lavoro. Facciamoci voce del loro dolore e denunciamo con forza le ingiustizie a cui sono soggette, spesso in contesti che le privano di ogni possibilità di difesa e di riscatto. Ma diamo anche spazio alle loro azioni, naturalmente e potentemente sensibili e orientate alla tutela della vita in ogni stato, in ogni età e in ogni condizione.
E veniamo all’ultimo punto: affrontare in modo nuovo sfide nuove. La creatività. La specificità insostituibile del contributo femminile al bene comune è innegabile. Lo vediamo già nella Sacra Scrittura, dove spesso sono le donne a determinare svolte importanti in momenti decisivi della storia della salvezza. Pensiamo a Sara, a Rebecca, a Giuditta, a Susanna, a Rut, per culminare con Maria e le donne che hanno seguito Gesù fin sotto la croce, dove – notiamo – degli uomini era rimasto solo Giovanni, gli altri sono andati via tutti. Le coraggiose erano lì: le donne. Nella storia della Chiesa, poi, pensiamo a figure come Caterina da Siena, Giuseppina Bakhita, Edith Stein, Teresa di Calcutta e anche le donne “della porta accanto”, che sappiamo con tanta eroicità portare avanti matrimoni difficili, figli con problemi… L’eroicità delle donne. Al di là degli stereotipi di un certo stile agiografico, sono persone impressionanti per determinazione, coraggio, fedeltà, capacità di soffrire e di trasmettere gioia, onestà, umiltà, tenacia.
Quando a Buenos Aires io prendevo il bus che andava a un settore nord-ovest, dove c’erano molte parrocchie, quel bus passava sempre vicino al carcere e c’era la coda delle persone che quel giorno andavano a visitare i carcerati: il 90% erano donne, le mamme, le mamme che mai abbandonano il figlio! Le mamme. E questa è la forza di una donna: forza silenziosa, ma di tutti i giorni. La nostra storia è letteralmente costellata di donne così, sia di quelle famose, sia di quelle ignote – ma non a Dio! – che mandano avanti il cammino delle famiglie, delle società e della Chiesa; a volte con mariti problematici, viziosi… i figli vanno avanti… Ce ne accorgiamo anche qui, in Vaticano, dove le donne che “lavorano sodo”, pure in ruoli di grande responsabilità, sono ormai molte, grazie a Dio.Per esempio dal momento che la vice-governatrice è una donna, le cose funzionano meglio, qui, molto meglio. E altri posti, dove sono donne, segretarie, il Consiglio dell’Economia, per esempio, sono sei cardinali e sei laici, tutti uomini. Adesso è stato rinnovato, due anni fa, e dei laici uno è uomo e cinque donne, e ha incominciato a funzionare, perché hanno una capacità diversa: di possibilità di agire e anche di pazienza. Raccontava una volta un dirigente del mondo lavorativo, un operaio che era arrivato a capo del sindacato, in quel momento, con molta autorità – non aveva il papà, soltanto la mamma, poverissimi, lei faceva lavoro domestico, abitavano in una casa piccolina: il dormitorio della mamma, e poi una piccola sala per mangiare e lui dormiva in quella sala, spesso si ubriacava di notte, aveva 22-23 anni – raccontava che quando la mamma usciva il mattino a lavorare, a fare le pulizie nelle case, si fermava, lo guardava: lui era sveglio ma faceva finta di non vedere, di essere addormentato, lo guardava e se ne andava. “E quella costanza di mia mamma, di guardarmi senza rimproverarmi e tollerarmi, un giorno mi ha cambiato il cuore, e così sono arrivato dove sono arrivato”. Soltanto una donna sa fare questo; il papà lo avrebbe cacciato via. Dobbiamo vedere bene il modo di agire delle donne: è una cosa grandiosa.
Siamo in un tempo di cambiamenti epocali, che richiedono risposte adeguate e convincenti. Nel contesto dell’apporto della donna in questi processi, vorrei accennare a uno di essi: il progressivo sviluppo e utilizzo delle intelligenze artificiali e il delicato problema, ad esso collegato, del nascere di nuove e imprevedibili dinamiche di potere. È uno scenario a noi in gran parte ancora sconosciuto, in cui i pronostici non possono che essere congetturali e approssimativi. Ebbene, le donne in questo campo hanno tanto da dire. Esse, infatti, sanno sintetizzare in modo unico, nel loro modo di agire, tre linguaggi: quello della mente, quello del cuore e quello delle mani. Ma sinfonicamente. La donna, quando è matura, pensa quello che sente e fa; sente quello che fa e pensa; fa quello che sente e pensa: è un’armonia. Questa è la genialità della donna; e insegna a farlo agli uomini, ma è la donna ad arrivare prima a questa armonia dell’espressione, anche del pensare con i tre linguaggi. È una sintesi propria solo dell’essere umano e che la donna incarna in maniera meravigliosa – non dico esclusiva, meravigliosa e anche primariamente – come nessuna macchina potrebbe realizzare, perché non sente battere dentro di sé il cuore di un figlio che porta in grembo, non crolla, stanca e felice, di fianco al lettino dei suoi bambini, non piange di dolore e di gioia partecipando ai dolori e alle gioie delle persone che ama. Il marito lavora, dorme e… va avanti. E invece queste cose una donna le fa in modo naturale, le fa in modo unico, proprio per la capacità che ha di prendersi cura. Per questo, come scrivevano i Padri del Concilio Vaticano II, possiamo dire che «in un momento in cui l’umanità conosce una […] profonda trasformazione, le donne […] possono tanto operare per aiutarla a non decadere» [3].
Con questa convinzione, vorrei allora concludere il nostro incontro facendo mie le parole di San Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem: «La Chiesa […] rende grazie per tutte le donne e per ciascuna: per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate, […] per le donne che lavorano professionalmente, […] per tutte: […] in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità» [4].
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Cari amici!
La tecnologia è di grande aiuto per l’umanità. Pensiamo agli innumerevoli progressi nei campi della medicina, dell’ingegneria e delle comunicazioni (cfr Enc. Laudato si’, 102). E mentre riconosciamo i benefici della scienza e della tecnica, vediamo in essi una prova della creatività dell’essere umano e anche della nobiltà della sua vocazione a partecipare responsabilmente all’azione creativa di Dio (cfr ibid., 131).
In questa prospettiva, ritengo che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico abbia il potenziale per dare un contributo benefico al futuro dell’umanità, non possiamo scartarlo. Sono certo, però, che questo potenziale si realizzerà solo se ci sarà una volontà coerente da parte di coloro che sviluppano le tecnologie per agire in modo etico e responsabile. Conforta in tal senso l’impegno di tanti che lavorano in questi campi per garantire che la tecnologia sia centrata sull’uomo, fondata su basi etiche nella progettazione e finalizzata al bene. Mi rallegra che sia emerso un consenso perché i processi di sviluppo rispettino valori quali l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità. Accolgo con favore anche gli sforzi delle organizzazioni internazionali per regolamentare queste tecnologie, affinché promuovano un progresso autentico, cioè contribuiscano a lasciare un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore (cfr ibid., 194).
Non sarà facile raggiungere un accordo in queste aree. Infatti, «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza» (ibid., 105). Inoltre, il mondo attuale è caratterizzato da una grande pluralità di sistemi politici, culture, tradizioni, concezioni filosofiche ed etiche e credenze religiose. Le discussioni sono sempre più polarizzate e, in assenza di fiducia e di una visione condivisa di ciò che rende la vita degna, i dibattiti pubblici rischiano di essere polemici e inconcludenti.
Solo un dialogo inclusivo, in cui le persone cercano insieme la verità, può far emergere un vero consenso; e ciò può avvenire se si condivide la convinzione che «nella realtà stessa dell’essere umano e della società […] vi è una serie di strutture di base che sostengono il loro sviluppo e la loro sopravvivenza» (Enc. Fratelli tutti, 212). Il valore fondamentale che dobbiamo riconoscere e promuovere è quello della dignità della persona umana (cfr ibid., 213). Vi invito, pertanto, nelle vostre deliberazioni, a fare della dignità intrinseca di ogni uomo e di ogni donna il criterio-chiave nella valutazione delle tecnologie emergenti, le quali rivelano la loro positività etica nella misura in cui aiutano a manifestare tale dignità e ad incrementarne l’espressione, a tutti i livelli della vita umana.
Mi preoccupa il fatto che i dati finora raccolti sembrano suggerire che le tecnologie digitali siano servite ad aumentare le disuguaglianze nel mondo. Non solo le differenze di ricchezza materiale, che pure sono importanti, ma anche quelle di accesso all’influenza politica e sociale. Ci chiediamo: le nostre istituzioni nazionali e internazionali sono in grado di ritenere le aziende tecnologiche responsabili dell’impatto sociale e culturale dei loro prodotti? C’è il rischio che l’aumento della disuguaglianza possa compromettere il nostro senso di solidarietà umana e sociale? Potremmo perdere il nostro senso di destino condiviso? In realtà, la nostra meta è che la crescita dell’innovazione scientifica e tecnologica si accompagni a una maggiore uguaglianza e inclusione sociale (cfr Videomessaggio alla Conferenza TED a Vancouver, 26 Aprile 2017).
Questo problema della disuguaglianza può essere aggravato da una falsa concezione della meritocrazia che mina la nozione di dignità umana. Il riconoscimento e la ricompensa del merito e dello sforzo umano hanno un fondamento, ma c’è il rischio di concepire il vantaggio economico di pochi come guadagnato o meritato, mentre la povertà di tanti è vista, in un certo senso, come colpa loro. Questo approccio sottovaluta le disuguaglianze di partenza tra le persone in termini di ricchezza, opportunità educative e legami sociali e tratta il privilegio e il vantaggio come conquiste personali. Di conseguenza – in termini schematici – se la povertà è colpa dei poveri, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa (cfr Discorso al mondo del lavoro, Genova, 27 maggio 2017).
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APRILE
Cari fratelli e sorelle, buongiorno, benvenuti!
Ringrazio il Presidente per le sue cortesi parole. L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale compie 125 anni e ha una storia importante. Non tutti i Paesi del mondo possono raccontare un’esperienza così preziosa al servizio dei lavoratori. Voi, qui in Italia, avete di queste ricchezze, che sono proprio vostre. Ne dico tre: gli oratori nelle parrocchie – è una cosa vostra, e fa tanto bene –; seconda, il volontariato: il volontariato italiano è grandioso, volontariato dappertutto; terza, istituzioni come la vostra, che si organizzano e non durano due o tre anni, 125!, che hanno questa capacità di portare avanti. Grazie!
Il tema della previdenza è sempre attuale. Da una parte, infatti, la società sembra aver smarrito l’orizzonte futuro: si è appiattita sul presente e interessa poco quello che potrà capitare alle future generazioni. “Io faccio la mia, poi, che si arrangino…”. Non va. Segni preoccupanti in tal senso sono la crisi ecologica e il debito pubblico che viene caricato sulle spalle dei figli e dei nipoti. Pensare che in alcuni Paesi i nipoti nasceranno con un debito pubblico terribile! La scelta della sostenibilità, invece, risponde al principio per cui è ingiusto affidare ai giovani pesi irreversibili e troppo gravosi. Dall’altra parte, la previdenza è una forma di welfare che tiene insieme le diverse generazioni tra loro. La meritata pensione di un lavoratore, infatti, si sostiene non solo grazie ai suoi anni di lavoro, ma anche sul fatto che c’è qualcuno che, attraverso la sua attività, sta pagando concretamente la pensione di altri. In sostanza, un forte legame tra le generazioni è il presupposto perché la previdenza funzioni. Vedo qui dei bambini, e mi viene in mente l’espressione di un uomo di quasi 60 anni, che davanti all’inverno demografico italiano dice: “Ma chi pagherà la mia pensione? Non saranno i cagnolini che la gente ha al posto dei figli”.
