GENNAIO
Eccellenza, distinte Autorità,
cari amici, benvenuti!
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Quanto lavoro in tutto questo, quanta dedizione e quanta fatica: da quella di chi ha costruito e ricostruito le strutture, a quella di autori ed artisti, a quella degli organizzatori dei vari eventi e a quella di tutti coloro, moltissimi, forse i più, che hanno lavorato, come si suol dire, “dietro le quinte”. Pensandoci, viene alla mente ciò che San Paolo dice della Chiesa, quando la paragona a un corpo che ha molte membra: ciascuna parte è complementare alle altre nella sua funzione specifica (cfr 1 Cor 12,1-27). Cento anni di arte, infatti, non può produrli una persona sola, e neanche un gruppetto di eletti: richiedono il concorso di una grande comunità, la cui opera va oltre l’esistenza stessa dei singoli e in cui chi lavora sa di costruire qualcosa non solo per sé, ma anche per chi verrà dopo. Per questo, guardandovi, vedo assieme a voi la folla ancora più grande di uomini e di donne che vi hanno preceduto e che idealmente portate qui: una folla presente sempre, anche sul palcoscenico, ad ogni spettacolo, che ci ricorda quanto è importante, nell’arte come nella vita, essere umili e generosi. Umiltà e generosità: due virtù del vero artista di cui ci parla la vostra storia!
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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Rispetto, costanza, capacità di potare per portare frutto: sono messaggi preziosi per l’anima, che ben si apprendono dai ritmi della natura, dai vitigni e dalla lavorazione. Essa comporta un’infinità di competenze, solo in parte trasmissibili in modo tecnico, “scolastico”, spesso invece legate alla condivisione di una sapienza pratica, di vita, a un’esperienza specifica da acquisire sul campo, in modo tanto più proficuo, quanto più ci si lascia coinvolgere dalla dimensione umana di ciò che si fa.
E se il rispetto e l’umanità valgono nell’uso della terra, sono ancora più decisivi nella gestione del lavoro, nella tutela delle persone e nel consumo dei prodotti, per far maturare, a livello di singoli e di aziende, quella capacità di «auto-trascendersi, infrangendo la coscienza isolata e l’autoreferenzialità», che «rende possibile ogni cura per gli altri e per l’ambiente», considerando «l’impatto provocato da ogni azione e da ogni decisione personale al di fuori di sé» (Lett. enc. Laudato si’, 208). Infatti, la «cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (ivi, 70).
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi do il benvenuto, anche se qua siete di casa! Sono contento: questa è per me un’occasione per ringraziare voi, che siete un po’ i miei compagni di viaggio, per il lavoro che svolgete informando lettori, ascoltatori e spettatori sull’attività della Santa Sede. Giornalisti, operatori, fotografi, producers: siete una comunità unita da una missione.
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Il nostro incontro è un’occasione per riflettere sul faticoso mestiere di vaticanista nel raccontare il cammino della Chiesa, nel costruire ponti di conoscenza e di comunicazione invece che solchi di divisione e di diffidenza (cfr S. Giovanni XXIII, Discorso ai giornalisti in occasione del consiglio nazionale della federazione stampa italiana, 22 febbraio 1963).
Chi è dunque il vaticanista? Rispondo prendendo a prestito le parole di un vostro collega, che ha da poco festeggiato gli ottant’anni e ha viaggiato tanto con i Papi. Parlando del suo lavoro di vaticanista, lo ha definito «un mestiere veloce fino a risultare spietato, due volte scomodo quando si applica a un soggetto alto come la Chiesa, che i media commerciali inevitabilmente portano al loro livello […] di mercato». «In tanti anni di vaticanismo – ha aggiunto – ho appreso l’arte di cercare e narrare storie di vita, che è un modo di amare l’uomo [...]. Ho imparato l’umiltà. Ho avvicinato tanti uomini di Dio che mi hanno aiutato a credere e a restare umano. Non posso dunque che incoraggiare chi voglia avventurarsi in questa specializzazione giornalistica» (L. Accattoli, Prefazione a G. Tridente, Diventare vaticanista. Informazione religiosa ai tempi del Web, 2018, 5-7). Nonostante le difficoltà, è un bell’incoraggiamento: amare l’uomo, imparare l’umiltà. (…)
Non è facile, ma sta qui la grandezza del vaticanista, la finezza d’animo che si aggiunge alla bravura giornalistica. La bellezza del vostro lavoro attorno a Pietro è quella di fondarlo sulla solida roccia della responsabilità nella verità, non sulle sabbie fragili del chiacchiericcio e delle letture ideologiche; che sta nel non nascondere la realtà e anche le sue miserie, senza edulcorare le tensioni ma al tempo stesso senza fare clamori inutili, bensì sforzandosi di cogliere l’essenziale, alla luce della natura della Chiesa. Quanto bene questo fa al Popolo di Dio, alla gente più semplice, alla Chiesa stessa, che ha ancora del cammino da compiere per comunicare meglio: con la testimonianza, prima ancora che con le parole. Grazie tante del vostro lavoro.
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FEBBRAIO
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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In questi decenni l’artigianato ha conosciuto notevoli trasformazioni, passando dalle piccole botteghe ad aziende che producono beni e servizi anche su larga scala. L’uso delle tecnologie ha accresciuto le possibilità del settore, ma è importante che non finiscano per sostituire la fantasia dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Le macchine replicano, anche con una rapidità eccezionale, mentre le persone inventano!
Le vostre attività valorizzano l’ingegno e la creatività umana. In particolare, vorrei sottolineare quanto il vostro lavoro sia connesso con tre membra del corpo: le mani, gli occhi e i piedi.
Le mani. Il lavoro manuale rende partecipe l’artigiano dell’opera creatrice di Dio. Fare non equivale a produrre. Mette in gioco la capacità creativa che sa tenere insieme l’abilità delle mani, la passione del cuore e le idee della mente. Le vostre mani sanno realizzare moltissime cose che vi rendono collaboratori di Dio. Dice il Signore: «Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani» (Ger 18,6). Benedite e ringraziate il Signore per il dono delle mani e per il lavoro che vi consente di esprimere. Sappiamo che non tutti hanno questa fortuna: c’è chi sta con le mani in mano, c’è chi è disoccupato e chi è in cerca di occupazione. Tutte situazioni umane che hanno bisogno di essere guarite. A volte capita anche che le vostre aziende siano in ricerca di personale qualificato e non lo trovino: non scoraggiatevi nell’offrire posti di lavoro e non abbiate timore a includere le categorie più fragili, ossia i giovani, le donne e i migranti. Vi ringrazio per il contributo che date per abbattere i muri dell’esclusione verso chi ha gravi disabilità o è invalido magari proprio a causa di un incidente sul lavoro, verso chi è tenuto ai margini e sfruttato. Ogni persona va riconosciuta nella sua dignità di lavoratrice e lavoratore. Non tarpiamo mai le ali ai sogni di chi intende migliorare il mondo attraverso il lavoro e servirsi delle mani per esprimere sé stesso.
Gli occhi. Le mani, adesso gli occhi. L’artigiano ha uno sguardo originale sulla realtà. Ha la capacità di riconoscere nella materia inerte un capolavoro prima ancora di realizzarlo. Quello che per tutti è un blocco di marmo, per l’artigiano è un elemento di arredo; quello che per tutti è un pezzo di legno, per un artigiano è un violino, una sedia, una cornice! L’artigiano arriva prima di tutti a intuire il destino di bellezza che può avere la materia. E questo lo avvicina al Creatore. Nel Vangelo di Marco Gesù è definito «il falegname» (6,3): il figlio di Dio è stato artigiano, ha imparato il mestiere da San Giuseppe nella bottega di Nazaret. Ha vissuto per diversi anni tra pialle, scalpelli e attrezzi di carpenteria. Ha imparato il valore delle cose e del lavoro. Il consumismo ha diffuso una brutta mentalità: la mentalità dell’“usa e getta”. Ma il creato non è una somma di cose, è dono, «un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode» (Enc. Laudato si’, 12). E voi artigiani ci aiutate ad avere occhi diversi sulla realtà, a riconoscere il valore e la bellezza della materia che Dio ha messo nelle nostre mani.
I piedi. Le mani, gli occhi… e ora i piedi. I prodotti che escono dalle vostre attività camminano per il mondo intero e lo abbelliscono, rispondendo ai bisogni della gente. L’artigianato è una strada per lavorare, per sviluppare la fantasia, per migliorare gli ambienti, le condizioni di vita, le relazioni. Per questo mi piace pensarvi anche come artigiani di fraternità. La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) ci ricorda questo artigianato delle relazioni, del condividere insieme.
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I nostri piedi ci consentono di incontrare molte persone cadute lungo la strada: attraverso il lavoro possiamo permettere loro di camminare con noi. Possiamo diventare compagni di strada, in mezzo alla cultura dell’indifferenza. Ogni volta che facciamo un passo per avvicinarci al fratello, diventiamo artigiani di una nuova umanità.
Vi incoraggio ad essere artigiani di pace in un tempo in cui le guerre mietono vittime e i poveri non trovano ascolto. Le vostre mani, i vostri occhi, i vostri piedi siano segno di un’umanità creativa e generosa.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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Ricordiamoci questo: che la formazione non finisce mai, dura tutta la vita, e che se si interrompe non si rimane dove si era, ma si torna indietro. Proprio pensando a questo continuo lavoro interiore che è la formazione sacerdotale e alla ricorrenza del vostro Seminario, mi viene in mente l’immagine del cantiere.
La Chiesa è anzitutto un cantiere sempre aperto. Essa, cioè, rimane costantemente in cammino, aperta alla novità dello Spirito, vincendo la tentazione di preservare sé stessa e i propri interessi. Il lavoro principale del “cantiere Chiesa” è camminare in compagnia del Crocifisso Risorto portando agli uomini la bellezza del suo Vangelo. Questo è l’essenziale. È quanto ci sta insegnando il cammino sinodale, è quanto ci chiede, senza compromessi, l’ascolto dello Spirito e degli uomini del nostro tempo; ma è anche ciò che viene richiesto a voi: essere servitori – questo significa ministri – che sanno adottare uno stile di discernimento pastorale in ogni situazione, sapendo che tutti, preti e laici, siamo in cammino verso la pienezza e siamo operai di un cantiere in costruzione.
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In questo cantiere che è la vostra formazione, scavate dunque a fondo, “facendo la verità” in voi con sincerità, coltivando la vita interiore, meditando la Parola, approfondendo nello studio le domande del nostro tempo e le questioni teologiche e pastorali. E permettetemi di raccomandarvi una cosa: lavorare sulla maturità affettiva e umana. Senza non si va da nessuna parte!
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MARZO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 27 marzo 2024
Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.
Catechesi. I vizi e le virtù. La pazienza
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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L’Apostolo Paolo, nel cosiddetto “Inno alla carità” (cfr 1 Cor 13,4-7), congiunge strettamente amore e pazienza. Infatti, nel descrivere la prima qualità della carità, utilizza una parola che si traduce con “magnanima”, “paziente”. La carità è magnanima, è paziente.
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Questo per Paolo è il primo tratto dell’amore di Dio, che davanti al peccato propone il perdono. Ma non solo: è il primo tratto di ogni grande amore, che sa rispondere al male col bene, che non si chiude nella rabbia e nello sconforto, ma persevera e rilancia. La pazienza che ricomincia. Dunque, alla radice della pazienza c’è l’amore, come dice Sant’Agostino: «Uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio» (De patientia, XVII).
Si potrebbe allora dire che non c’è migliore testimonianza dell’amore di Gesù che incontrare un cristiano paziente. Ma pensiamo anche a quante mamme e papà, lavoratori, medici e infermieri, ammalati che ogni giorno, nel nascondimento, abbelliscono il mondo con una santa pazienza! Come afferma la Scrittura, «è meglio la pazienza che la forza di un eroe» (Pr 16,32). Tuttavia, dobbiamo essere onesti: siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della “vitamina essenziale” per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta, non siamo capaci di essere pazienti.
Ricordiamo però che la pazienza non è solo una necessità, è una chiamata: se Cristo è paziente, il cristiano è chiamato a essere paziente. E ciò chiede di andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il “tutto subito”; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante. Non dimentichiamo che la fretta e l’impazienza sono nemiche della vita spirituale. Perché? Dio è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum, Dio è paziente, Dio sa attendere.
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APRILE
Cari ragazzi, care ragazze, cari insegnanti, buongiorno a tutti!
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Voi portate nel cuore questo grande sogno: “Trasformiamo il futuro. Per la pace, con la cura”. E proprio su questo vorrei brevemente soffermarmi per dirvi una cosa in cui credo molto: che voi siete chiamati – ascoltate bene – voi siete chiamati ad essere protagonisti e non spettatori del futuro. Vi domando: a che cosa voi siete chiamati? Ad essere che? [rispondono i ragazzi] Non ho sentito bene!... [rispondono a gran voce i ragazzi] Coraggio! Avanti! La convocazione di questo Summit mondiale, infatti, ci ricorda che tutti siamo interpellati dalla costruzione di un avvenire migliore e, soprattutto, che dobbiamo costruirlo insieme! Vi domando: il futuro si può costruire da soli? [I ragazzi rispondono “no”]. Non sento… [un “no” a gran voce]. Dobbiamo costruirlo? [“Sì!”] Bravi! Non possiamo solo delegare le preoccupazioni per il “mondo che verrà” e per la risoluzione dei suoi problemi alle istituzioni deputate e a coloro che hanno particolari responsabilità sociali e politiche. È vero che queste sfide richiedono competenze specifiche, ma è altrettanto vero che esse ci riguardano da vicino, toccano la vita di tutti e chiedono a ciascuno di noi partecipazione attiva e impegno personale. In un mondo globalizzato, come questo, dove siamo tutti interdipendenti, non è possibile procedere come singoli individui che si prendono cura soltanto del proprio “orto”, per coltivare i propri interessi: occorre invece mettersi in rete e fare rete. Cosa occorre? Mettersi in rete e fare rete. Cosa occorre? Mettersi in rete e fare rete. Tutti insieme! [i ragazzi rispondono] Ecco, sì bravi, e questo è importante, bisogna entrare in connessione, lavorare in sinergia e in armonia. Questo significa passare dall’io al noi: non “io lavoro per il mio bene”, ma “noi lavoriamo per il bene comune, per il bene di tutti”. Noi lavoriamo per il bene di tutti. Insieme! [i ragazzi ripetono] Bravi!
In effetti, le sfide odierne, e soprattutto i rischi che, come nubi oscure, si addensano su di noi minacciando il nostro futuro, sono anch’essi diventati globali. Ci riguardano tutti, interrogano l’intera comunità umana, richiedono il coraggio e la creatività di un sogno collettivo che animi un impegno costante, per affrontare insieme le crisi ambientali, le crisi economiche, le crisi politiche e sociali che il nostro pianeta sta attraversando.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Anche il sole sorride!
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Pensiamo al nostro Padre, che ha creato tutto per noi, Dio ci ha dato tutto: e noi che siamo suoi figli, per chi creiamo qualcosa di bello? Viviamo immersi in prodotti fatti dall’uomo, che ci fanno perdere lo stupore per la bellezza che ci circonda, eppure il creato ci invita a essere a nostra volta creatori di bellezza. Per favore, non dimenticate questo: essere creatori di bellezza, e fare qualcosa che prima non c’era. Questo è bello! E quando voi sarete sposati e avrete un figlio, una figlia, avrete fatto una cosa che prima non c’era! E questa è la bellezza della gioventù, quando diventa maternità o paternità: fare una cosa che prima non c’era. È bello questo. Pensate dentro di voi ai figli che avrete, e questo deve spingerci in avanti, non siate professionisti del digitare compulsivo, ma creatori di novità! Una preghiera fatta col cuore, una pagina che scrivi, un sogno che realizzi, un gesto d’amore per qualcuno che non può ricambiare: questo è creare, imitare lo stile di Dio che crea. È lo stile della gratuità, che fa uscire dalla logica nichilista del “faccio per avere” e “lavoro per guadagnare”. Questo si deve fare – faccio per avere e lavoro per guadagnare –, ma non dev’essere il centro della tua vita. Il centro è la gratuità: date vita a una sinfonia di gratuità in un mondo che cerca l’utile! Allora sarete rivoluzionari. Andate, donatevi senza paura!
Giovane che vuoi prendere in mano la tua vita, alzati! Apri il cuore a Dio, ringrazialo, abbraccia la bellezza che sei; innamorati della tua vita. E poi vai! Alzati, innamorati e vai! Esci, cammina con gli altri, cerca chi è solo, colora il mondo con la tua creatività, dipingi di Vangelo le strade della vita.
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Dunque, la metafora della vite, mentre esprime la cura amorevole di Dio per noi, d’altra parte ci mette in guardia, perché, se spezziamo questo legame con il Signore, non possiamo generare frutti di vita buona e noi stessi rischiamo di diventare rami secchi. È brutto, questo, diventare rami secchi, quei rami che vengono gettati via.
Fratelli e sorelle, sullo sfondo dell’immagine usata da Gesù, penso anche alla lunga storia che lega Venezia al lavoro delle vigne e alla produzione del vino, alla cura di tanti viticoltori e ai numerosi vigneti sorti nelle isole della Laguna e nei giardini tra le calli della città, e a quelli che impegnavano i monaci a produrre vino per le loro comunità. Dentro questa memoria, non è difficile cogliere il messaggio della parabola della vite e dei tralci: la fede in Gesù, il legame con Lui non imprigiona la nostra libertà ma, al contrario, ci apre ad accogliere la linfa dell’amore di Dio, il quale moltiplica la nostra gioia, si prende cura di noi con la premura di un bravo vignaiolo e fa nascere germogli anche quando il terreno della nostra vita diventa arido. E tante volte il nostro cuore diventa arido.
Ma la metafora uscita dal cuore di Gesù può essere letta anche pensando a questa città costruita sulle acque, e riconosciuta per questa sua unicità come uno dei luoghi più suggestivi al mondo. Venezia è un tutt’uno con le acque su cui sorge, e senza la cura e la salvaguardia di questo scenario naturale potrebbe perfino cessare di esistere. Così è pure la nostra vita: anche noi, immersi da sempre nelle sorgenti dell’amore di Dio, siamo stati rigenerati nel Battesimo, siamo rinati a vita nuova dall’acqua e dallo Spirito Santo e inseriti in Cristo come i tralci nella vite. In noi scorre la linfa di questo amore, senza il quale diventiamo rami secchi, che non portano frutto. Il Beato Giovanni Paolo I, quando era Patriarca di questa città, disse una volta che Gesù «è venuto a portare agli uomini la vita eterna […]». E continuava: «Quella vita sta in lui e da lui passa ai suoi discepoli, come la linfa sale dal tronco ai tralci della vite. Essa è un’acqua fresca, che egli dà, una fonte sempre zampillante» (A. Luciani, Venezia 1975-1976. Opera Omnia. Discorsi, scritti, articoli, vol. VII, Padova 2011, 158).
[…]
Cari fratelli e sorelle, questo è il frutto che siamo chiamati a portare nella nostra vita, nelle nostre relazioni, nei luoghi che frequentiamo ogni giorno, nella nostra società, nel nostro lavoro. Se oggi guardiamo a questa città di Venezia, ammiriamo la sua incantevole bellezza, ma siamo anche preoccupati per le tante problematiche che la minacciano: i cambiamenti climatici, che hanno un impatto sulle acque della Laguna e sul territorio; la fragilità delle costruzioni, dei beni culturali, ma anche quella delle persone; la difficoltà di creare un ambiente che sia a misura d’uomo attraverso un’adeguata gestione del turismo; e inoltre tutto ciò che queste realtà rischiano di generare in termini di relazioni sociali sfilacciate, di individualismo e solitudine.