Non va dimenticato che al sistema pensionistico contribuiscono anche lavoratori stranieri che non hanno ancora la cittadinanza italiana. Sarebbe un buon segno poter esprimere loro la gratitudine per quello che fanno. Anche la previdenza ci ricorda che «tutto è connesso» e che siamo interdipendenti gli uni dagli altri. La vita sociale sta in piedi grazie a reti comunitarie solidali. Il bene comune passa attraverso il lavoro quotidiano di milioni di persone che condividono il principio del legame solidale tra i lavoratori. Per questo, desidero rivolgere tre appelli per custodire una previdenza all’altezza delle sfide di società che, come quella italiana, stanno invecchiando sempre di più.
Il primo appello è un no al lavoro nero. Ma che diventi una cultura: no al lavoro nero. Sul momento, infatti, esso sembra portare benefici economici all’individuo, ma alla distanza non permette alle famiglie di contribuire e accedere secondo giustizia al sistema pensionistico. Il lavoro nero falsa il mercato del lavoro ed espone i lavoratori a forme di sfruttamento e di ingiustizia.
Il secondo appello è un no all’abuso del lavoro precario, che ha un impatto sulle scelte di vita dei giovani e talora costringe a lavorare anche quando le forze vengono meno. La precarietà dev’essere transitoria, non può protrarsi in eccesso; altrimenti, finisce per portare sfiducia, favorisce il rimando delle scelte di vita dei giovani, allontana l’ingresso nel sistema previdenziale e incrementa la denatalità.
Il terzo appello è un sì al lavoro dignitoso, che è sempre «libero, creativo, partecipativo e solidale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 192). La previdenza è una forma di partecipazione al benessere proprio e degli altri. Mettere da parte risorse economiche e garantire l’accesso alla sanità sono beni preziosi che sanno tenere insieme le diverse stagioni della vita.
Conosciamo, infatti, una previdenza buona e una previdenza cattiva, che la Bibbia stessa descrive molto bene. È cattiva previdenza quella di chi pensa solo a sé stesso, come ci ricorda la parabola evangelica dell’uomo avaro (cfr Lc 12,16-21), che fa costruire magazzini sempre più grandi per raccogliere i suoi beni. Chi accumula solo per sé finisce per illudersi: «Riposati, mangia, bevi e divertiti» (v. 19), dice tra sé quell’uomo. Ma il Signore gli dice: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (v. 20). Non ha futuro chi si rinchiude nelle false sicurezze.
Buona previdenza, invece, è quella del patriarca Giuseppe che, divenuto governatore d’Egitto, si preoccupa di mettere da parte il grano negli anni dell’abbondanza per poter affrontare meglio il tempo della carestia. «Ci fu carestia in ogni paese – leggiamo nel Libro della Genesi – ma, in tutta la terra d’Egitto c’era il pane» (41,54). Giuseppe non solo confida nella Provvidenza di Dio e la riconosce, ma si mostra previdente per il bene del popolo. Sa guardare in avanti; immagina il bene anche quando il male sembra prevalere; si prende cura delle persone a lui affidate. E questa è la vostra vocazione: prendersi cura delle persone in futuro.
Abbiamo bisogno di politici saggi, guidati dal criterio della fraternità e che sanno fare discernimento tra stagione e stagione, evitando di sprecare le risorse quando ci sono e di lasciare le future generazioni in grave difficoltà.
Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per il servizio che fate a sostegno dei lavoratori e delle lavoratrici, per garantire l’assistenza alle persone disoccupate e in favore di chi è malato, infortunato o anziano. Auspico che continuiate a rendere concretamente possibile il diritto alla pensione, e soprattutto a far crescere nel tessuto italiano la cultura del bene comune, della previdenza e della sostenibilità, che per essere economica dev’essere anche sociale. Vi affido alla protezione di San Giuseppe. Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
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Attira l’attenzione come Gesù, proprio il giorno prima di essere crocifisso, fa questo gesto. Lavare i piedi, era abitudine a quel tempo perché le strade erano polverose, la gente veniva da fuori e nell’entrare in una casa, prima del banchetto, della riunione, si lavava i piedi. Ma chi lavava i piedi? Gli schiavi, perché era un lavoro da schiavo. Immaginiamo noi come sono rimasti sbalorditi i discepoli quando hanno visto che Gesù incomincia a fare questo gesto di uno schiavo. Ma egli lo fa per far capire loro il messaggio del giorno dopo che sarebbe morto come uno schiavo, per pagare il debito di tutti noi. Se noi ascoltassimo queste cose di Gesù, la vita sarebbe così bella perché ci affretteremmo ad aiutarci l’un l’altro, invece di fregare uno all’altro, di approfittarsi l’uno dell’altro, come ci insegnano i furbi. È tanto bello aiutarsi l’un l’altro, dare la mano: sono gesti umani, universali, ma che nascono da un cuore nobile. E Gesù oggi con questa celebrazione vuole insegnarci questo: la nobiltà del cuore. Ognuno di noi può dire: “Ma se il Papa sapesse le cose che io ho dentro…”. Ma Gesù le sa e ci ama cosi come siamo, e lava i piedi a tutti noi. Gesù non si spaventa mai delle nostre debolezze, non si spaventa mai perché Lui ha già pagato, soltanto vuole accompagnarci, vuole prenderci per mano perché la vita non sia tanto dura per noi. Io farò lo stesso gesto di lavare i piedi, ma non è una cosa folcloristica, no. Pensiamo che è un gesto che annuncia come dobbiamo essere noi, uno con l’altro. Nella società vediamo quanta gente si approfitta degli altri, quanta gente che è all’angolo e non riesce a uscire. Quante ingiustizie, quanta gente senza lavoro, quanta gente che lavora e viene pagano la metà, quanta gente che non ha i soldi per comprare le medicine, quante famiglie distrutte, tante cose brutte… E nessuno di noi può dire: “Io grazie a Dio non sono così sai” – “Se io non sono così è per la grazia di Dio!”; ognuno di noi può scivolare, ognuno di noi. E questa coscienza, questa certezza che ognuno di noi può scivolare è quello che ci dà la dignità - ascoltate la parola: la “dignità” - di essere peccatori. E Gesù ci vuole così e per questo ha voluto lavare i piedi e dire: “Io sono venuto per salvare voi, per servire voi”. Adesso io farò lo stesso come ricordo di questo che Gesù ci ha insegnato: aiutarsi gli uni gli altri. E così la vita è più bella e si può andare avanti così. Durante la lavanda dei piedi – spero di cavarmela perché non posso camminare bene – ma durante la lavanda dei piedi voi pensate: “Gesù mi ha lavato i piedi, Gesù mi ha salvato, e ho questa difficoltà adesso”. Ma passerà, il Signore è sempre accanto a te, mai abbandona, mai. Pensate questo.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo le catechesi sui testimoni dello zelo apostolico. Siamo partiti da San Paolo e la volta scorsa abbiamo guardato i martiri, che annunciano Gesù con la vita, fino a donarla per Lui e per il Vangelo. Ma c’è un’altra grande testimonianza che attraversa la storia della fede: quella delle monache e dei monaci, sorelle e fratelli che rinunciano a sé, rinunciano al mondo per imitare Gesù sulla via della povertà, della castità e dell’obbedienza e per intercedere a favore di tutti. Le loro vite parlano da sé, ma noi potremmo chiederci: come può della gente che vive in monastero aiutare l’annuncio del Vangelo? Non farebbero meglio a impiegare le loro energie nella missione? Uscendo dal monastero e predicando il Vangelo fuori dal monastero? In realtà, i monaci sono il cuore pulsante dell’annuncio, la loro preghiera è ossigeno per tutte le membra del Corpo di Cristo, la preghiera loro è la forza invisibile che sostiene la missione. Non a caso la patrona delle missioni è una monaca, Santa Teresa di Gesù Bambino. Ascoltiamo come scoprì la sua vocazione, scrisse così: «Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunciato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni […]. Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. […] Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore» (Manoscritto autobiografico “B”, 8 settembre 1896). I contemplativi, i monaci, le monache: gente che prega, lavora, prega in silenzio, per tutta la Chiesa. E questo è l’amore: è l’amore che si esprime pregando per la Chiesa, lavorando per la Chiesa, nei monasteri.
Questo amore per tutti anima la vita dei monaci e si traduce nella loro preghiera di intercessione. A questo proposito vorrei portarvi come esempio San Gregorio di Narek, Dottore della Chiesa. È un monaco armeno, vissuto attorno all’anno Mille, che ci ha lasciato un libro di preghiere, nel quale si è riversata la fede del popolo armeno, il primo ad abbracciare il cristianesimo; un popolo che, stretto alla croce di Cristo, ha tanto sofferto lungo la storia. E San Gregorio trascorse nel monastero di Narek quasi tutta la vita. Lì imparò a scrutare le profondità dell’animo umano e, fondendo insieme poesia e preghiera, segnò il vertice sia della letteratura sia della spiritualità armena. L’aspetto che in lui più colpisce è proprio la solidarietà universale di cui è interprete. E fra i monaci e le monache c’è una solidarietà universale: qualsiasi cosa succede nel mondo, trova posto nel loro cuore e pregano. Il cuore dei monaci e delle monache è un cuore che prende come un’antenna, prende cosa succede nel mondo e prega e intercede per questo. E così vivono in unione con il Signore e con tutti. E San Gregorio di Narek scrive: «Io mi sono volontariamente caricato di tutte le colpe, da quelle del primo padre fino a quello dell’ultimo dei suoi discendenti». (Libro delle Lamentazioni, 72). E come ha fatto Gesù i monaci prendono su di loro i problemi del mondo, le difficolta, le malattie, tante cose e pregano per gli altri. E questi sono i grandi evangelizzatori. I monasteri come mai vivono chiusi ed evangelizzano? Perché con la parola, l’esempio, l’intercessione e il lavoro quotidiano, i monaci sono un ponte di intercessione per tutte le persone e per i peccati. Loro piangono anche con le lacrime, piangono per i loro peccati – tutti siamo peccatori – e anche piangono per i peccati del mondo, e pregano e intercedono con le mani e il cuore in alto. Pensiamo un po' a questa – mi permetto la parola – “riserva” che noi abbiamo nella Chiesa: sono la vera forza, la vera forza che porta avanti il popolo di Dio e da qui viene l’abitudine che ha la gente – il popolo di Dio – quando incontra un consacrato, una consacrata di dire: “Prega per me, prega per me”, perché sai che c’è una preghiera d’intercessione. Ci farà bene - nella misura che noi possiamo - visitare qualche monastero, perché lì si prega e si lavora. Ognuno ha la propria regola, ma lì hanno le mani sempre occupate: occupate con il lavoro, occupate con la preghiera. Che il Signore ci dia nuovi monasteri, ci dia monaci e monache che portino avanti la Chiesa con la loro intercessione. Grazie.