E noi cristiani, che siamo tralci uniti alla vite, vigna del Dio che ha cura dell’umanità e ha creato il mondo come un giardino perché noi possiamo fiorirvi e farlo fiorire, noi cristiani, come rispondiamo? Restando uniti a Cristo potremo portare i frutti del Vangelo dentro la realtà che abitiamo: frutti di giustizia e di pace, frutti di solidarietà e di cura vicendevole; scelte di attenzione per la salvaguardia del patrimonio ambientale ma anche di quello umano: non dimentichiamo il patrimonio umano, la grande umanità nostra, quella che ha preso Dio per camminare con noi; abbiamo bisogno che le nostre comunità cristiane, i nostri quartieri, le città, diventino luoghi ospitali, accoglienti, inclusivi.
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MAGGIO
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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Innanzitutto, giovani – siete tanti qui! –. Sono una delle categorie più fragili del nostro tempo. I giovani, sempre colmi di talenti e di potenzialità, sono anche particolarmente vulnerabili, sia per alcune condizioni antropologiche che per diversi aspetti culturali del tempo in cui viviamo.
Alludo non solo ai NEET che non sono né in formazione né in attività, ma ad alcune scelte sociali che li espongono ai venti della dispersione e del degrado. Molti giovani, infatti, abbandonano i loro territori di origine per cercare occupazione altrove, spesso non trovando opportunità all’altezza dei loro sogni; alcuni, poi, intendono lavorare ma si devono accontentare di contratti precari e sottopagati; altri ancora, in questo contesto di fragilità sociale e di sfruttamento, vivono nell’insoddisfazione e si dimettono dal lavoro. Dinanzi a queste e ad altre situazioni simili, tutti noi dobbiamo prendere consapevolezza di una cosa: l’abbandono educativo e formativo è una tragedia! Sentite bene, è una tragedia. E, se occorre promuovere una legislazione che favorisca il riconoscimento sociale dei giovani, ancora più importante è costruire un ricambio generazionale dove le competenze di chi è in uscita siano al servizio di chi entra nel mercato del lavoro. In altre parole, gli adulti condividano i sogni e i desideri dei giovani, li introducano, li sostengano, li incoraggino senza giudicarli.
A questo proposito, vorrei dire a voi, che con creatività spendete in questo campo il vostro essere cristiani: non perdete di vista nessuno, siate attenti ai giovani, abbiate cura di quelli che non hanno avuto opportunità o che provengono da situazioni sociali svantaggiate. Non tutti hanno ricevuto il supporto indispensabile della famiglia e della comunità cristiana e noi siamo chiamati a farcene carico, perché nessuno di loro può essere messo alla porta, soprattutto i più poveri ed emarginati, che rischiano gravi forme di esclusione, compresi i migranti. Chi si sente scartato può finire in forme di disagio sociale umanamente degradanti, e questo non dobbiamo accettarlo!
La seconda parola è formazione, che indica un impegno indispensabile per generare futuro. Le trasformazioni del lavoro sono sempre più complesse, anche a motivo delle nuove tecnologie e degli sviluppi dell’intelligenza artificiale. E qui siamo chiamati a respingere due tentazioni: da un lato la tecnofobia, cioè la paura della tecnologia che porta a rifiutarla; dall’altro lato la tecnocrazia, cioè l’illusione che la tecnologia possa risolvere tutti i problemi. Si tratta invece di investire risorse ed energie, perché la trasformazione del lavoro esige una formazione continua, creativa e sempre aggiornata. E nello stesso tempo occorre anche impegnarsi a ridare dignità ad alcuni lavori, soprattutto manuali, che sono ancora oggi socialmente poco riconosciuti.
Una valida formazione professionale è un antidoto alla dispersione scolastica e una risposta alla domanda di lavoro in diversi settori dell’economia. Ma – voi me lo insegnate – una buona formazione professionale non si improvvisa. Serve un legame con le famiglie, come in ogni tipo di esperienza educativa; e serve un sano ed efficace rapporto con le imprese, disposte a inserire giovani al proprio interno. Questi per voi sono i due poli di riferimento, perché insieme alle competenze tecniche sono importanti le virtù umane: una tecnica senza umanità diventa ambigua, rischiosa e non è veramente umana, non è veramente formativa. La formazione deve offrire ai giovani strumenti per discernere tra le offerte di lavoro e le forme di sfruttamento.
La prima parola “giovani”. La seconda parola “formazione”. La terza parola professione. Giovani, formazione e professione. La professione ci definisce. “Che lavoro fai?”, si chiede a una persona per conoscerla. “Come ti chiami? Che lavoro fai?”: presentiamo gli altri attraverso il loro lavoro. È stato così anche per Gesù, riconosciuto come il «figlio del falegname» (Mt 13,55) o semplicemente come «il falegname» (Mc 6,3). Il lavoro è un aspetto fondamentale della nostra vita e della nostra vocazione. Eppure, oggi assistiamo a un degrado del senso del lavoro, che viene sempre più interpretato in relazione al guadagno piuttosto che come espressione della propria dignità e apporto al bene comune. Pertanto, è importante che i percorsi di formazione siano al servizio della crescita globale della persona, nelle sue dimensioni spirituale, culturale, lavorativa. «Quando uno scopre che Dio lo chiama a qualcosa, che è fatto per questo – può essere l’infermieristica, la falegnameria, la comunicazione, l’ingegneria, l’insegnamento, l’arte o qualsiasi altro lavoro – allora sarà capace di far sbocciare le sue migliori capacità di sacrificio, generosità e dedizione. Sapere che non si fanno le cose tanto per farle, ma con un significato, […] fa sì che queste attività offrano al proprio cuore un’esperienza speciale di pienezza» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 273).
Tre parole: giovani, formazione, professione. Non dimenticatele! Vi incoraggio a continuare ad avere a cuore i giovani, la formazione e la professione. E vi ringrazio, perché attraverso la vostra creatività dimostrate che è possibile coniugare il lavoro e la vocazione della persona. Perché una buona formazione professionale abilita a compiere un lavoro e, nel contempo, a scoprire il senso del proprio essere al mondo e nella società. Vi accompagno con la preghiera. Di cuore benedico tutti voi e le vostre famiglie. E vi raccomando: non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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Nei prossimi giorni il vostro raduno sarà incentrato sul tema “La cura è lavoro, il lavoro è cura”. Per costruire una comunità trasformativa globale. Ciò vi permetterà di passare a una seconda fase di questo progetto, impiegando il metodo del discernimento sociale comune.
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Innanzitutto il lavoro dignitoso e le industrie estrattive. […] È fondamentale che le condizioni del lavoro siano connesse con gli impatti ambientali, prestando molta attenzione ai possibili effetti in termini di salute fisica e mentale delle persone coinvolte, nonché di sicurezza.
Un secondo tema è il lavoro dignitoso e la sicurezza alimentare […]
I disastri naturali e le condizioni meteorologiche estreme, ora intensificate dal cambiamento climatico, oltre agli shock economici, sono altri importanti fattori che determinano l’insicurezza alimentare, legati a loro volta ad alcune vulnerabilità strutturali quali la povertà, l’elevata dipendenza dalle importazioni di prodotti alimentari e le infrastrutture precarie.
Non dobbiamo dimenticare, poi, una terza questione che riguarda la relazione tra lavoro dignitoso e migrazione. Per molte ragioni, sono tante le persone che emigrano in cerca di lavoro, mentre altre sono costrette a farlo per fuggire dai loro Paesi di provenienza, spesso dilaniati dalla violenza e dalla povertà. Queste persone, anche a causa di pregiudizi e di una informazione imprecisa o ideologica, sono spesso viste come un problema e un aggravio per i costi di una Nazione, mentre essi in realtà, lavorando, contribuiscono allo sviluppo economico e sociale del Paese che li accoglie e di quello da cui provengono.
Sempre in quest’ottica, è importante mettere a fuoco il rapporto tra lavoro dignitoso e giustizia sociale. Questa espressione, “giustizia sociale”, che è arrivata con le Encicliche sociali dei Papi, è una parola che non è accettata dall’economia liberale, dall’economia di punta. La giustizia sociale. In effetti, un rischio che corriamo nelle nostre attuali società è quello di accettare passivamente quanto accade attorno a noi, con una certa indifferenza oppure perché non siamo nelle condizioni di inquadrare problematiche spesso complesse e di trovare ad esse risposte adeguate. Ma ciò significa lasciar crescere le disuguaglianze sociali e le ingiustizie anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro e i diritti fondamentali dei lavoratori. E questo non va bene!
Infine, l’ultimo aspetto che avete considerato è quello del lavoro dignitoso connesso alla giusta transizione. Tenendo conto dell’interdipendenza tra lavoro e ambiente, si tratta di ripensare i tipi di lavoro che conviene promuovere in ordine alla cura della casa comune, specialmente sulla base delle fonti di energia che essi richiedono.
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Distinte Autorità,
Rappresentanti della società civile,
cari fratelli e sorelle, cari ragazzi e bambini, buongiorno
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Il numero delle nascite è il primo indicatore della speranza di un popolo. Senza bambini e giovani, un Paese perde il suo desiderio di futuro. In Italia, ad esempio, l’età media attualmente è di quarantasette anni – ma ci sono Paesi del centro Europa che hanno l’età media si ventiquattro anni – e si continuano a segnare nuovi record negativi. Purtroppo, se dovessimo basarci su questo dato, saremmo costretti a dire che l’Italia sta progressivamente perdendo la sua speranza nel domani, come il resto d’Europa:
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Nonostante tante parole e tanto impegno, non si arriva a invertire la rotta. Come mai? Perché non si riesce a frenare questa emorragia di vita?
La questione è complessa, ma questo non può e non deve diventare un alibi per non affrontarla. Serve lungimiranza, che è la seconda parola-chiave. A livello istituzionale, urgono politiche efficaci, scelte coraggiose, concrete e di lungo termine, per seminare oggi affinché i figli possano raccogliere domani. C’è bisogno di un impegno maggiore da parte di tutti i governi, perché le giovani generazioni vengano messe nelle condizioni di poter realizzare i propri legittimi sogni. Si tratta di attuare serie ed efficaci scelte in favore della famiglia. Ad esempio, porre una madre nella condizione di non dover scegliere tra lavoro e cura dei figli; oppure liberare tante giovani coppie dalla zavorra della precarietà occupazionale e dell’impossibilità di acquistare una casa.