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MAGGIO
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA III EDIZIONE DEGLI
STATI GENERALI DELLA NATALITÀ
Auditorium di Via della Conciliazione (Roma)
Venerdì, 12 maggio 2023
Signora Presidente del Consiglio,
distinte Autorità e Rappresentanti della società civile,
cari amici, fratelli, caro amico Gigi,
(…)
Forse mai come in questo tempo, tra guerre, pandemie, spostamenti di massa e crisi climatiche, il futuro pare incerto. Amici, è incerto; non solo pare, è incerto. Tutto va veloce e pure le certezze acquisite passano in fretta. Infatti, la velocità che ci circonda accresce la fragilità che ci portiamo dentro. E in questo contesto di incertezza e fragilità, le giovani generazioni sperimentano più di tutti una sensazione di precarietà, per cui il domani sembra una montagna impossibile da scalare. La Signora Presidente del Consiglio ha parlato della “crisi”, parola chiave. Ma ricordiamo due cose della crisi: dalla crisi non si esce da soli, o usciamo tutti o non usciamo; e dalla crisi non si esce uguali: usciremo migliori o peggiori. Ricordiamo questo. Questa è la crisi di oggi. Difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti sono problemi reali. Sono problemi che interpellano la politica, perché è sotto gli occhi di tutti che il mercato libero, senza gli indispensabili correttivi, diventa selvaggio e produce situazioni e disuguaglianze sempre più gravi. Alcuni anni fa, ricordo un aneddoto di una coda davanti a una compagnia di trasporti, una coda di donne che cercavano lavoro. Ad una avevano detto che toccava a lei…; presenta i dati… “Va bene, lei lavorerà undici ore al giorno, e lo stipendio sarà di 600 (euro). Va bene?”. E lei: “Ma come, ma con 600 euro… 11 ore… non si può vivere…” – “Signora, guardi la coda, e scelga. Le piace, lo prende; non le piace, fa la fame”. Questa è un po’ la realtà che si vive. È una cultura poco amica, se non nemica, della famiglia, centrata com’è sui bisogni del singolo, dove si reclamano continui diritti individuali e non si parla dei diritti della famiglia (cfr Esort. ap. Amoris laetitia, 44). In particolare, vi sono condizionamenti quasi insormontabili per le donne. Le più danneggiate sono proprio loro, giovani donne spesso costrette al bivio tra carriera e maternità, oppure schiacciate dal peso della cura per le proprie famiglie, soprattutto in presenza di anziani fragili e persone non autonome. In questo momento le donne sono schiave di questa regola del lavoro selettivo, che impedisce loro pure la maternità.
Certo, esiste la Provvidenza, e milioni di famiglie lo testimoniano con la loro vita e le loro scelte, ma l’eroismo di tanti non può diventare una scusa per tutti. Occorrono perciò politiche lungimiranti. Occorre predisporre un terreno fertile per far fiorire una nuova primavera e lasciarci alle spalle questo inverno demografico. E, visto che il terreno è comune, come comuni sono la società e il futuro, è necessario affrontare il problema insieme, senza steccati ideologici e prese di posizione preconcette. L’insieme è importante. È vero che, anche con il vostro aiuto, parecchio è stato fatto e di questo sono grato, ma ancora non basta. Bisogna cambiare mentalità: la famiglia non è parte del problema, ma è parte della sua soluzione.
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Cari giovani,
Vi ringrazio per l’interesse che avete posto in questa visita e l’entusiasmo che dimostrate per il vostro lavoro in campagna, per il bestiame e per il servizio che desiderate prestare alla società.
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Se ci pensate bene, la vocazione a cui Dio vi ha chiamati vi rende testimoni dell’ecologia integrale di cui il mondo ha oggi bisogno. Una vocazione primigenia perché è radicata nelle parole di Dio nella Genesi quando invitò l’umanità a collaborare al compito della creazione per mezzo del suo lavoro (cfr. Gn 1, 28-31). Una vocazione multidisciplinare coniuga il rapporto diretto con la terra, la sua cura e la sua coltivazione, con il servizio che questa presta alla società. Che cosa chiede allora Dio a voi, in questo lavoro, in questa attività? Vi chiede di pensare alla campagna come a un dono, come qualcosa che vi è stato dato e che lascerete in eredità ai vostri figli; di pensare alla produzione come a un regalo che il Signore, per mezzo di voi, e per mezzo del vostro lavoro, invia al suo popolo per saziare la sua fame e placare la sua sete. Una fame che non è solo di pane, ma anche di Dio, il quale, per saziarla, non ha esitato a farsi cibo, a farsi carne, giungendo in questo modo al cuore dell’uomo (cfr. Mt 4, 3-4; Gv 6, 55-57).
Da questo valore fondamentale, per il quale vi rendo grazie, nasce la responsabilità affidata a voi, in prima persona, ma anche a tutti coloro che, in qualche modo, partecipano alla produzione, alla lavorazione e alla distribuzione alimentare. È necessario lavorare affinché questo immenso bene che Dio ci dona non si trasformi in un’arma — per esempio, limitando l’arrivo di alimenti alle popolazioni in conflitto —; o non si trasformi in un meccanismo di speculazione, manipolando il prezzo e la commercializzazione dei prodotti al solo fine di ottenere un beneficio più grande. È questo che dobbiamo denunciare, che deve farci male al cuore; non lo meritano gli animali di cui vi prendete cura con tanta dedizione, non lo meritano le persone per le quali lavorate con entusiasmo, non lo merita Dio. Offende loro e offenderebbe voi.
Ma non scoraggiatevi, ogni vocazione comporta la croce, uno accetta lo sforzo di lavorare sodo e che con gli animali non ci sono giorni di festa, né ci sono scioperi. Ancora più difficile è accettare l’incomprensione di quanti non danno valore a una cosa tanto essenziale per la vita qual è la produzione di cibo, o preferiscono cercare colpevoli invece di soluzioni. Affido alla Santissima Vergine il lavoro che svolgete, affinché sentiate sempre vicino Gesù, che sulla croce offrì il suo sangue, si fece cibo, si fece vita per donarcela in abbondanza. Andate avanti e siate poeti della terra. Grazie.
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GIUGNO
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PELLEGRINI DA CONCESIO E DA SOTTO IL MONTE,
IN OCCASIONE DEL 60° DELLA MORTE DI GIOVANNI XXIII E DELL'ELEZIONE DI PAOLO VI
Sabato, 3 giugno 2023
Cari fratelli e sorelle, benvenuti!
È bello incontrare voi, che rappresentate le comunità di origine di due Papi santi, ai quali il Popolo di Dio è tanto affezionato: Giovanni XXIII e Paolo VI. Ed è significativo che questo avvenga in occasione di tre ricorrenze importanti per tutta la Chiesa: il 60° anniversario della Lettera Enciclica Pacem in terris, della nascita al cielo di Papa Giovanni e dell’elezione di Papa Montini.
(…)
Rendiamo grazie al Signore prima di tutto per averceli donati. Per averli donati alle vostre comunità come figli e fratelli, cresciuti tra le vostre strade, dove hanno lasciato le tracce del loro cammino di santità, al punto che ancora oggi i luoghi della loro presenza sono meta di pellegrinaggio per tanti uomini e donne che vi si recano dall’Italia e dall’estero. Essi trovano da voi conforto e sostegno, e al tempo stesso rendono la vostra terra più viva e ricca nella fede.
Rendiamo però grazie al Signore anche perché ha reso voi, loro concittadini, cooperatori di questo dono. Essi hanno potuto essere grandi Pastori, infatti, prima di tutto perché sulla loro strada hanno incontrato buoni compagni di cammino, testimoni del Vangelo che li hanno aiutati a crescere nella fede, fino ad accendere in loro la luce della chiamata. Prima di tutto le loro famiglie, diverse per estrazione e contesto, ma accomunate dalla stessa solida pietà cristiana, vissuta da una parte nel duro lavoro dei campi e dall’altra nel serio impegno culturale e sociale.
Fratelli e sorelle, vi dico una cosa: Dio non fa i santi in laboratorio, no, li costruisce in grandi cantieri, in cui il lavoro di tutti, sotto la guida dello Spirito Santo, contribuisce a scavare profondo, a porre solide fondamenta e a realizzare la costruzione, ponendo ogni cura perché cresca ordinata e perfetta, con Cristo come pietra angolare (cfr Ef 2,21-22). Questa è l’aria che hanno respirato fin da piccoli Angelo e Giovanni Battista a Sotto il Monte e a Concesio, con tutto il bene che ne è derivato: quello che hanno donato e ricevuto!
Rendiamo grazie al Signore perché ha dato loro, nei vostri paesi, una terra fertile e ricca di santità in cui porre le radici e crescere, e perché fa anche di voi, come già dei vostri genitori, dei vostri nonni, e di tanti che hanno vissuto, amato, lavorato, seminato e raccolto, gioito e pianto nelle vostre cittadine e nelle vostre campagne, un suolo buono e generoso, in cui piccoli semi di bene possono germogliare e crescere per il futuro. Vengono alla mente le parole che San Paolo rivolge al suo discepolo e compagno di apostolato Timoteo: «Mi ricordo […] della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Loide e tua madre Eunice, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2 Tm 1,5). Anche San Timoteo è stato un grande Pastore, e anche lui ha imparato alla scuola di vita di sua nonna e di sua mamma, in una famiglia e in una comunità.
Fate sempre tesoro delle vostre radici. Voglio ripeterlo: fate sempre tesoro delle vostre radici, non tanto per trasformarle in un blasone o in un baluardo da difendere, quanto piuttosto come di una ricchezza da condividere. La terra si lavora insieme, si lavora per tutti e si lavora in pace; con la guerra, l’egoismo e la divisione si riesce solo a devastarla, come purtroppo stiamo vedendo in tante parti del mondo e in modi diversi. Amare le vostre radici sia dunque per voi amare il Vangelo di Gesù e amare come Gesù ha amato nel Vangelo!
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7. Ancora una volta, purtroppo, dobbiamo constatare nuove forme di povertà che si assommano a quelle già descritte in precedenza. Penso in modo particolare alle popolazioni che vivono in luoghi di guerra, specialmente ai bambini privati di un presente sereno e di un futuro dignitoso. Nessuno potrà mai abituarsi a questa situazione; manteniamo vivo ogni tentativo perché la pace si affermi come dono del Signore Risorto e frutto dell’impegno per la giustizia e il dialogo.
Non posso dimenticare le speculazioni che, in vari settori, portano a un drammatico aumento dei costi che rende moltissime famiglie ancora più indigenti. I salari si esauriscono rapidamente costringendo a privazioni che attentano alla dignità di ogni persona. Se in una famiglia si deve scegliere tra il cibo per nutrirsi e le medicine per curarsi, allora deve farsi sentire la voce di chi richiama al diritto di entrambi i beni, in nome della dignità della persona umana.
Come non rilevare, inoltre, il disordine etico che segna il mondo del lavoro? Il trattamento disumano riservato a tanti lavoratori e lavoratrici; la non commisurata retribuzione per il lavoro svolto; la piaga della precarietà; le troppe vittime di incidenti, spesso a causa della mentalità che preferisce il profitto immediato a scapito della sicurezza… Tornano alla mente le parole di san Giovanni Paolo II: «Primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. […] L’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (Enc. Laborem exercens, 6).
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA DELEGAZIONE DEL PREMIO BIAGIO AGNES
Sabato, 24 giugno 2023
Gentili Signore e Signori, benvenuti!
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È il lavoro quotidiano del giornalista, chiamato a “consumare le suole delle scarpe” o a percorrere le strade digitali sempre in ascolto delle persone che incontra. «Il giornalismo, come racconto della realtà, richiede la capacità di andare laddove nessuno va: un muoversi e un desiderio di vedere. Una curiosità, un’apertura, una passione» (Messaggio per la 55ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 23 gennaio 2021). È quanto viene sottolineato anche dalla Giuria con il Premio reporter di guerra: un’attenzione che, nel raccontare la tragedia e l’assurdità dei conflitti, fa sentire tutti parte di una medesima sofferenza. Vorrei indicare, al riguardo, tre “elementi” del lavoro giornalistico, che forse si usano sempre di meno, ma che hanno ancora tanto da insegnare: taccuino, penna e sguardo.
Taccuino. Annotare un fatto comporta sempre un grande lavorio interiore. Lo si appunta perché si è testimoni diretti oppure perché una fonte, che si ritiene attendibile, lo riporta aprendo poi alla verifica successiva. Il taccuino ricorda l’importanza dell’ascolto, ma soprattutto del lasciarsi trafiggere da ciò che avviene. Il giornalista non è mai un contabile della storia, ma una persona che ha deciso di viverne i risvolti con partecipazione, con com-passione.
Penna. Si usa sempre di meno, sostituita da mezzi più avanzati, eppure la penna aiuta a elaborare il pensiero, connettendo testa e mani, favorendo i ricordi e legando la memoria con il presente. La penna evoca il lavoro artigianale cui il giornalista è sempre chiamato: si prende la penna in mano dopo aver verificato i dettagli, vagliato le ipotesi, ricostruito e appurato ogni singolo passaggio. In questa tessitura agiscono insieme l’intelligenza e la coscienza, toccando le proprie corde esistenziali. La penna richiama così l’“atto creativo” dei giornalisti e degli operatori dei media, atto che richiede di unire la ricerca della verità con la rettitudine e il rispetto per le persone, in particolare con il rispetto dell’etica professionale, proprio come ha fatto Biagio Agnes.
Sguardo. Taccuino e penna sono semplici accessori se manca lo sguardo sulla realtà. Uno sguardo reale, non solo virtuale. Oggi, più che in passato, si può esserne distolti da parole, immagini e messaggi che inquinano la vita. Pensiamo, ad esempio, al triste fenomeno delle fake news, alla retorica bellicista o a tutto ciò che manipola la verità. Serve uno sguardo attento su ciò che avviene per disarmare il linguaggio e favorire il dialogo. Lo sguardo deve essere orientato dal cuore: da lì «scaturiscono le parole giuste per diradare le ombre di un mondo chiuso e diviso ed edificare una civiltà migliore di quella che abbiamo ricevuto. È uno sforzo richiesto a ciascuno di noi, ma che richiama in particolare il senso di responsabilità degli operatori della comunicazione, affinché svolgano . (…)
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LUGLIO
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Oggi uno dei modi più importanti per partecipare al Bene comune è la creazione di posti di lavoro, di impiego per tutti, in particolare per i giovani — abbiate fiducia nei giovani: ne hanno bisogno e voi avete bisogno di loro. Ogni nuovo posto di lavoro creato è una ricchezza condivisa, che non finisce nelle banche a produrre interessi finanziari, ma che viene investito affinché nuove persone possano lavorare e rendere la loro vita più dignitosa. Il lavoro è qualcosa di legittimamente importante. In effetti, se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, è ancor più vero che sono gli uomini a nobilitare il lavoro. Siamo noi, e non le macchine, a essere il vero valore del lavoro.
L’imprenditore è anche un lavoratore. Vive del suo lavoro, vive lavorando, e rimane imprenditore finché lavora. Quando l’imprenditore smette di lavorare, si trasforma in speculatore o in possidente e cambia mestiere. Il buon imprenditore, come il “buon pastore” del Vangelo, al contrario del “mercenario”, conosce i suoi lavoratori perché conosce il loro lavoro. Una delle crisi più gravi del nostro tempo è la perdita di contatto dell’imprenditore con il lavoro della sua impresa, e dunque con i suoi lavoratori, che diventano “invisibili” (Pierre Y. Gomes). Voi siete diventati imprenditori perché un giorno siete rimasti affascinati dall’odore del laboratorio, dalla gioia di toccare con le vostre mani i vostri prodotti, dalla soddisfazione di vedere che i vostri servizi sono utili: non dimenticatelo mai, è così che è nata la vostra vocazione. E in questo assomigliate a Giuseppe, a Gesù che ha trascorso parte della sua vita a lavorare come artigiano: “il Verbo si è fatto falegname”. Conosceva l’odore del legno.
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AGOSTO
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Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita. E se da molte parti oggi si respira un clima di protesta e insoddisfazione, terreno fertile per populismi e complottismi, la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme. Rinverdisce il desiderio di creare novità, di prendere il largo e navigare insieme verso il futuro. Vengono in mente alcune parole ardite di Pessoa: «Navigare è necessario, vivere non è necessario […]; quello che serve è creare» (Navegar é preciso). Diamoci dunque da fare con creatività per costruire insieme! Immagino tre cantieri di speranza in cui possiamo lavorare tutti uniti: l’ambiente, il futuro, la fraternità.
L’ambiente. Il Portogallo condivide con l’Europa tanti sforzi esemplari per la protezione del creato. Ma il problema globale rimane estremamente serio: gli oceani si surriscaldano e i loro fondali portano a galla la bruttezza con cui abbiamo inquinato la casa comune. Stiamo trasformando le grandi riserve di vita in discariche di plastica. L’oceano ci ricorda che la vita dell’uomo è chiamata ad armonizzarsi con un ambiente più grande di noi, che va custodito, va custodito con premura, pensando alle giovani generazioni. Come possiamo dire di credere nei giovani, se non diamo loro uno spazio sano per costruire il futuro?
Il futuro è il secondo cantiere. E il futuro sono i giovani. Ma tanti fattori li scoraggiano, come la mancanza di lavoro, i ritmi frenetici in cui sono immersi, l’aumento del costo della vita, la fatica a trovare un’abitazione e, ancora più preoccupante, la paura di formare famiglie e mettere al mondo dei figli. In Europa e, più in generale, in Occidente, si assiste a una fase discendente della curva demografica: il progresso sembra una questione riguardante gli sviluppi della tecnica e gli agi dei singoli, mentre il futuro chiede di contrastare la denatalità e il tramonto della voglia di vivere. La buona politica può fare molto in questo, può essere generatrice di speranza. Essa, infatti, non è chiamata a detenere il potere, ma a dare alla gente il potere di sperare. È chiamata, oggi più che mai, a correggere gli squilibri economici di un mercato che produce ricchezze, ma non le distribuisce, impoverendo di risorse e certezze gli animi. È chiamata a riscoprirsi generatrice di vita e di cura, a investire con lungimiranza sull’avvenire, sulle famiglie e sui figli, a promuovere alleanze intergenerazionali, dove non si cancelli con un colpo di spugna il passato, ma si favoriscano i legami tra giovani e anziani. Questo dobbiamo riprenderlo: il dialogo tra giovani e anziani. A questo richiama il sentimento della saudade portoghese, la quale esprime una nostalgia, un desiderio di bene assente, che rinasce solo a contatto con le proprie radici. I giovani devono trovare le proprie radici negli anziani. In tal senso è importante l’educazione, che non può solo impartire nozioni tecniche per progredire economicamente, ma è destinata a immettere in una storia, a consegnare una tradizione, a valorizzare il bisogno religioso dell’uomo e a favorire l’amicizia sociale.
L’ultimo cantiere di speranza è quello della fraternità, che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo. In tante parti del Portogallo il senso del vicinato e la solidarietà sono molto vivi. Però, nel contesto generale di una globalizzazione che ci avvicina, ma non ci dà la prossimità fraterna, tutti siamo chiamati a coltivare il senso della comunità, a partire dalla ricerca di chi ci abita accanto. Perché, come notò Saramago, «ciò che dà il vero senso all’incontro è la ricerca, e bisogna fare molta strada per raggiungere ciò che è vicino» (Todos os nomes, 1997). Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi. Ho saputo di tanti giovani che qui coltivano il desiderio di farsi prossimi; penso all’iniziativa Missão País, che porta migliaia di ragazzi a vivere nello spirito del Vangelo esperienze di solidarietà missionaria nelle zone periferiche, specialmente nei villaggi all’interno del Paese, andando a trovare molti anziani soli, e questo è un’ “unzione” per la gioventù. Vorrei ringraziare e incoraggiare, accanto ai tanti che nella società portoghese si occupano degli altri, la Chiesa locale, che fa tanto bene, lontana dalla luce dei riflettori.
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SETTEMBRE
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi do il benvenuto in occasione dell’ottantesimo anniversario della vostra associazione. Era il 1943, anno decisivo per l’Italia nella seconda guerra mondiale. Avete mosso i primi passi in quel contesto, che ci ricorda che ogni conflitto armato porta con sé schiere di mutilati, anche oggi; e che la popolazione civile soffre le drammatiche conseguenze di quella follia che è la guerra. Finito il conflitto, rimangono le macerie, anche nei corpi e nei cuori, e la pace va ricostruita giorno per giorno, anno per anno, attraverso la tutela e la promozione della vita e della sua dignità, a partire dai più deboli, a partire dai più svantaggiati.
Oggi, allora, vorrei esprimere un sentito ringraziamento a tutti voi. Grazie anzitutto per quello che continuate a fare per la tutela e la rappresentanza delle vittime di infortuni sul lavoro, delle vedove e degli orfani dei caduti. Ancora ho in mente i cinque fratelli ammazzati da un treno mentre stavano lavorando. Grazie perché tenete alta l’attenzione sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, dove accadono ancora troppe morti e disgrazie. Grazie per le iniziative che promuovete per migliorare la legislazione civile in materia di infortuni sul lavoro e di reinserimento professionale delle persone che si trovano in condizione di invalidità. Si tratta, infatti, non solo di garantire la giusta cura assistenziale e previdenziale verso chi soffre forme di disabilità, ma anche di dare nuove opportunità a persone che possono essere reinserite e la cui dignità chiede di essere riconosciuta in pienezza. Grazie, infine, per la vostra opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla prevenzione degli infortuni e sulle politiche della sicurezza, in particolare in favore delle donne e dei giovani. Le tragedie e i drammi nei luoghi di lavoro purtroppo non cessano, nonostante la tecnologia di cui disponiamo per favorire luoghi e tempi sicuri. A volte sembra di sentire un bollettino di guerra. Questo accade quando il lavoro si disumanizza e, anziché essere lo strumento con cui l’essere umano realizza sé stesso mettendosi a disposizione della comunità, diventa una corsa esasperata al profitto. E questo è brutto. Le tragedie iniziano quando il fine non è più l’uomo, ma la produttività, e l’uomo diventa una macchina di produzione. Amici, i compiti educativi e formativi che vi aspettano sono ancora fondamentali, sia nei riguardi dei lavoratori, sia dei datori di lavoro, sia all’interno della società. La sicurezza sul lavoro è come l’aria che respiriamo: ci accorgiamo della sua importanza solo quando viene tragicamente a mancare, ed è sempre troppo tardi!
La parabola del Buon Samaritano (cfr Lc 10,30-37) si ripete: davanti alle persone ferite e che rischiano l’abbandono sul ciglio della strada della vita possiamo fare come quei due personaggi religiosi, il sacerdote e il levita che, per non contaminarsi, non si fermano e tirano dritto, nell’indifferenza. E nel mondo del lavoro a volte succede proprio così: si va avanti, come se nulla fosse, devoti all’idolatria del mercato. Ma non possiamo abituarci agli incidenti sul lavoro, né rassegnarci all’indifferenza verso gli infortuni. Non possiamo accettare lo scarto della vita umana. Le morti e gli infortuni sono un tragico impoverimento sociale che riguarda tutti, non solo le imprese o le famiglie coinvolte. Non dobbiamo stancarci di imparare e reimparare l’arte del prenderci cura, in nome della comune umanità. La sicurezza, infatti, non è solo garantita da una buona legislazione, che va fatta rispettare, ma anche dalla capacità di vivere da fratelli e sorelle nei luoghi di lavoro.