È poi importante promuovere, a livello sociale, una cultura della generosità e della solidarietà intergenerazionale, per rivedere abitudini e stili di vita, rinunciando a ciò che è superfluo allo scopo di dare ai più giovani una speranza per il domani, come avviene in tante famiglie. Non dimentichiamolo: il futuro di figli e nipoti si costruisce anche con le schiene doloranti per anni di fatica e con i sacrifici nascosti di genitori e nonni, nel cui abbraccio c’è il dono silenzioso e discreto del lavoro di una vita intera. E d’altra parte, il riconoscimento e la gratitudine verso di loro da parte di chi cresce sono la sana risposta che, come l’acqua unita al cemento, rende solida e forte la società. Questi sono i valori da sostenere, questa è la cultura da diffondere, se vogliamo avere un domani.
Terza parola: coraggio. E qui mi rivolgo particolarmente ai giovani. So che per molti di voi il futuro può apparire inquietante, e che tra denatalità, guerre, pandemie e mutamenti climatici non è facile mantenere viva la speranza. Ma non arrendetevi, abbiate fiducia, perchè il domani non è qualcosa di ineluttabile: lo costruiamo insieme, e in questo “insieme” prima di tutto troviamo il Signore. È Lui che, nel Vangelo, ci insegna quel “ma io vi dico” che cambia le cose (cfr Mt 5,38-48): un “ma” che profuma di salvezza, che prepara un “fuori schema”, una rottura. Facciamo nostro questo “ma”, tutti, qui e ora. Non rassegniamoci a un copione già scritto da altri, mettiamoci a remare per invertire la rotta, anche a costo di andare controcorrente!
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GIUGNO
Cari fratelli e sorelle delle ACLI!
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A questo proposito, oggi vorrei soffermarmi su cinque caratteristiche di questo stile vostro, che ritengo fondamentali per il vostro cammino.
La prima è lo stile popolare. Si tratta non solo di essere vicini alla gente, ma di essere e sentirsi parte del popolo. Significa vivere e condividere le gioie e le sfide quotidiane della comunità, imparando dai valori e dalla saggezza della gente semplice. Uno stile popolare implica riconoscere che i grandi progetti sociali e le trasformazioni durature nascono dal basso, dall’impegno condiviso e dai sogni collettivi. Ma la vera essenza del popolo risiede nella solidarietà e nel senso di appartenenza. Nel contesto di una società frammentata e di una cultura individualista, abbiamo un grande bisogno di luoghi in cui le persone possano sperimentare questo senso di appartenenza creativo e dinamico, che aiuta a passare dall’io al noi, a elaborare insieme progetti di bene comune e a trovare le vie e i modi per realizzarli.
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Seconda caratteristica: lo stile sinodale. Lavorare insieme, collaborare per il bene comune è fondamentale. Questo stile sinodale è testimoniato dalla presenza di persone che appartengono a diversi orizzonti culturali, sociali, politici e anche ecclesiali, e che oggi sono qui con voi.
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La terza caratteristica: uno stile democratico. La fedeltà alla democrazia è da sempre un tratto distintivo delle ACLI. Oggi ne abbiamo tanto bisogno. Democratica è quella società in cui c’è davvero un posto per tutti, nella realtà dei fatti e non solo nelle dichiarazioni e sulla carta. Per questo è importante il molto lavoro che fate soprattutto per sostenere chi rischia l’emarginazione: i giovani, ai quali in particolare destinate le iniziative di formazione professionale; le donne, che spesso continuano a patire forme di discriminazione e disuguaglianza; i lavoratori più fragili e i migranti, che nelle ACLI trovano qualcuno capace di aiutarli a ottenere il rispetto dei propri diritti; e infine gli anziani e i pensionati, che troppo facilmente si ritrovano “scartati” dalla società, e questa è un’ingiustizia.
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Quarto: uno stile pacifico, cioè da operatori di pace. In un mondo insanguinato da tante guerre, so di condividere con voi l’impegno e la preghiera per la pace.
Per questo vi dico: le ACLI siano voce di una cultura della pace, uno spazio in cui affermare che la guerra non è mai “inevitabile” mentre la pace è sempre possibile; e che questo vale sia nei rapporti tra gli Stati, sia nella vita delle famiglie, delle comunità e nei luoghi di lavoro.
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Costruisce la pace chi sa prendere posizione con chiarezza, ma al tempo stesso si sforza di costruire ponti, di ascoltare e comprendere le diverse parti in causa, promuovendo il dialogo e la riconciliazione. Intercedere per la pace è qualcosa che va ben oltre il semplice compromesso politico, perché richiede di mettersi in gioco e assumere un rischio.
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Infine, uno stile cristiano. Lo menziono per ultimo non come un’appendice, ma perché si tratta della sintesi e della radice degli altri aspetti di cui abbiamo parlato. A chi possiamo guardare per capire che cosa vuol dire essere operatori di pace fino in fondo, se non al Signore Gesù? Dove possiamo trovare ispirazione e forza per accogliere tutti, se non nella vita di Gesù? Assumere uno stile cristiano, allora, vuol dire non soltanto prevedere che nei nostri incontri ci sia un momento di preghiera: questo va bene, ma dobbiamo fare di più; assumere uno stile cristiano vuol dire crescere nella familiarità con il Signore e nello spirito del Vangelo, perché esso possa permeare tutto ciò che facciamo e la nostra azione abbia lo stile di Cristo e lo renda presente nel mondo.
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Con piacere do il mio benvenuto a voi, Amministratori Delegati e collaboratori di importanti imprese e banche.
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A tale proposito, vorrei mettere a fuoco brevemente tre sfide, cioè la cura dell’ambiente, la cura dei poveri e la cura dei giovani.
Anzitutto, vi invito a porre al centro della vostra attenzione e della vostra responsabilità l’ambiente e la terra. Siamo in un tempo di grave crisi ambientale, che dipende da molti soggetti e da molti fattori, comprese anche le scelte economiche e imprenditoriali di ieri e di oggi. Non basta più rispettare le leggi degli Stati, che procedono troppo lentamente: occorre innovare anticipando il futuro, con scelte coraggiose e lungimiranti che possano essere imitate.
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Secondo: non dimenticatevi dei più poveri e degli scartati. L’“economia circolare” è diventata una parola-chiave, che invita a riutilizzare e riciclare gli scarti. Mentre però ricicliamo le materie e gli scarti dei materiali, non abbiamo ancora imparato – permettetemi l’espressione – a “riciclare” e non scartare le persone, i lavoratori, soprattutto i più fragili, per i quali vige spesso la cultura dello scarto. Siate diffidenti verso una certa “meritocrazia” che viene usata per legittimare l’esclusione dei poveri, giudicati demeritevoli, fino a considerare la povertà stessa come colpa. E non accontentatevi di un po’ di filantropia, è troppo poco: la sfida è includere i poveri nelle aziende, farli diventare risorse per un vantaggio comune. È possibile. Sogno un mondo in cui gli scartati possano diventare protagonisti del cambiamento – ma mi pare che questo lo abbia già realizzato un certo Gesù, non vi pare?
Terzo: i giovani. I giovani sono spesso tra i poveri del nostro tempo: poveri di risorse, di opportunità e di futuro. E questo, paradossalmente, sia dove sono tantissimi, ma mancano i mezzi, sia dove sono sempre più pochi – come ad esempio in Italia, perché non c’è nascita qui – e i mezzi ci sarebbero. Non si apprende nessun lavoro senza l’“ospitalità aziendale”, che significa accogliere generosamente i giovani anche quando non hanno l’esperienza e le competenze richieste, perché ogni lavoro si impara solo lavorando. Vi incoraggio a essere generosi, ad accogliere i giovani nelle vostre imprese, dando loro un anticipo di futuro per non far perdere la speranza a un’intera generazione.
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LUGLIO
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 21 luglio 2024
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
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Il Vangelo della liturgia odierna (Mc 6,30-34) narra che gli apostoli, ritornati dalla missione, si radunano intorno a Gesù e gli raccontano quello che hanno fatto; allora Lui dice loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (v. 31). La gente però capisce i loro movimenti e, quando scendono dalla barca, Gesù trova la folla che lo aspetta, ne sente compassione e si mette a insegnare (cfr v. 34).
Dunque, da una parte l’invito a riposare e, dall’altra, la compassione di Gesù per la folla – è molto bello fermarsi a riflettere sulla compassione di Gesù –. Sembrano due cose inconciliabili, l’invito a riposare e la compassione, e invece vanno insieme: riposo e compassione. Vediamo.
Gesù si preoccupa della stanchezza dei discepoli. Forse sta cogliendo un pericolo che può riguardare anche la nostra vita e il nostro apostolato, quando ad esempio l’entusiasmo nel portare avanti la missione, o il lavoro, così come il ruolo e i compiti che ci sono affidati ci rendono vittime dell’attivismo, e questa è una cosa brutta: troppo preoccupati delle cose da fare, troppo preoccupati dei risultati. E allora succede che ci agitiamo e perdiamo di vista l’essenziale, rischiando di esaurire le nostre energie e di cadere nella stanchezza del corpo e dello spirito. È un monito importante per la nostra vita, per la nostra società spesso prigioniera della fretta, ma anche per la Chiesa e per il servizio pastorale: fratelli e sorelle, stiamo attenti alla dittatura del fare!
E questo può succedere per necessità anche nelle famiglie, quando per esempio il papà per guadagnare il pane è costretto ad assentarsi per lavoro, dovendo così sacrificare il tempo da dedicare alla famiglia. Spesso escono al mattino presto, quando i bambini stanno ancora dormendo, e tornano tardi la sera, quando sono già a letto. E questa è un’ingiustizia sociale. Nelle famiglie, papà e mamma dovrebbero avere il tempo per condividere con i figli, per far crescere questo amore famigliare e non cadere nella dittatura del fare. Pensiamo a cosa possiamo fare per aiutare le persone che sono costrette a vivere così.