L’Apostolo Paolo, riflettendo sul valore della corporeità, pone una domanda estremamente attuale: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi». E conclude: «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1 Cor 6,19-20). San Paolo si riferisce all’affettività, ma possiamo allargare lo sguardo anche al mondo del lavoro. Se il corpo è tempio dello Spirito Santo, significa che, curandone le fragilità, rendiamo lode a Dio. L’umanità è dunque “luogo di culto” e la cura è l’atteggiamento con cui collaboriamo all’opera stessa del Creatore. A tanto arriva la fede cristiana: la centralità della persona, in quanto tempio dello Spirito Santo, non conosce scarti, non conosce compravendite o baratti sulla vita umana. Non si può, in nome di un maggior profitto, chiedere troppe ore lavorative, facendo diminuire la concentrazione, oppure pensare di annoverare le forme assicurative o le richieste di sicurezza come spese inutili e perdite di guadagno.
La sicurezza sul lavoro è parte integrante della cura della persona. Anzi, per un datore di lavoro, è il primo dovere e la prima forma di bene. Sono invece diffuse forme che vanno in senso opposto e che in una parola si possono chiamare di carewashing. Accade quando imprenditori o legislatori, invece di investire sulla sicurezza, preferiscono lavarsi la coscienza con qualche opera benefica. È brutto. Così antepongono la loro immagine pubblica a tutto il resto, facendosi benefattori nella cultura o nello sport, nelle opere buone, rendendo fruibili opere d’arte o edifici di culto, ma non prestando attenzione al fatto che, come insegna un grande padre e dottore della Chiesa, «la gloria di Dio è l’uomo vivente» (Sant’Ireneo di Lione, Contro le eresie, IV,20,7). Questo è il primo lavoro: prendersi cura dei fratelli e delle sorelle, del corpo dei fratelli e delle sorelle. La responsabilità verso i lavoratori è prioritaria: la vita non si smercia per alcuna ragione, tanto più se è povera, precaria e fragile. Siamo esseri umani e non macchinari, persone uniche e non pezzi di ricambio. E tante volte alcuni operatori sono trattati come pezzi di ricambio.
Per questo, rinnovo la mia gratitudine per il vostro impegno e vi incoraggio ad andare avanti, per aiutare la società a progredire dal punto di vista culturale, a comprendere che l’essere umano viene prima dell’interesse economico, che ogni persona è un dono per la comunità e che mutilarne o renderne invalida una sola ferisce l’intero tessuto sociale. Vi affido alla protezione di San Giuseppe, patrono di tutti i lavoratori. Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E voi, per favore, pregate per me, ne ho bisogno. Grazie!
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Saluto il Card. Vérgez, Presidente del Governatorato, Suor Raffaella Petrini, Segretario Generale, il Padre Generale Fra Jesús Etayo Arrondo, il Consiglio, il Direttore Fra Thomas Binish, con i consacrati dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio e tutti voi, cari collaboratori e dipendenti della Farmacia Vaticana.
È bello incontrarvi nell’approssimarsi del 150° anniversario della sua fondazione. Andando alle radici della vostra storia, mi piace ricordare che l’istituzione realizzò un sogno di Papa Gregorio XVI, monaco camaldolese che aveva ben presente l’importanza della farmacia annessa al monastero. Fu poi il Beato Pio IX a realizzare questo sogno, affidando al Superiore Generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio il compito di dare vita a una farmacia in Vaticano. L’Ordine, infatti, vantava una lunga tradizione in tale ambito, con la farmacia della casa religiosa che in molti luoghi svolgeva anche un servizio per le persone esterne. Venne così scelto come primo farmacista fra Eusebio Frommer, religioso dei Fatebenefratelli, ed ebbe inizio la vostra storia, unica nel suo genere. 150 anni fa!
Sempre facendo memoria, quasi sfogliando un album di fotografie insieme, è bene ricordare un momento importante, cioè il servizio del vostro Ordine durante il Vaticano II. Ogni mattina, prima dell’inizio delle sedute conciliari, il locale della Farmacia era affollato da Vescovi di ogni nazionalità per l’acquisto dei medicinali e, mentre un piccolo gruppo di consacrati cercava di soddisfare le richieste nelle diverse lingue, altri due religiosi infermieri erano presenti nelle postazioni fisse di pronto soccorso insieme a un medico e due barellieri, per qualunque altra esigenza.
E veniamo ai nostri giorni, adesso, con la vostra Farmacia che non si differenzia dalle altre solo perché si dedica al servizio diretto del Successore di Pietro e della Curia Romana, ma anche perché è chiamata a un “supplemento di carità”, svolgendo un servizio che, oltre alla vendita dei farmaci, è tenuto a distinguersi per l’attenzione alle persone più fragili e per la cura di chi si trova nella malattia. È un impegno rivolto non soltanto ai dipendenti vaticani e ai residenti nella Città del Vaticano, ma anche a chi ha bisogno di medicinali particolari, spesso difficilmente reperibili altrove.
Vorrei dirvi grazie per questo: grazie ai Fatebenefratelli, ai collaboratori laici, ai farmacisti e ai dipendenti, a chi lavora nei magazzini e a tutti coloro che collaborano a quest’opera. Grazie per la vostra professionalità e dedizione, ma anche per lo spirito di accoglienza e disponibilità con cui svolgete il vostro compito, che talvolta richiede fatica e – come successo specialmente durante la pandemia – disponibilità al sacrificio.
Non è facile per voi, e non lo è più in generale per i farmacisti, a cui penso in questo momento e ai quali vorrei dedicare un pensiero. Presso di loro giungono tante persone, specialmente anziane, che spesso, nei ritmi frenetici di oggi, hanno bisogno, oltre che di una medicina, di un’attenzione, di un sorriso; hanno bisogno di un orecchio, di una parola di conforto. Non dimenticate questo: l’apostolato delle orecchie. Ascoltare, ascoltare… Sembra noioso, alcune volte, ma per la persona che parla è una carezza di Dio tramite voi. E i farmacisti sono questa mano vicina, tesa, che non passa solo i medicinali, ma trasmette coraggio e vicinanza. Grazie a voi e a tutti i farmacisti per questo! Il vostro non è un mestiere, è una missione. Grazie.
Care sorelle e fratelli, andate avanti: voi, comunità dei Fatebenefratelli, farmacisti, collaboratori e dipendenti, con generosità, perché ogni giorno potete fare tanto bene, sia per rendere il servizio della Farmacia Vaticana sempre più efficiente e moderno, sia per manifestare quella cura attenta e quell’accoglienza premurosa che sono testimonianza del Vangelo per quanti entrano a contatto con voi.
Abbiate tanta pazienza, ricordando che la pazienza è la cartina di tornasole dell’amore. E, infine, un piccolo consiglio spirituale: ogni tanto alzate gli occhi verso il Crocifisso, volgendo lo sguardo al Dio piagato e ferito. Il servizio che fate ai malati è servizio fatto a Lui. Ed è bello attingere dal Medico celeste pazienza e benevolenza, e la forza di amare, senza stancarsi. Alla sua scuola, dalla cattedra della croce al bancone della farmacia, anche voi possiate essere ogni giorno dispensatori di misericordia. Vi benedico e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.
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OTTOBRE
Cari fratelli e sorelle, saluto cordialmente tutti voi, riuniti a Roma in questo importante incontro che vede la presenza di coltivatori e imprenditori del settore agricolo provenienti dalle diverse regioni d’Italia.
Nell’Enciclica Mater et Magistra, San Giovanni XXIII volle sottolineare il valore arricchente del lavoro agricolo ai fini della promozione integrale della persona, tanto sul piano umano, come eminente via di realizzazione individuale e di sviluppo comunitario, quanto sul piano dello spirito, come partecipazione all’attuazione del disegno provvidenziale di Dio nella storia.
Il lavoro agricolo – affermava il Sommo Pontefice – «va concepito e vissuto come una vocazione e come una missione» [1], in quanto getta luce sulla dimensione “responsoriale” della chiamata dell’uomo a far progredire il Regno dei cieli.
La creazione, infatti, è stata voluta da Dio come un dono e un’eredità affidati all’uomo [2]. Fatta nel Verbo eterno e per mezzo di esso, essa non è uscita dalle mani del Creatore già “finita”, ma «in stato di via», cioè aperta e diretta ad un compimento. Nel consegnarla all’uomo, come un bene da custodire, Dio ha disposto che egli contribuisse ad indirizzarla a quella perfezione cui essa è destinata e che sarà raggiunta alla fine dei tempi [3]. Dunque, rispondere all’invito di Dio, originario e sempre attuale, di far germogliare e fruttificare la terra, di trasformarla con rispetto e cura, significa cooperare al progetto iniziale di Dio.
Il libro della Genesi evidenzia sin da subito come nel lavoro agricolo sia stata offerta all’uomo la possibilità di educarsi a riconoscere nel creato il segno dell’alleanza che Dio aveva stretto con lui. Dopo aver fatto il cielo e la terra, il Signore si accorse che la terra era arida e spoglia, senza erba campestre, non soltanto perché Egli non aveva fatto piovere, ma anche perché non c’era nessuno che lavorasse il terreno, né che facesse salire dalla terra l’acqua nei canali per poter irrigare il suolo (cfr. Gen 2,4-6). Dio, allora, plasmò l’uomo con polvere del suolo, lo animò con il suo soffio vitale, e piantò un meraviglioso giardino affinché «lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).
L’uomo è chiamato da Dio a svolgere con intelligenza un’attività tecnica a cui è associato il dovere di una custodia, non solo materiale, ma anche morale. Nel racconto di Genesi, imparare a conoscere le leggi dell’agricoltura, costruire canali per modificare il corso dei fiumi, sono lavori da compiere in vista di un duplice vantaggio: rendere la terra più bella e feconda, nel mentre la si rende più umana, più accogliente e ospitale per la vita dei suoi abitanti. Mentre l’uomo lavora, cambia il mondo, ma cambia anche sé stesso diventando più responsabile e generoso.
Il dinamismo operoso e generativo del lavoro agricolo si chiarisce ulteriormente alla luce della rivelazione del Vangelo di Cristo: il comando di Dio di «dominare la terra» (Gen 1,26) si declina come partecipazione alla regalità del Signore crocifisso e risorto, nella logica dell’amore che si fa servizio e che libera il mondo dalla corruzione e dalla caducità del peccato (cfr. Rm 8,19-20).
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Piazza San Pietro
Domenica, 22 ottobre 2023
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo della Liturgia odierna ci racconta che alcuni farisei si uniscono agli erodiani per tendere una trappola a Gesù. Sempre cercavano di tendergli delle trappole. Vanno da Lui e gli chiedono: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Mt 22,17). È un inganno: se Gesù legittima la tassa, si mette dalla parte di un potere politico mal sopportato dal popolo, mentre se dice di non pagarla può essere accusato di ribellione contro l’impero. Una vera trappola. Egli però sfugge a questa insidia. Chiede di mostrargli una moneta, che porta impressa l’immagine di Cesare, e dice loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v. 21). Che cosa significa questo?
Queste parole di Gesù sono diventate di uso comune, ma a volte sono state utilizzate in modo sbagliato – o almeno riduttivo – per parlare dei rapporti tra Chiesa e Stato, tra cristiani e politica; spesso vengono intese come se Gesù volesse separare “Cesare” e “Dio”, cioè la realtà terrena e quella spirituale. A volte anche noi pensiamo così: una cosa è la fede con le sue pratiche e un’altra cosa la vita di tutti i giorni. E questo non va. Questa è una “schizofrenia”, come se la fede non avesse nulla a che fare con la vita concreta, con le sfide della società, con la giustizia sociale, con la politica e così via.
In realtà, Gesù vuole aiutarci a collocare “Cesare” e “Dio” ciascuno nella sua importanza. A Cesare – cioè alla politica, alle istituzioni civili, ai processi sociali ed economici – appartiene la cura dell’ordine terreno; e noi, che in questa realtà siamo immersi, dobbiamo restituire alla società quanto ci offre attraverso il nostro contributo di cittadini responsabili, avendo attenzione a quanto ci viene affidato, promuovendo il diritto e la giustizia nel mondo del lavoro, pagando onestamente le tasse, impegnandoci per il bene comune, e così via. Allo stesso tempo, però, Gesù afferma la realtà fondamentale: che a Dio appartiene l’uomo, tutto l’uomo e ogni essere umano. E ciò significa che noi non apparteniamo a nessuna realtà terrena, a nessun “Cesare” di turno. Siamo del Signore e non dobbiamo essere schiavi di nessun potere mondano. Sulla moneta, dunque, c’è l’immagine dell’imperatore, ma Gesù ci ricorda che nella nostra vita è impressa l’immagine di Dio, che niente e nessuno può oscurare. A Cesare appartengono le cose di questo mondo, ma l’uomo e il mondo stesso appartengono a Dio: non dimentichiamolo!
Comprendiamo allora che Gesù sta riportando ciascuno di noi alla propria identità: sulla moneta di questo mondo c’è l’immagine di Cesare, ma tu – io, ognuno di noi – quale immagine porti dentro di te? Facciamoci questa domanda: io, quale immagino porto dentro di me? Tu, di chi sei immagine nella tua vita? Ci ricordiamo di appartenere al Signore, oppure ci lasciamo plasmare dalle logiche del mondo e facciamo del lavoro, della politica, dei soldi i nostri idoli da adorare?
La Vergine Santa ci aiuti a riconoscere e onorare la nostra dignità e quella di ogni essere umano.
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NOVEMBRE
Cari fratelli e sorelle, benvenuti!
Sono contento di incontrarvi, quali membri della Federazione Italiana Medici Pediatri e dell’Associazione Otorinolaringologi Ospedalieri Italiani, e di esprimervi il mio apprezzamento per il vostro lavoro quotidiano. Infatti, nelle vostre diverse specializzazioni, avete scelto di lavorare al servizio delle persone bisognose di cure. È bello, questo!
Voi pediatri, in particolare, siete punti di riferimento per le giovani coppie. Li aiutate nel loro compito di accompagnare i bambini nella crescita. I figli sono sempre un dono e una benedizione del Signore: nei Salmi c’è quella bella immagine della famiglia riunita intorno alla mensa con i figli «come virgulti d’ulivo» (Sal 128,3). L’Italia purtroppo è un Paese che invecchia: speriamo che si possa invertire la tendenza, creando condizioni favorevoli perché i giovani abbiano più fiducia e ritrovino il coraggio e la gioia di diventare genitori. Forse questo non dovrei dirlo, ma lo dico: oggi si preferisce avere un cagnolino che un figlio. Il vostro compito è molto limitato, ma cresce quello dei veterinari! E questo non è un buon segnale.
Voi, medici otorinolaringoiatri, curate alcuni organi che sono necessari alle nostre relazioni e ci tengono in contatto con gli altri e con la comunità. Nel Vangelo vediamo Gesù accostarsi a persone sorde, mute, che vivevano nella solitudine e nell’isolamento. E osserviamo che nel guarirle compie un gesto e pronuncia parole particolari. Penso che questi gesti e queste parole possano essere di ispirazione per voi, perché in esse traspare la compassione e la tenerezza di Dio per noi, specialmente per chi vive la fatica della relazione.
Insieme ai tanti professionisti della sanità, voi costituite una delle colonne portanti del Paese. È ancora bruciante il ricordo della pandemia: senza la dedizione, il sacrificio e l’impegno degli operatori sanitari, molte più vite sarebbero andate perdute. A distanza di tre anni, la situazione della sanità in Italia si trova ad attraversare una nuova fase di criticità che sembra diventare strutturale. Si registra una costante carenza di personale, che porta a carichi di lavoro ingestibili e alla conseguente fuga dalle professioni sanitarie. La perdurante crisi economica incide sulla qualità della vita dei pazienti e dei medici: quante diagnosi precoci non vengono fatte? Quante persone rinunciano a curarsi? Quanti medici e infermieri, sfiduciati e stanchi, abbandonano o preferiscono andare a lavorare all’estero?
(…)
L’ultima cosa. Chi è chiamato a prendersi cura degli altri, non deve trascurare di avere cura di sé. In questi ultimi anni, la resistenza dei medici, degli infermieri, dei professionisti sanitari è stata messa a dura prova. Sono necessari interventi che diano dignità al vostro lavoro e favoriscano le migliori condizioni perché possa essere svolto nel modo più efficace. Tante volte voi siete vittime!
Vi ringrazio anche per il vostro impegno associativo: è importante. Incoraggio i giovani a intraprendere questa strada professionale, che è un modo esigente di lavorare prendendosi cura del prossimo.
Cari fratelli e sorelle, vi accompagni la materna intercessione della Vergine Maria. Vi benedico di cuore, insieme alle vostre famiglie. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.
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DICEMBRE
Cari amici!
Sono contento di condividere qualche parola con voi sul tema del lavoro. Ho provato a immaginare come voi, giovani della nostra città, vi poniate davanti al mondo del lavoro, quali speranze e paure coltiviate. Mi è venuta in mente un’immagine, quella di un grande cantiere: ce ne sono tanti in questo momento a Roma! È un’immagine che rivela due aspetti contrastanti: da una parte un cantiere, quando non c’è chi vi lavora, offre a chi guarda un senso di vuoto; dall’altra, quando è attivo, mostra la corsa febbrile di tante persone coinvolte. Ecco, vedo così il lavoro oggi: come un bel cantiere aperto per costruire il futuro, all’interno del quale, però, si respira, da una parte, un senso di vuoto e dall’altra un sovraccarico di stress dato da corse febbrili.
Un senso di vuoto: la parola “lavoro” oggi, purtroppo, ne evoca spesso la mancanza, e ciò rappresenta una grave ferita alla dignità di tante persone. Ma la dignità è ferita anche quando il lavoro non è sufficientemente stabile e compromette progetti e scelte di vita, come la creazione di una famiglia e il desiderio dei figli. Questo “vuoto di lavoro” è come un terreno che frana sotto i piedi, costringendo a camminare in equilibrio precario: non succede forse così, tra tirocini, stage, lavori saltuari e interinali? E ancora: com’è possibile entrare degnamente nel cantiere del lavoro, se prima ancora, negli anni dello studio e della specializzazione, si è costretti a lottare per avere diritto a un tetto sotto cui dormire? Davanti a questo senso di vuoto tanti, spesati e demotivati, rinunciano e vanno altrove, ma ciò, oltre a provocare amarezza, costituisce una sconfitta, perché le risorse non mancano e vanno impiegate per realizzare sogni concreti, come quello di un lavoro stabile e duraturo, di una famiglia da formare, di tempo da dedicare gratuitamente agli altri nel volontariato. Occorre soprattutto contrastare la percezione di vuoto che si insidia nel cuore di molti giovani, i quali, mentre il tempo passa, vedono crescere l’impressione di non arrivare da nessuna parte ed ereditano da noi adulti un messaggio nocivo: che nella vita non ci sia nulla di stabile. Contratti a termine, lavori così brevi che impediscono di progettare la vita, bassi redditi e basse tutele sembrano i muri di un labirinto dal quale non si riesce a trovare via d’uscita. Cari giovani, serve come il pane qualcuno che vi prenda per mano e vi aiuti a sconfiggere questa precarietà e questo senso di vuoto, tirandovi fuori dalle sabbie mobili dell’insicurezza: per questo vorrei dirvi che mi sta a cuore la vostra iniziativa!
Essa può aiutarvi a riflettere anche sull’estremo opposto al senso di vuoto: quella corsa febbrile presente oggi nel cantiere del lavoro, dove il tempo sembra non bastare mai e gli imperativi della produttività diventano sempre più esigenti e travolgenti. Se prima vi parlavo di “lavoro che manca”, qua si tratta di “lavoro che schiaccia”: pressione costante, ritmi forzati, stress che provoca ansia, spazio relazionale sempre più sacrificato in nome del profitto a tutti i costi. È il lavoro “mercificato”, che cresce nel nostro contesto, dominato da un mercato che per essere competitivo si fa sempre più accelerato e complesso. Con alcune prospettive cupe in agguato: quella dell’illegalità, via di fuga dalla responsabilità verso il lavoro in nero, che poi finisce per rendere la coscienza dello stesso colore; quella di un lavoro disumanizzato, dove le moderne tecnologie, come l’intelligenza artificiale e la robotica, minacciano di sostituire la presenza dell’uomo; quella, infine, sempre più scandalosa e preoccupante, della mancanza di sicurezza sul lavoro, effetto della corsa febbrile a produrre di più ad ogni costo. Quante vittime ci sono ancora sul posto di lavoro!
Cari amici, anche se il cantiere del lavoro presenta oggi queste situazioni, io vorrei invitarvi a non perdere la speranza, perché il lavoro conserva sempre in sé una vocazione unica e insostituibile, quella alla speranza. La speranza, infatti, non è ottimismo che dipende dalle circostanze, ma fiducia che si ingenera attraverso la costruzione impegnata e partecipe del bene comune. Il lavoro, dunque, è protagonista di speranza, è la via maestra per sentirsi attivi nel bene in quanto servitori della comunità, perché occuparsi degli altri è il miglior modo per non preoccuparsi di cose inutili. Torni il lavoro a essere un cantiere di speranza, un cantiere di sogni! Voi siete insieme per consolidare un progetto, il cui nome mi piace molto: “Il cantiere Generiamo lavoro”. Generare è il verbo della vita ed è bello che il lavoro sia, prima che produttivo, generativo: esso, infatti, non è un accessorio, ma una componente essenziale dell’esistenza, in quanto conferisce dignità e speranza.
Il vostro evento si propone questa visione generativa, motivandovi e facendovi riflettere, e anche promuovendo accompagnamenti concreti, per aiutarvi a comprendere il quadro occupazionale del territorio e coglierne le opportunità, per farvi acquisire capacità e strumenti in modo da entrare con più competenza nell’ambito lavorativo. Apprezzo, in particolare, un aspetto: la volontà di creare un tessuto stabile o, come dite voi, di stabilire connessioni durature: infatti “Labordì” coinvolge la Chiesa, il mondo dell’istruzione, le istituzioni, il terzo settore, i sindacati, le associazioni, gli imprenditori e le aziende, che hanno bisogno di cogliere la ricchezza dei giovani e dei loro sogni. Quanto è importante pensare e progettare insieme il lavoro, senza contrapposizioni ideologiche e isolamenti sterili: non la logica delle tifoserie, ma quella della collaborazione porterà frutto. Lo farà se si guarderà alle persone concrete, non agli interessi di parte. Questo approccio comune oggi è l’unico in grado di affrontare compiutamente le grandi questioni italiane, come la crisi della natalità, la questione ambientale e, appunto, il lavoro.
Auguri, dunque, per questa giornata! Apra cantieri di speranza, che permettano a voi e a tanti altri giovani di abbracciare la bellezza di un lavoro dignitoso. Sono con voi e vi benedico di cuore.
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Carissimi,
vi saluto e vi do il benvenuto, contento di incontrarvi nell’imminenza del Santo Natale.