Nello stesso tempo, il riposo proposto da Gesù non è una fuga dal mondo, un ritirarsi nel benessere personale; al contrario, di fronte alla gente smarrita Egli prova compassione. E allora dal Vangelo impariamo che queste due realtà – riposo e compassione – sono legate: solo se impariamo a riposare possiamo avere compassione. Infatti, è possibile avere uno sguardo compassionevole, che sa cogliere i bisogni dell’altro, soltanto se il nostro cuore non è consumato dall’ansia del fare, se sappiamo fermarci e, nel silenzio dell’adorazione, ricevere la Grazia di Dio.
Perciò, cari fratelli e sorelle, possiamo chiederci: io mi so fermare durante le mie giornate? So prendermi un momento per stare con me stesso e con il Signore, oppure sono sempre preso dalla fretta, la fretta per le cose da fare? Sappiamo trovare un po’ di “deserto” interiore in mezzo ai rumori e alle attività di ogni giorno?
La Vergine Santa ci aiuti a “riposare nello Spirito” anche in mezzo a tutte le attività quotidiane, e ad essere disponibili e compassionevoli verso gli altri.
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AGOSTO
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA XXXIX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
24 novembre 2024
Quanti sperano nel Signore camminano senza stancarsi (cfr Is 40,31)
Cari giovani!
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1. Il pellegrinaggio della vita e le sue sfide
Isaia profetizza un “camminare senza stancarsi”. Riflettiamo allora su questi due aspetti: il camminare e la stanchezza.
La nostra vita è un pellegrinaggio, un viaggio che ci spinge oltre noi stessi, un cammino alla ricerca della felicità; e la vita cristiana, in particolare, è un pellegrinaggio verso Dio, nostra salvezza e pienezza di ogni bene.
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Tuttavia, è normale che, pur iniziando i nostri percorsi con entusiasmo, prima o poi cominciamo ad avvertire la stanchezza. In alcuni casi, a provocare ansia e fatica interiore sono le pressioni sociali, che spingono a raggiungere certi standard di successo negli studi, nel lavoro, nella vita personale. Questo produce tristezza, mentre viviamo nell’affanno di un vuoto attivismo che ci porta a riempire le giornate di mille cose e, nonostante ciò, ad avere l’impressione di non riuscire a fare mai abbastanza e di non essere mai all’altezza. A questa stanchezza si unisce spesso la noia. Si tratta di quello stato di apatia e di insoddisfazione di chi non si mette in cammino, non si decide, non sceglie, non rischia mai, e preferisce rimanere nella propria comfort zone, chiuso in sé stesso, vedendo e giudicando il mondo da dietro uno schermo, senza mai “sporcarsi le mani” con i problemi, con gli altri, con la vita.
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La soluzione alla stanchezza, paradossalmente, non è restare fermi per riposare. È piuttosto mettersi in cammino e diventare pellegrini di speranza. Questo è il mio invito per voi: camminate nella speranza! La speranza vince ogni stanchezza, ogni crisi e ogni ansia, dandoci una motivazione forte per andare avanti, perché essa è un dono che riceviamo da Dio stesso: Egli riempie di senso il nostro tempo, ci illumina nel cammino, ci indica la direzione e la meta della vita.
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La speranza è proprio una forza nuova, che Dio infonde in noi, che ci permette di perseverare nella corsa, che ci fa avere uno “sguardo lungo” che va oltre le difficoltà del presente e ci indirizza verso una meta certa: la comunione con Dio e la pienezza della vita eterna.
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2. Pellegrini nel deserto
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Anche per chi ha ricevuto il dono della fede, ci sono stati momenti felici in cui Dio è stato presente e lo avete sentito vicino, e altri momenti in cui avete sperimentato il deserto. Può succedere che all’entusiasmo iniziale nello studio o nel lavoro, oppure allo slancio di seguire Cristo – sia nel matrimonio, sia nel sacerdozio o nella vita consacrata – seguano momenti di crisi, che fanno sembrare la vita come un difficile cammino nel deserto. Questi tempi di crisi, però, non sono tempi persi o inutili, ma possono rivelarsi occasioni importanti di crescita. Sono i momenti di purificazione della speranza!
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Nei momenti inevitabili di fatica del nostro pellegrinaggio in questo mondo, impariamo allora a riposare come Gesù e in Gesù. Egli, che raccomanda ai discepoli di riposare dopo essere ritornati dalla missione (cfr Mc 6,31), riconosce il vostro bisogno di riposo del corpo, di tempo per il vostro svago, per godere della compagnia degli amici, per fare sport e anche per dormire. Ma c’è un riposo più profondo, il riposo dell’anima, che molti cercano e pochi trovano, che si trova solo in Cristo. Sappiate che tutte le stanchezze interiori possono trovare sollievo nel Signore, che vi dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Quando la stanchezza del cammino vi appesantisce, tornate a Gesù, imparate a riposare in Lui e a rimanere in Lui, poiché «quanti sperano nel Signore […] camminano senza stancarsi» (Is 40,31).
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Roma, San Giovanni in Laterano, 29 agosto 2024, Memoria del martirio di San Giovanni Battista.
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SETTEMBRE
Dadeer di’ak! (Buongiorno!)
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Nella lingua tetum c’è un detto: “ukun rasik-an”, cioè essere in grado di governare sé stessi. Un giovane che non è in grado, una giovane, un giovane che non è in grado di governarsi, che non è in grado di vivere “ukun rasik-an”, che cos’è? Cosa dite? Uno che dipende dagli altri. Molto bene. E un uomo, una donna, un giovane, un ragazzo che non governa sé stesso è schiavo, è dipendente, non è libero. E di cosa può essere schiavo un giovane? Vediamo, qualcuno risponda… Di che cosa? Del peccato, del telefonino – dopo vi racconto qualcosa sul telefonino – , un’altra cosa… Di cosa può essere schiavo? Essere schiavo del proprio desiderio, credersi onnipotente. Di cos’altro può essere schiavo un giovane? [qualcuno risponde] Certo, dell’arroganza: un giovane sempre così è un giovane arrogante. Invece, un giovane impegnato, un giovane che lavora, com’è? Ditemi, com’è un giovane che lavora? [qualcuno risponde] Bene, uno che ama la semplicità. E poi? Che ha responsabilità. Un giovane che ama la compagnia dei fratelli, delle sorelle, che ha responsabilità, è un giovane che ama il suo Paese. Questo è molto importante.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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Ricordiamo che la donna si trova al cuore dell’evento salvifico. È dal “sì” di Maria che Dio in persona viene nel mondo. Donna è accoglienza feconda, cura, dedizione vitale. Per questo è più importante la donna dell’uomo, ma è brutto quando la donna vuol fare l’uomo: no, è donna, e questo è “pesante”, è importante. Apriamo gli occhi sui tanti esempi quotidiani di amore, dall’amicizia al lavoro, dallo studio alla responsabilità sociale ed ecclesiale, dalla sponsalità alla maternità, alla verginità per il Regno di Dio e per il servizio. Non dimentichiamo, lo ripeto: la Chiesa è donna, non è maschio, è donna.
Voi stessi siete qui per crescere come donne e come uomini. Siete in cammino, in formazione come persone. Perciò il vostro percorso accademico comprende diversi ambiti: ricerca, amicizia, servizio sociale, responsabilità civile e politica, espressioni artistiche...
Penso all’esperienza che vivete ogni giorno, in questa Università Cattolica di Lovanio, e condivido tre aspetti, semplici e decisivi, della formazione: come studiare? perché studiare? e per chi studiare?
Come studiare: c’è non solo un metodo, come in ogni scienza, ma anche uno stile. Ogni persona può coltivare il proprio. In effetti, lo studio è sempre una via alla conoscenza di sé e degli altri. Ma c’è anche uno stile comune, che si può condividere nella comunità universitaria. Si studia insieme: grazie a chi ha studiato prima di me – docenti, compagni più avanti –, con chi studia al mio fianco, in aula. La cultura come cura di sé comporta una cura vicendevole. Non c’è la guerra fra studenti e professori, c’è il dialogo, alle volte è un dialogo un po’ intenso ma c’è il dialogo e il dialogo fa crescere la comunità universitaria.
Secondo: perché studiare. C’è un motivo che ci spinge e un obiettivo che ci attrae. Bisogna che siano buoni, perché da loro dipende il senso dello studio, dipende la direzione della nostra vita. A volte studio per trovare quel tipo di lavoro, ma finisco per vivere in funzione di quello. Diventiamo noi la “merce”, vivere in funzione del lavoro. Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere; è facile dirlo, ma comporta impegno metterlo in pratica con coerenza. E questa parola coerenza è molto importante per tutti, ma specialmente per voi studenti. Voi dovete imparare questo atteggiamento della coerenza, essere coerenti.
Terzo: per chi studiare. Per sé stessi? Per rendere conto ad altri? Studiamo per essere capaci di educare e servire altri, anzitutto col servizio della competenza e dell’autorevolezza. Prima di chiederci se studiare serve a qualcosa, preoccupiamoci di servire qualcuno. Una bella domanda che uno studente universitario può fare: a chi servo io, a me stesso? Oppure ho il cuore aperto per un altro servizio? Allora il titolo universitario attesta una capacità per il bene comune. Studio per me, per lavorare, per essere utile, per il bene comune. E questo deve essere molto bilanciato, molto bilanciato!
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OTTOBRE
SANTA MESSA PER IL CORPO DELLA GENDARMERIA VATICANA
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana, Altare della Cattedra
Sabato, 5 ottobre 2024
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Il vostro è un lavoro, un prezioso lavoro, ma soprattutto un inestimabile servizio alla Chiesa, per il quale desidero ringraziarvi: grazie, grazie tante. Ogni giorno accogliete in Vaticano e nelle zone extraterritoriali numerose persone e pellegrini; molto spesso siete il primo e anche l’unico volto che incontrano. Per questo, chiedo a Dio che vi doni sempre la grazia di essere il riflesso della tenerezza di Dio.