Voi appartenete a un organo vaticano istituito, assieme ad altri, nove anni fa, con il Motu Proprio Fidelis dispensator et prudens, con cui ho voluto varare alcune riforme economiche, in continuità con l’opera già avviata da Papa Benedetto XVI. Un organo le cui funzioni sono state poi meglio definite nei successivi Statuti e ribadite nella Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium. Dei vari aspetti e valori che vi caratterizzano, vorrei brevemente richiamarne tre: l’indipendenza, l’attenzione alle pratiche internazionali e la professionalità.
Primo: l’indipendenza. L’Ufficio del Revisore Generale non dipende gerarchicamente da altri Enti. Questo però, lungi dal voler dire arbitrarietà, implica la responsabilità di un’azione sempre ben ponderata e ispirata al sommo principio della carità. È importante che a guidarvi sia sempre lo spirito della correzione fraterna, anche quando è necessario segnalare pratiche contabili e amministrative non conformi alle regole e situazioni da correggere. La Parola di Dio ci insegna che «il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto» (Pr 3,12). Ricordiamo queste parole che accompagnano la correzione: amore e paternità, sempre, senza cedere alla tentazione di facili protagonismi. In merito a questo, poi, è bene ricordare, in spirito sinodale, l’importanza della collaborazione del vostro Ufficio con gli altri Dicasteri della Curia e in particolare con gli organismi economici, evitando “competizioni” che possono facilmente trasformarsi in rivalità, anche a livello personale.
Secondo: l’attenzione alle pratiche internazionali. È importante promuovere l’applicazione delle migliori di esse, per favorire l’equità e per essere allineati con il resto della Comunità internazionale, sempre che – ovviamente – le norme non siano in contraddizione con gli insegnamenti della Chiesa.
Terzo: la professionalità. Avete un notevole bagaglio professionale, acquisito in importanti organizzazioni. In alcuni casi, si tratta di decenni di esperienza di lavoro ad alto livello, e vi ringrazio per aver deciso di mettere tutto questo a servizio della Santa Sede. So che al fine di mantenere elevati standard professionali investite molto nella formazione, ed è un bene. Direi anzi che per voi è un vero e proprio obbligo morale essere aggiornati circa la continua evoluzione delle numerose e complesse norme che disciplinano la revisione.
L’Ufficio del Revisore Generale, inoltre, è una tra le Autorità Anticorruzione, ai sensi della Convenzione di Mérida, cui la Santa Sede ha aderito nel 2016 anche a nome dello Stato della Città del Vaticano. Certamente quanti lavorano presso la Santa Sede e lo Stato della Città del Vaticano lo fanno con fedeltà e onestà, ma la lusinga della corruzione è così pericolosa che occorre ben vigilare. So che dedicate molta attenzione a questo, con un lavoro i cui frutti sono gestiti al tempo stesso con fermezza e misericordiosa discrezione perché, ferma restando l’esigenza di un’assoluta trasparenza in ogni azione, gli scandali servono più a riempire le pagine dei giornali che a correggere in profondità i comportamenti. Vi invito, oltre a ciò, ad aiutare i responsabili dell’amministrazione dei beni della Santa Sede a creare presidi che possano evitare, “a monte”, che l’insidia stessa della corruzione si concretizzi.
Carissimi, voglio aggiungere una cosa che va al di là del vostro lavoro. So che alcuni di voi prestano servizio alla mensa della Caritas. È una bella cosa, e vi dico: fatelo con cuore aperto, con semplicità e gratuità, e trovate il tempo per parlare con queste persone e per ascoltare le loro storie. Spesso si incontrano persone che hanno bisogno di amicizia, ma che vengono lasciate sole. Tante volte un sorriso e una parola valgono anche più di un piatto di pasta.
Vi ringrazio per il vostro lavoro, e faccio a voi e alle vostre famiglie tanti auguri per il Santo Natale. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Prima di tutto vorrei ringraziare il Cardinale Re per le sue parole; e anche per l’energia: un novantenne con questa energia! Avanti, coraggio! Grazie.
Il Mistero del Natale ridesta il nostro cuore allo stupore – parola chiave – di un annuncio inatteso: Dio viene, Dio è qui in mezzo a noi e la Sua luce ha squarciato per sempre le tenebre del mondo. Abbiamo bisogno di ascoltare e ricevere sempre questo annuncio, soprattutto in un tempo ancora tristemente segnato dalle violenze della guerra, dai rischi epocali a cui siamo esposti a causa dei cambiamenti climatici, dalla povertà, dalla sofferenza, dalla fame – c’è fame nel mondo! – e da altre ferite che abitano la nostra storia. È confortante scoprire che anche in questi “luoghi” di dolore come in tutti gli spazi della nostra fragile umanità, Dio si fa presente in questa culla, la mangiatoia che oggi Egli sceglie per nascere e per portare a tutti l’amore del Padre; e lo fa con lo stile di Dio: vicinanza, compassione, tenerezza.
Carissimi, abbiamo bisogno di ascoltare l’annuncio del Dio che viene, di discernere i segni della Sua presenza e di deciderci per la Sua Parola camminando dietro a Lui. Ascoltare, discernere, camminare: tre verbi per il nostro itinerario di fede e per il servizio che svolgiamo qui nella Curia. Vorrei consegnarveli attraverso alcuni dei personaggi principali del Santo Natale.
Anzitutto Maria, che ci ricorda l’ascoltare. La fanciulla di Nazaret, che stringe fra le braccia Colui che è venuto ad abbracciare il mondo, è la Vergine dell’ascolto perché ha prestato l’orecchio all’annuncio dell’Angelo e ha aperto il cuore al progetto di Dio. Ella ci ricorda che il primo grande comandamento è «Ascolta Israele» (Dt 6,4), perché prima di ogni precetto è importante entrare in relazione con Dio, accogliendo il dono del suo amore che ci viene incontro. Ascoltare, infatti, è un verbo biblico che non si riferisce soltanto all’udito, ma implica il coinvolgimento del cuore e quindi della vita stessa. San Benedetto inizia così la sua Regola: «Ascolta attentamente, o figlio» (Regola, Prologo, 1). Ascoltare con il cuore è molto più che udire un messaggio o scambiarsi delle informazioni; si tratta di un ascolto interiore capace di intercettare i desideri e i bisogni dell’altro, di una relazione che ci invita a superare gli schemi e a vincere i pregiudizi in cui a volte incaselliamo la vita di chi ci sta accanto. Ascoltare è sempre l’inizio di un cammino. Il Signore chiede al suo popolo questo ascolto del cuore, una relazione con Lui, che è il Dio vivente.
E questo è l’ascolto della Vergine Maria, che riceve l’annuncio dell’Angelo con apertura, totale apertura, e proprio per questo non nasconde il turbamento e le domande che esso suscita in lei; ma si coinvolge con disponibilità nella relazione con Dio che l’ha scelta, accogliendo il suo progetto. C’è un dialogo e c’è un’obbedienza. Maria capisce di essere destinataria di un dono inestimabile e, “in ginocchio”, cioè con umiltà e stupore, si mette in ascolto. Ascoltare “in ginocchio” è il modo migliore per ascoltare davvero, perché significa che non stiamo davanti all’altro nella posizione di chi pensa di sapere già tutto, di chi ha già interpretato le cose prima ancora di ascoltare, di chi guarda dall’alto in basso ma, al contrario, ci si apre al mistero dell’altro, pronti a ricevere con umiltà quanto vorrà consegnarci. Non dimentichiamo che soltanto in una occasione è lecito guardare una persona dall’alto in basso: soltanto per aiutarla a sollevarsi. È l’unica occasione in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso.
A volte, anche nella comunicazione tra di noi, rischiamo di essere come dei lupi rapaci: cerchiamo subito di divorare le parole dell’altro, senza ascoltarle davvero, e immediatamente gli rovesciamo addosso le nostre impressioni e i nostri giudizi. Invece, per ascoltarsi c’è bisogno di silenzio interiore, ma anche di uno spazio di silenzio tra l’ascolto e la risposta. Non è un “ping pong”. Prima si ascolta, poi nel silenzio si accoglie, si riflette, si interpreta e, soltanto dopo, possiamo dare una risposta. Tutto questo lo si impara nella preghiera, perché essa allarga il cuore, fa scendere dal piedistallo il nostro egocentrismo, ci educa all’ascolto dell’altro e genera in noi il silenzio della contemplazione. Impariamo la contemplazione nella preghiera, stando in ginocchio davanti al Signore, ma non solo con le gambe, stando in ginocchio con il cuore! Anche nel nostro lavoro di Curia, «abbiamo bisogno di implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale. […] È urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri» (Evangelii gaudium, 264).
Fratelli e sorelle, anche nella Curia c’è bisogno di imparare l’arte dell’ascolto. Prima dei nostri doveri quotidiani e delle nostre attività, soprattutto prima dei ruoli che rivestiamo, occorre riscoprire il valore delle relazioni, e cercare di spogliarle dai formalismi, di animarle di spirito evangelico, anzitutto ascoltandoci a vicenda. Con il cuore e in ginocchio. Ascoltiamoci di più, senza pregiudizi, con apertura e sincerità; con il cuore in ginocchio. Ascoltiamoci, cercando di capire bene cosa dice il fratello, di cogliere i suoi bisogni e in qualche modo la sua stessa vita, che si nasconde dietro quelle parole, senza giudicare. Come saggiamente consiglia Sant’Ignazio: «È da presupporre che un buon cristiano deve essere propenso a difendere piuttosto che a condannare l’affermazione di un altro. Se non può difenderla, cerchi di chiarire in che senso l’altro la intende; se la intende in modo erroneo, lo corregga benevolmente; se questo non basta, impieghi tutti i mezzi opportuni perché la intenda correttamente, e così possa salvarsi» (Esercizi Spirituali, 22). È tutto un lavoro per capire bene l’altro. E lo ripeto: ascoltare è diverso da udire. Camminando per le strade delle nostre città possiamo udire molte voci e molti rumori, eppure generalmente non li ascoltiamo, non li interiorizziamo e non ci restano dentro. Una cosa è semplicemente udire, un’altra cosa è mettersi in ascolto, che significa anche “accogliere dentro”.
L’ascolto reciproco ci aiuta a vivere il discernimento come metodo del nostro agire. E qui possiamo fare riferimento a Giovanni il Battista. Prima la Madonna che ascolta, adesso Giovanni che discerne. Noi conosciamo la grandezza di questo profeta, l’austerità e la veemenza della sua predicazione. Eppure, quando Gesù arriva e inizia il suo ministero, Giovanni attraversa una drammatica crisi di fede; egli aveva annunciato l’imminente venuta del Signore come quella di un Dio potente, che finalmente avrebbe giudicato i peccatori gettando nel fuoco ogni albero che non porta frutto e bruciando la paglia con un fuoco inestinguibile (cfr Mt 3,10-12). Ma questa immagine del Messia si frantuma dinanzi ai gesti, alle parole e allo stile di Gesù, dinanzi alla compassione e alla misericordia che Egli usa verso tutti. Allora il Battista sente di dover fare discernimento per ricevere occhi nuovi. Il Vangelo ci dice infatti: «Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,2-3). Insomma, Gesù non era come se lo aspettava e, perciò anche il Precursore deve convertirsi alla novità del Regno, deve avere l’umiltà e il coraggio di fare discernimento.