Alla luce della Parola di questa domenica, voglio anche rivolgermi alle vostre famiglie. Grazie per la vostra pazienza. Il lavoro dei Gendarmi e dei Vigili del fuoco non è possibile senza la pazienza e la comprensione delle rispettive famiglie, alle quali voglio chiedere scusa per tutte le ore in cui i vostri mariti, i vostri papà, i vostri figli o fratelli non sono presenti a casa perché in servizio. Davvero, scusate. So che non è facile e per questo affido le vostre famiglie e tutti i vostri cari alla protezione della Vergine, Regina delle famiglie, e a San Michele Arcangelo, perché l’uomo non divida quello che Dio ha unito.
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Cari fratelli e sorelle del Dicastero della Comunicazione, benvenuti tutti!
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In effetti, la vostra è una vocazione, è una missione! Con il vostro lavoro e la vostra creatività, con l’uso intelligente dei mezzi che la tecnologia mette a disposizione, ma soprattutto con il vostro cuore: si comunica con il cuore. Siete chiamati a un compito grande ed entusiasmante: quello di costruire ponti, quando tanti innalzano muri, i muri delle ideologie; quello di favorire la comunione, quando tanti fomentano divisione; quello di lasciarsi coinvolgere dai drammi del nostro tempo, quando tanti preferiscono l’indifferenza. Questa cultura dell’indifferenza, questa cultura del “lavarsi le mani”: “non tocca a me, che si arrangino”. Questo fa tanto male!
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Ora potreste domandarmi: ma che cosa c’entra tutto questo con il nostro lavoro di comunicatori, di giornalisti? C’entra, e molto! Proprio in quanto comunicatori, infatti, siete chiamati a tessere la comunione ecclesiale con la verità attorno ai fianchi, la giustizia come corazza, i piedi calzati e pronti a propagare il Vangelo della pace. Permettetemi di raccontarvi il mio sogno. Sogno una comunicazione che riesca a connettere persone e culture. Sogno una comunicazione capace di raccontare e valorizzare storie e testimonianze che accadono in ogni angolo del mondo, mettendole in circolo e offrendole a tutti. Per questo sono contento di sapere che – nonostante le difficoltà economiche e l’esigenza di ridurre le spese, ne parlerò dopo di questo – vi siete ingegnati per aumentare l’offerta delle oltre cinquanta lingue con cui comunicano i media vaticani, aggiungendo le lingue Lingala, Mongola e Kannada.
Sogno una comunicazione fatta da cuore a cuore, lasciandoci coinvolgere da ciò che è umano, lasciandoci ferire dai drammi che vivono tanti nostri fratelli e sorelle. Per questo vi invito a uscire di più, a osare di più, a rischiare di più non per diffondere le vostre idee, ma per raccontare con onestà e passione la realtà. Sogno una comunicazione che sappia andare oltre gli slogan e tenere accesi i riflettori sui poveri, sugli ultimi, sui migranti, sulle vittime della guerra. Una comunicazione che favorisca l’inclusione, il dialogo, la ricerca della pace. Quanta urgenza c’è di dare spazio agli operatori di pace! Non stancatevi di raccontare le loro testimonianze, in ogni parte del mondo.
Sogno una comunicazione che educhi a rinunciare un po’ a sé per fare spazio all’altro; una comunicazione appassionata, curiosa, competente, che sappia immergersi nella realtà per poterla raccontare.
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Fratelli e sorelle, non abbiate paura di coinvolgervi, di cambiare, di imparare linguaggi nuovi, di percorrere nuove strade, di abitare l’ambiente digitale. Fatelo sempre senza lasciarvi assorbire dagli strumenti che usate, senza far diventare “messaggio” lo strumento, senza banalizzare, senza “surrogare” nell’incontro in rete le relazioni umane vere, concrete, da persona a persona. Il Vangelo è storia di incontri, di gesti, di sguardi, di dialoghi per strada e a tavola.
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E vorrei dirvi una cosa: dovremo fare ancora un po’ più di disciplina sui soldi. Voi dovete trovare il modo di risparmiare di più e cercare altri fondi, perché la Santa Sede non può continuare ad aiutarvi come adesso. So che è una brutta notizia, ma è anche una bella notizia perché muove la creatività di tutti voi.
Il Giubileo, che inizieremo fra qualche settimana, è una grande occasione per testimoniare al mondo la nostra fede e la nostra speranza. Vi ringrazio fin d’ora per tutto ciò che farete, per l’impegno del Dicastero nell’aiutare sia i pellegrini che verranno a Roma, sia chi non potrà viaggiare, ma grazie ai media vaticani potrà seguire le celebrazioni giubilari sentendosi unito a noi. Grazie, grazie tante!
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NOVEMBRE
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Rendere testimonianza di accoglienza alla gente più con i gesti che con le parole. Un primo principio: accogliere. E anche andare a visitare, che è un’altra forma di accoglienza. E continuate a vedere in ognuno di loro — gente vulnerabile —, in quella vulnerabilità il volto di Cristo. In tal modo, annunciate Cristo come colui che cammina sempre con loro, anche se anonimamente, poiché è lui che per primo si è fatto povero.
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In secondo luogo, riparare le disuguaglianze. Con il vostro apostolato denunciate alla società che la disuguaglianza, a volte tanto grande, tra ricchi e poveri, tra cittadini e stranieri, non è ciò che Dio vuole dall’umanità e, in giustizia, queste cose vanno risolte. Occorre ristabilire il tessuto sociale riparando le disuguaglianze; nessuno può restare indifferente di fronte alla sofferenza degli altri (cfr. Gn 4, 9). Pensate alle due estremità della vita: la disuguaglianza che c’è con i bambini e con gli anziani. Quando gli anziani vengono scartati, vengono mandati a “quartieri generali invernali”, come se in questo momento non avessero nulla da offrire alla società. E pensate ai bambini, quando vengono usati per certi lavori, e poi vengono abbandonati. Ci sono bambini che vengono usati per andare a raccogliere nell’immondizia cose che possono poi essere vendute.
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Perciò tutto il lavoro che fate con i rifugiati è molto importante. E, inoltre, è una delle tre condizioni che l’Antico Testamento ripete sempre: la vedova, l’orfano e lo straniero — il migrante, il rifugiato —. È una domanda che dobbiamo farci sempre. Seminate speranza per favore. In ogni persona che accogliete, in ogni persona che ha una vulnerabilità, seminate speranza.
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Vorrei che tutti voi, nel lavoro che svolgete nella Chiesa, non smettiate mai di scoprire che assistere i vulnerabili è sempre un privilegio, perché di essi è il Regno dei Cieli (cfr. Mt 5, 3). Occuparsi dei più vulnerabili è occuparsi dello stesso Signore. “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi, l’avete fatto a me”. Ogni volta che abbiamo l’occasione di avvicinarci a loro, e di offrire loro il nostro aiuto, è per noi un’opportunità di toccare la carne di Cristo, perché portare il Vangelo non è una cosa astratta, un’ideologia, che si riduce a un indottrinamento. No, non è così, portare il Vangelo si concretizza nell’impegno cristiano con i più bisognosi; lì sta la vera evangelizzazione.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
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L’artigianato mi è molto caro perché esprime bene il valore del lavoro umano. Quando creiamo con le nostre mani, nello stesso tempo attiviamo la testa e i piedi: il fare è sempre frutto di un pensiero e di un movimento verso gli altri. L’artigianato è un elogio alla creatività; infatti, l’artigiano deve saper scorgere nella materia inerte una forma particolare che altri non sanno riconoscere. E questo vi rende collaboratori dell’opera creatrice di Dio. Abbiamo bisogno del vostro talento per ridare senso all’attività umana e per metterla al servizio di progetti di promozione del bene comune.
Mi piace tornare con voi a una celebre pagina evangelica: la parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30).
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Questa parabola è un inno alla fiducia in Dio, e un invito a una sana, positiva “complicità” – mi permetto di dire questa parola – una “complicità” con Dio, che ci rende partecipi dei suoi beni e conta su di noi, conta sulla nostra responsabilità. Se nella vita si vuole crescere occorre abbandonare la paura e avere fiducia. A volte, specialmente quando aumentano le difficoltà, siamo tentati di pensare che il Signore sia un arbitro o un controllore implacabile più che Colui che ci incoraggia a prendere in mano la vita. Ma il Vangelo ci chiama sempre ad avere uno sguardo di fede; a non pensare che ciò che realizziamo sia frutto solo delle nostre capacità o dei nostri meriti. È frutto anche della storia di ognuno di noi, è frutto di tanta gente che ci ha insegnato ad andare avanti nella vita, incominciando dai genitori. Il lavoro che faccio è frutto di una storia, che ci ha resi capaci di fare questo. Anche voi, se vi appassionate al vostro lavoro, e se qualche volta giustamente vi lamentate perché non è adeguatamente riconosciuto, è perché siete consapevoli del valore di ciò che Dio ha posto nelle vostre mani, non solo per voi ma per tutti.
Tutti abbiamo bisogno di mettere da parte la paura che paralizza e distrugge la creatività. Possiamo farlo anche nel modo di vivere il lavoro quotidiano, sentendoci partecipi di un grande progetto di Dio, capace di sorprenderci con i suoi doni. Dietro alle nostre ricchezze non c’è solo bravura, ma anche una Provvidenza che ci prende per mano e ci conduce. Il lavoro artigianale può esprimere bene tutto questo, se è accompagnato giorno per giorno dalla consapevolezza che Dio non ci abbandona mai, che siamo capolavori delle sue mani, e per questo siamo capaci di realizzare opere originali.
Vorrei elogiare il vostro lavoro anche perché abbellisce il mondo. Noi viviamo tempi di guerra, di violenze; dappertutto le notizie sono così e sembrano farci perdere la fiducia nelle capacità dell’essere umano, lo sguardo alle vostre attività ci consola e ci dà speranza. Abbellire il mondo è costruire pace. Mi ha detto un economista che gli investimenti che danno più reddito oggi, in Italia, sono le fabbriche delle armi. Questo non abbellisce il mondo, è brutto. Se tu vuoi guadagnare di più devi investire per uccidere. Pensiamo a questo. Non dimenticate – lo ripeto –: abbellire il mondo è costruire pace. L’Enciclica Fratelli tutti ha definito i costruttori di pace come artigiani capaci di avviare processi di ripresa e di incontro con ingegno e audacia (cfr n. 225). Lo stesso ingegno e la stessa audacia che voi usate per realizzare le tante opere destinate ad arricchire il mondo.