Ecco, per tutti noi è importante il discernimento, questa arte della vita spirituale che ci spoglia della pretesa di sapere già tutto, dal rischio di pensare che basta applicare le regole, dalla tentazione di procedere, anche nella vita della Curia, semplicemente ripetendo degli schemi, senza considerare che il Mistero di Dio ci supera sempre e che la vita delle persone e la realtà che ci circonda sono e restano sempre superiori alle idee e alle teorie. La vita è superiore alle idee, sempre. Abbiamo bisogno di praticare il discernimento spirituale, di scrutare la volontà di Dio, di interrogare le mozioni interiori del nostro cuore, per poi valutare le decisioni da prendere e le scelte da compiere. Scriveva il Cardinal Martini: «Il discernimento è ben altro dalla puntigliosità meticolosa di chi vive nell’appiattimento legalistico o con la pretesa di perfezionismo. È uno slancio d’amore che pone la distinzione tra buono e migliore, tra utile in sé e utile adesso, tra ciò che in generale può andar bene e ciò che invece ora bisogna promuovere». E aggiungeva: «La mancata tensione per discernere il meglio rende spesso la vita pastorale monotona, ripetitiva: si moltiplicano azioni religiose, si ripetono gesti tradizionali senza vederne bene il senso» (Il Vangelo di Maria, Milano 2008, 21). Il discernimento deve aiutarci, anche nel lavoro della Curia, ad essere docili allo Spirito Santo, per poter scegliere gli orientamenti e prendere le decisioni non in base a criteri mondani, o semplicemente applicando dei regolamenti, ma secondo il Vangelo.
Ascoltare: Maria. Discernere: il Battista. E adesso la terza parola: camminare. E il pensiero va naturalmente ai Magi. Essi ci ricordano l’importanza del camminare. La gioia del Vangelo, quando la accogliamo davvero, innesca in noi il movimento della sequela, provocando un vero e proprio esodo da noi stessi e mettendoci in cammino verso l’incontro con il Signore e verso la pienezza della vita. L’esodo da noi stessi: un atteggiamento della nostra vita spirituale che dobbiamo sempre esaminare. La fede cristiana – ricordiamocelo – non vuole confermare le nostre sicurezze, farci accomodare in facili certezze religiose, regalarci risposte veloci ai complessi problemi della vita. Al contrario, quando Dio chiama suscita sempre un cammino, come è stato per Abramo, per Mosè, per i profeti e per tutti i discepoli del Signore. Egli ci mette in viaggio, ci trae fuori dalle nostre zone di sicurezza, mette in discussione le nostre acquisizioni e, proprio così, ci libera, ci trasforma, illumina gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati (cfr Ef 1,18). Come afferma Michel de Certeau, «è mistico colui o colei che non può fermare il cammino. […] Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove» (Fabula Mistica. XVI-XVII secolo, Milano 2008, 353).
Anche nel servizio qui in Curia è importante restare in cammino, non smettere di cercare e di approfondire la verità, vincendo la tentazione di restare fermi e di “labirintare” dentro i nostri recinti e nelle nostre paure. Le paure, le rigidità, la ripetizione degli schemi generano staticità, che ha l’apparente vantaggio di non creare problemi – quieta non movere –, ci portano a girare a vuoto nei nostri labirinti, penalizzando il servizio che siamo chiamati a offrire alla Chiesa e al mondo intero. E restiamo vigilanti contro il fissismo dell’ideologia, che spesso, sotto la veste delle buone intenzioni, ci separa dalla realtà e ci impedisce di camminare. Invece siamo chiamati a metterci in viaggio e camminare, come fecero i Magi, seguendo la Luce che vuole sempre condurci oltre e che talvolta ci fa cercare sentieri inesplorati e ci fa percorrere strade nuove. E non dimentichiamo che il viaggio dei Magi – come ogni cammino che la Bibbia ci racconta – inizia sempre “dall’alto”, per una chiamata del Signore, per un segno che viene dal cielo o perché Dio stesso si fa guida che illumina i passi dei suoi figli. Perciò, quando il servizio che svolgiamo rischia di appiattirsi, di “labirintare” nella rigidità o nella mediocrità, quando ci troviamo ingarbugliati nelle reti della burocrazia e del “tirare a campare”, ricordiamoci di guardare in alto, di ripartire da Dio, di lasciarci rischiarare dalla sua Parola, per trovare sempre il coraggio di ripartire. E non dimentichiamo che dai labirinti si esce solo “da sopra”.
Ci vuole coraggio per camminare, per andare oltre. È questione di amore. Ci vuole coraggio per amare. Mi piace ricordare la riflessione di uno zelante sacerdote sull’argomento, che può aiutare anche noi nel nostro lavoro di Curia. Egli dice che si fa fatica a riaccendere le braci sotto la cenere della Chiesa. La fatica, oggi, è quella di trasmettere passione a chi l’ha già persa da un pezzo. A sessant’anni dal Concilio, ancora si dibatte sulla divisione tra “progressisti” e “conservatori”, ma questa non è la differenza: la vera differenza centrale è tra “innamorati” e “abituati”. Questa è la differenza. Solo chi ama può camminare.
Fratelli, sorelle, grazie per il vostro lavoro e per la vostra dedizione. Nel nostro lavoro, coltiviamo l’ascolto del cuore, mettendoci così a servizio del Signore imparando ad accoglierci, ad ascoltarci tra di noi; esercitiamoci nel discernimento, per essere una Chiesa, che cerca di interpretare i segni della storia con la luce del Vangelo, cercando soluzioni che trasmettono l’amore del Padre; e restiamo sempre in cammino, con umiltà e stupore, per non cadere nella presunzione di sentirci arrivati e perché non si spenga in noi il desiderio di Dio. E grazie tante a voi, soprattutto per il vostro lavoro svolto nel silenzio. Non dimentichiamoci: ascoltare, discernere, camminare. Maria, il Battista e i Magi.
Il Signore Gesù, Verbo Incarnato, ci doni la grazia della gioia nel servizio umile e generoso. E per favore, mi raccomando, non perdiamo il senso dell’umorismo, che è salute!
Auguri di un Santo Natale, anche per i vostri cari! E, davanti al presepe, fate una preghiera per me. Grazie tante.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Anche quest’anno il Natale ci fa ritrovare per scambiarci gli auguri. Grazie di essere venuti, anche con i vostri familiari!
Contemplando insieme il Mistero della nascita di Gesù è bello poter cogliere lo stile di Dio, che non è grandioso, non è rumoroso ma, al contrario, è lo stile del nascondimento e della piccolezza. Due parole importanti: nascondimento e piccolezza. Esse ci trasmettono il tratto mite di Dio, che non viene a noi per atterrirci con la sua grandezza o per imporsi con la sua magnificenza, ma si rende presente nel modo più comune possibile, facendosi uno di noi.
Nascondimento e piccolezza. Dio si nasconde nella piccolezza di un Bambino che nasce, in una coppia di sposi – Maria e Giuseppe – che non sta sotto i riflettori, nella povertà di una stalla perché non c’era posto per loro nell’alloggio. Questi sono i tratti distintivi del Figlio di Dio, che poi si presenta al mondo come un piccolo seme che muore nascosto nella terra per portare frutto. Egli è il Dio dei piccoli, il Dio degli ultimi e, con Lui, noi tutti impariamo la strada da seguire per entrare nel Regno di Dio: non una religiosità apparente e artificiale, ma il diventare piccoli come bambini.
Voi, carissimi, conoscete bene queste due parole. Il vostro lavoro qui in Vaticano si svolge per lo più nel nascondimento quotidiano, spesso portando avanti cose che possono sembrare insignificanti e che, invece, contribuiscono a offrire un servizio alla Chiesa e alla società. Vi ringrazio per questo, e vi auguro che possiate continuare il vostro lavoro con spirito di gratitudine, con serenità e con umiltà, e dando proprio lì, nelle relazioni con i vostri colleghi e colleghe, testimonianza cristiana. Anche qui, anzi, prima di tutto qui, c’è bisogno – vero? – di questa testimonianza cristiana. Guardate il nascondimento e la piccolezza di Gesù nella grotta; guardate la semplicità del presepe che avete fatto a casa; e state certi che il bene, anche quando è nascosto e invisibile, cresce senza fare rumore. Il bene cresce senza fare rumore, si moltiplica in modo inaspettato e diffonde il profumo della gioia. Non dimenticare questo: il bene cresce senza fare rumore e dà quella pace, quella gioia al cuore, che è tanto bella.
Questo stile – il nascondimento e la piccolezza – vorrei augurarlo anche alle vostre famiglie e ai vostri ragazzi. Oggi viviamo in un tempo che a volte appare ossessionato dall’apparire, tutti cercano di mettere in vetrina sé stessi. È il tempo del “trucco”: tutti si truccano, non solo la faccia, ma si truccano l’anima e questo è brutto, e cercano di mettere in vetrina sé stessi. Apparire, specialmente attraverso i cosiddetti social. È un po’ come volere dei preziosi bicchieri di cristallo senza preoccuparsi che il vino sia buono. Il vino buono lo si beve in un bicchiere comune. Ma in famiglia le apparenze e le maschere non contano – in famiglia si sa tutto –, o comunque durano poco; ciò che conta è che non venga a mancare il vino buono dell’amore, della tenerezza, della compassione reciproca. E questo è lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. E l’amore – lo sappiamo bene – non fa rumore. Lo viviamo nel nascondimento e nella piccolezza dei gesti quotidiani, nelle attenzioni che sappiamo scambiarci. Questo vi auguro: di essere attenti, nelle vostre case e nelle vostre famiglie, alle piccole cose di ogni giorno, ai piccoli gesti di gratitudine, alla premura del prendersi cura. Guardando il presepe possiamo immaginare la premura, la tenerezza di Maria e di Giuseppe per il Bambino che è nato. Voglio augurare questo stile a tutti voi.
Care sorelle e cari fratelli, vi porgo i migliori auguri di un santo Natale. È un augurio che estendo anche ai vostri bambini e ai ragazzi, ai vostri familiari, agli anziani che abitano con voi, specialmente ai vostri cari che sono malati. Fratelli e sorelle, apriamo il cuore alla gioia: il Signore viene in mezzo a noi! Buon Natale a tutti! E, per favore, pregate per me. Grazie!
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Cari fratelli e sorelle, buon Natale!
Lo sguardo e il cuore dei cristiani di tutto il mondo sono rivolti a Betlemme; lì, dove in questi giorni regnano dolore e silenzio, è risuonato l’annuncio atteso da secoli: «È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). Sono le parole dell’angelo nel cielo di Betlemme e sono rivolte anche a noi. Ci riempie di fiducia e di speranza sapere che il Signore è nato per noi; che la Parola eterna del Padre, il Dio infinito, ha fissato la sua dimora tra noi. Si è fatto carne, è venuto «ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14): ecco la notizia che cambia il corso della storia!
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Dal presepe, il Bambino ci chiede di essere voce di chi non ha voce: voce degli innocenti, morti per mancanza di acqua e di pane; voce di quanti non riescono a trovare un lavoro o l'hanno perso; voce di quanti sono obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli.
Fratelli e sorelle, si avvicina il tempo di grazia e di speranza del Giubileo, che inizierà tra un anno. Questo periodo di preparazione è occasione per convertire il cuore; per dire “no” alla guerra e “sì” alla pace ; per rispondere con gioia all'invito del Signore che ci chiama, come ancora profetizzò Isaia, «a portare il lieto annuncio ai miseri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi, / la scarcerazione dei prigionieri» ( Is 61,1).
Queste parole si sono compiute in Gesù (cfr Lc 4,18), nato oggi a Betlemme. Accogliamolo, apriamo il cuore a Lui, il Salvatore! Apriamo il cuore a Lui, il Salvatore, che è il Principe della pace!
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