E Dio chiama tutti gli uomini e le donne a lavorare in modo artigianale, come Lui, lavorare a quel progetto di pace che Lui ha. Per questo Egli distribuisce in abbondanza i suoi talenti, perché siano messi al servizio della vita e non sotterrati nella sterilità della morte e della distruzione, come fanno le guerre, fomentate dal nemico di Dio.
Cari amici, grazie per quello che sapete realizzare attraverso il vostro lavoro; e grazie anche per l’impegno sociale: anche questo è un lavoro che richiede pazienza e progettualità! San Giuseppe artigiano vi ispiri sempre a vivere il lavoro con creatività e passione. Di cuore benedico tutti voi, benedico le vostre famiglie. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
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Per favore, non perdere la capacità di sognare: quando un giovane perde questa capacità, non dico che diventa vecchio, no, perché i vecchi sognano. Diventa un “pensionato della vita”. È molto brutto. Per favore, giovani, non siate “pensionati della vita”, e non lasciatevi rubare la speranza! Mai! La speranza non delude mai!
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E oggi c’è tanta gente che non ha voce, tanti esclusi, non solo socialmente, per i problemi di povertà, mancanza di educazione, dittatura della droga… ma anche di coloro che non sanno sognare. Fare “rete” per sognare, e non perdere questa capacità. Sognare.
Come sappiamo – anche dalla cronaca di questi giorni – le sfide che vi riguardano sono tante: la dignità del lavoro, la famiglia, l’istruzione, l’impegno civico, la cura del creato e le nuove tecnologie. L’aumento di atti di violenza e di autolesionismo, fino al gesto più estremo di togliersi la vita, sono segni di un disagio preoccupante e complesso.
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Voi siete chiamati ad essere testimoni della bellezza e della novità della vita. C’è una bellezza che va al di là dell’apparenza: è quella di ogni uomo e ogni donna che vivono con amore la loro vocazione personale, nel servizio disinteressato alla comunità, nel lavoro generoso per la felicità della famiglia, nell’impegno gratuito per far crescere l’amicizia sociale. Scoprire, mostrare e mettere in risalto questa bellezza significa porre le basi della solidarietà sociale e della cultura dell’incontro.
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Di fronte alle sfide e alle difficoltà che potrete incontrare nel vostro lavoro, non temete! Non abbiate paura di attraversare anche i conflitti. I conflitti ci fanno crescere. Ma non dimenticate che il conflitto è come un labirinto: dal labirinto non si può uscire da soli, si esce in compagnia di un altro che ci aiuti. Primo. E dal labirinto si esce dall’alto. Lasciatevi aiutare dagli altri. E sempre guardare in alto perché la vita non sia un giro labirintico, che uccide la gioventù. Invecchiare in un labirinto è invecchiare nei valori superficiali. È triste vedere un uomo o una donna, giovane, che vive la sua vita nella superficialità. È molto triste… Serve, nella vostra vita – anche per attraversare i conflitti – serve la pazienza di trasformarli in capacità di ascolto, di riconoscimento dell’altro, di crescita reciproca. Provare a superare i conflitti è il segno che abbiamo puntato più in alto, più in alto dei nostri interessi particolari, per uscire dalle sabbie mobili dell’inimicizia sociale. Andate avanti nel vostro servizio: cercare, custodire e portare la voce e la speranza dei giovani italiani nelle sedi istituzionali per partecipare insieme al bene comune.
[…]
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Sua Eccellenza Monsignor Zani, Eccellenze,
Signore e Signori,
cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Sono molto contento di questo incontro, che esprime l’apertura al mondo della Biblioteca Apostolica Vaticana.
[…]
Tale dialogo, condotto nella concretezza su temi ben definiti, aiuterà tutti a sviluppare al meglio, nel tempo nuovo che stiamo vivendo, le potenzialità formative e culturali delle vostre Biblioteche. Esse infatti sono chiamate a trasmettere il patrimonio del passato secondo modalità significative per le nuove generazioni, che vivono immerse in una cultura liquida, e dunque necessitano di ambienti solidi, formativi, accoglienti, inclusivi per poter elaborare nuove sintesi, capaci di fare presa sul presente e guardare con speranza al futuro. Una missione, la vostra, davvero entusiasmante.
[…]
La tecnologia ha infatti notevolmente cambiato il lavoro dei bibliotecari, rendendolo più vario e veloce. I mezzi di comunicazione e le risorse informatiche hanno aperto strade pochi anni fa impensabili. I sistemi di studio, di catalogazione e di fruizione delle risorse librarie si sono moltiplicati. Tutto ciò comporta molti benefici, insieme ad alcuni rischi: i grandi depositi di dati sono miniere ricchissime, ma difficilmente controllabili nella loro qualità.
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Molte istituzioni culturali si trovano così indifese davanti alla violenza delle guerre e della depredazione. Quante volte è già successo in passato! Impegniamoci perché non succeda più: allo scontro di civiltà, al colonialismo ideologico e alla cancellazione della memoria rispondiamo con la cura della cultura. Sarebbe grave che, oltre alle tante barriere tra gli Stati, si innalzassero anche muri virtuali. A tale riguardo, voi bibliotecari avete un ruolo importante, oltre che per la difesa del patrimonio storico, anche per la promozione della conoscenza. Vi incoraggio a continuare a lavorare affinché le vostre istituzioni siano luoghi di pace, oasi di incontro e di libera discussione.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, benvenuti!
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Nel Vangelo i pescatori incarnano atteggiamenti importanti. Ad esempio la costanza nella fatica: i discepoli sono descritti come «affaticati nel remare» (Mc 6,48) per colpa del vento contrario, o ancora provati dall’insuccesso, mentre stanchi ritornano a terra a mani vuote, dicendo: «Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5,5). Ed è proprio così: il vostro è un lavoro duro, che richiede sacrificio e tenacia, di fronte sia alle sfide di sempre, sia a nuovi urgenti problemi, come il difficile ricambio generazionale, i costi che continuano a crescere, la burocrazia che soffoca, la concorrenza sleale delle grandi multinazionali. Questo però non vi scoraggia, anzi alimenta un’altra caratteristica vostra: l’unità. In mare non si va da soli. Per gettare le reti è necessario faticare insieme, come equipaggio, o meglio ancora come una comunità in cui, pur nella diversità dei ruoli, il successo del lavoro di ciascuno dipende dall’apporto di tutti. In questo modo la pesca diventa una scuola di vita, al punto che Gesù la usa come simbolo per indicare la vocazione degli apostoli: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17).
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E ora mi rivolgo a voi, fratelli e sorelle del mondo della Sanità. Il tema che avete affrontato nel vostro convegno pone la domanda su quale sia la condizione di salute in cui si trovano i Servizi e i Sistemi nazionali in Europa. Anche la vostra è una missione che costa fatica e richiede di saper lavorare insieme, in équipe. Io vorrei però invitarvi a porre l’attenzione su due ulteriori aspetti del vostro vissuto.
Il primo aspetto è quello del prendersi cura di chi cura. È infatti importante non dimenticare che voi sanitari siete persone altrettanto bisognose di sostegno quanto i fratelli e le sorelle che curate. La fatica di turni estenuanti, le preoccupazioni che portate nel cuore e il dolore che raccogliete dai vostri pazienti richiedono conforto, richiedono guarigione. Per questo vi raccomando di non trascurarvi, anzi di farvi custodi gli uni degli altri; e a tutti dico che è importante riconoscere la vostra generosità e ricambiarla, garantendovi rispetto, stima e aiuto.
Il secondo aspetto che vorrei sottolineare è la compassione per gli ultimi. Infatti se, come abbiamo detto, nessuno è così autosufficiente da non avere bisogno di cure, ne consegue che nessuno può essere emarginato al punto da non poter essere curato.
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Carissimi, tra voi vedo molte famiglie. Vorrei allora concludere ricordando a tutti l’importanza della famiglia, cellula della società. Essa è fondamentale per entrambe le vostre professioni. Anzitutto per i sacrifici che i vostri familiari condividono con voi, adattandosi agli orari e ai ritmi esigenti del vostro lavoro, che non è solo una professione, ma è un’“arte”, e dunque coinvolge tutta la persona e il suo ambiente. Poi per il sostegno che i vostri familiari vi danno nella fatica e spesso nella stessa attività. Custodite le vostre relazioni familiari, per favore: esse sono “medicina”, sia per i sani che per i malati. L’isolamento e l’individualismo, infatti, aprono le porte alla perdita della speranza, e questo fa ammalare l’anima, e spesso anche il corpo.
Allora, buon lavoro a tutti e la Madonna vi accompagni. Vi benedico di cuore. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
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DICEMBRE
Care sorelle e cari fratelli, buongiorno!
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Vorrei anzitutto dirvi che quando penso alla teologia mi viene in mente la luce. Infatti, grazie alla luce le cose emergono dall’oscurità, i volti rivelano i propri contorni, le forme e i colori del mondo finalmente appaiono. La luce è bella perché fa sì che le cose appaiano ma senza mettere in mostra sé stessa. Qualcuno di voi ha visto la luce? Ma vediamo ciò che fa la luce: fa apparire le cose. Adesso, qui, noi ammiriamo questa sala, vediamo i nostri volti, ma non scorgiamo la luce, perché essa è discreta, è gentile, umile e, perciò, rimane invisibile. È gentile la luce. Così è anche la teologia: fa un lavoro nascosto e umile, perché emerga la luce di Cristo e del suo Vangelo. Da questa osservazione deriva per voi una strada: cercare la grazia e restare nella grazia dell’amicizia con Cristo, luce vera venuta in questo mondo. Ogni teologia nasce dall’amicizia con Cristo e dall’amore per i suoi fratelli, le sue sorelle, il suo mondo; questo mondo, drammatico e magnifico insieme, pieno di dolore ma anche di commovente bellezza.
So che in questi giorni lavorerete insieme sul “dove”, il “come” e il “perché” della teologia. Ci domandiamo: teologia, dove sei? Con chi stai andando? Cosa stai facendo per l’umanità? Questi giorni saranno importanti per affrontare questi interrogativi, per chiederci se l’eredità teologica del passato può ancora dire qualcosa alle sfide di oggi e aiutarci a immaginare il futuro. È un cammino che siete chiamati a fare insieme, teologhe e teologi.
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Il desiderio è questo: che la teologia aiuti a ripensare il pensiero. Il nostro modo di pensare, come sappiamo, plasma anche i nostri sentimenti, la nostra volontà e le nostre decisioni. A un cuore largo corrispondono un’immaginazione e un pensiero di ampio respiro, mentre un pensiero rattrappito, chiuso e mediocre difficilmente può generare creatività e coraggio. Mi vengono in mente i manuali di teologia, con i quali noi studiavamo. Tutto chiuso, tutto “da museo”, da biblioteca, ma non ti facevano pensare.
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Contribuendo a ripensare il pensiero, la teologia ritornerà a brillare come merita, nella Chiesa e nelle culture, aiutando tutti e ciascuno nella ricerca della verità.
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Cari giovani amici e amiche!
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Ascoltando il grido della terra, dell’aria, dell’acqua, che un modello sbagliato di sviluppo ha tanto ferito, ho compreso meglio una realtà che oggi voglio condividere con voi: nel creato “tutto è connesso” (cfr Lett. enc. Laudato si’, 117; 138). Per questo il contributo di ciascuno di voi può migliorare il mondo. La novità di ognuno riguarda tutti. Il mondo del lavoro è un mondo umano, in cui ognuno è connesso a tutti. E purtroppo anche questo “mondo” è inquinato da dinamiche e comportamenti negativi che lo rendono a volte invivibile. Insieme alla cura del creato è necessaria la cura della qualità della vita umana, la ricerca della fraternità umana e dell’amicizia sociale, perché i nostri legami contano più dei numeri e delle prestazioni. Anche questo fa la differenza nel mondo del lavoro. E voi, avvicinandovi ad esso, è importante che teniate ben salde sia la coscienza della vostra unicità – che prescinde da qualsiasi successo o insuccesso – sia la propensione a stabilire con gli altri rapporti sinceri. In molti ambienti sarete, allora, una rivoluzione gentile.
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Quest’anno propongo un’altra immagine, che ricorre spesso e ovunque, persino nei messaggi che vi scambiate in ogni momento. Mi riferisco al cuore, che solitamente colleghiamo all’amore, all’amicizia, ma che in realtà porterete con voi anche al lavoro, così come batte in voi nel tempo della scuola o dell’università.
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Vi scrivo queste cose perché, affacciandovi al mondo del lavoro, tutto invece vi sembrerà veloce. Potrebbe quasi opprimervi ciò che ci si aspetta da voi. Avrete, come si dice, il fiato sul collo di persone che conoscete o che non conoscete: tante richieste, talvolta troppe indicazioni e raccomandazioni. In queste circostanze, imparate a custodire il cuore, per rimanere in pace e liberi. Non piegatevi a richieste che vi umiliano e vi procurano disagio, a modi di procedere e a pretese che sporchino la vostra genuinità. Per dare il vostro contributo, infatti, non dovete farvi andare bene qualsiasi cosa, anche il male. Non omologatevi a modelli in cui non credete, magari per ottenerne prestigio sociale o del denaro in più. Il male ci aliena, spegne i sogni, ci rende soli e rassegnati. Il cuore sa accorgersene e, quando è così, bisogna chiedere aiuto e fare squadra con chi ci conosce e tiene a noi. Bisogna scegliere.
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E quando il lavoro viene organizzato senza cuore, allora è in pericolo la dignità umana di chi lavora, o non trova lavoro, o si adatta a un lavoro indegno. Oggi è l’economia stessa ad accorgersi che il saper fare non basta, che le prestazioni non sono tutto. A questo basteranno sempre più le macchine. Umana, invece, è l’intelligenza del cuore, la ragione che sente le ragioni altrui, l’immaginazione che crea ciò che ancora non è, la fantasia per cui Dio ci ha resi tutti diversi. Siamo “pezzi unici”, aiutiamoci a vicenda a ricordarcelo.
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Roma, San Giovanni in Laterano, 17 dicembre 2024
FRANCESCO
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Bene-dite e non male-dite
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio di cuore il Cardinale Re per le sue parole augurali; non invecchia questo! E questo è bello. Grazie, Eminenza, per il Suo esempio di disponibilità e di amore alla Chiesa.
Il Cardinale Re ha parlato della guerra. Ieri il Patriarca [Latino di Gerusalemme] non l’hanno lasciato entrare a Gaza, come avevano promesso; e ieri sono stati bombardati dei bambini. Questo è crudeltà. Questo non è guerra. Voglio dirlo perché tocca il cuore. Grazie di questo riferimento, Eminenza, grazie!
Il titolo di questa allocuzione è “Bene-dite e non male-dite”
La Curia Romana è composta da tante comunità di lavoro, più o meno complesse o numerose. Pensando a uno spunto di riflessione che potesse giovare alla vita comunitaria nella Curia e nelle sue diverse articolazioni, quest’anno ho scelto un aspetto che si intona bene al Mistero dell’Incarnazione, e si vedrà subito il perché.
Ho pensato al parlare bene degli altri e non parlarne male. È una cosa che ci riguarda tutti, anche il Papa – vescovi, preti, consacrati, laici – e rispetto alla quale siamo tutti uguali. Perché? Perché tocca la nostra umanità.
Questo atteggiamento, il parlare bene e non parlare male, è un’espressione dell’umiltà, e l’umiltà è il tratto essenziale dell’Incarnazione, in particolare del mistero del Natale del Signore, che ci apprestiamo a celebrare. Una comunità ecclesiale vive in gioiosa e fraterna armonia nella misura in cui i suoi membri camminano nella via dell’umiltà, rinunciando a pensare male e parlare male degli altri.
San Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, dice: «Benedite e non maledite» (Rm 12,14). Possiamo intendere l’esortazione anche in questo modo: “Dite bene e non dite male” degli altri, nel nostro caso delle persone che lavorano in ufficio con noi, dei superiori, dei colleghi, di tutti. Dite bene e non dite male.
La strada dell’umiltà: accusare sé stessi
Come feci una ventina di anni fa, in occasione di un’Assemblea diocesana a Buenos Aires, così propongo oggi a tutti noi, per praticare questa via di umiltà, di esercitarci nell’accusare sé stessi, secondo gli insegnamenti degli antichi maestri spirituali, in particolare di Doroteo di Gaza. Sì, proprio di Gaza, quel luogo che adesso è sinonimo di morte e distruzione, ma che è una città antichissima, dove nei primi secoli del cristianesimo fiorirono monasteri e figure luminose di santi e di maestri. Doroteo è uno di questi. Nella scia di grandi Padri come Basilio ed Evagrio, egli ha edificato la Chiesa con istruzioni e lettere piene di linfa evangelica. Oggi anche noi, mettendoci alla sua scuola, possiamo imparare l’umiltà di accusare sé stessi per non dire male del prossimo. A volte nel parlare quotidiano, quando qualcuno critica, l’altro pensa: “E a casa tua come andiamo?” [“Da che pulpito viene la predica!”]. È il parlare quotidiano.
In una sua istruzione, Doroteo dice: «Se all’umile capita qualche male, immediatamente fa ritorno su di sé, ed egualmente giudica che lo ha meritato. E non si permette di rimproverare altri né di incolpare chicchessia. Semplicemente sopporta, senza turbamento, senza angoscia e in tutta quiete. L’umiltà non si irrita né irrita nessuno» (Dorothée de Gaza, Oeuvres spirituelles, Paris 1963, n. 30).
E ancora: «Non cercare di conoscere il male del tuo prossimo, e non alimentare sospetti contro di lui. E se la nostra malizia li fa nascere, cerca di trasformarli in pensieri buoni» (ivi, n. 187).
Accusare sé stessi è un mezzo, ma è indispensabile: è l’atteggiamento di fondo in cui può mettere radici la scelta di dire “no” all’individualismo e “sì” allo spirito comunitario, ecclesiale. Infatti, chi si esercita nella virtù di accusare sé stesso e la pratica in modo costante, diventa libero dai sospetti e dalla diffidenza e lascia spazio all’azione di Dio, il solo che crea l’unione dei cuori. E così, se ciascuno progredisce su questa strada, può nascere e crescere una comunità in cui tutti sono custodi l’uno dell’altro e camminano insieme nell’umiltà e nella carità. Quando uno vede un difetto in una persona, può parlarne soltanto con tre persone: con Dio, con la persona stessa e, se non può con questa, con chi nella comunità può prendersene cura. E niente di più.
Allora ci chiediamo: cosa c’è alla base di questo stile spirituale di accusare sé stesso? Alla base c’è l’abbassamento interiore, improntato al movimento del Verbo di Dio, la synkatabasis, o condiscendenza. Il cuore umile si abbassa come quello di Gesù, che contempliamo in questi giorni nel Presepe.
Di fronte al dramma dell’umanità tante volte oppressa dal male, che cosa fa Dio? Si erge forse nella sua giustizia e fa piombare dall’alto la condanna? Così, in un certo senso, lo aspettavano i profeti fino a Giovanni il Battista. Ma Dio è Dio, i suoi pensieri non sono i nostri, le sue vie non sono le nostre (cfr Is 55,8). La sua santità è divina e perciò ai nostri occhi risulta paradossale. Il movimento dell’Altissimo è di abbassarsi, di farsi piccolo, come un granello di senape, come un germe di uomo nel grembo di una donna. Invisibile. Così incomincia a prendere su di sé l’enorme, insostenibile massa del peccato del mondo.
A questo movimento di Dio corrisponde, nell’uomo, l’accusa di sé stesso. Non è prima di tutto un fatto morale: è un fatto teologale – come sempre, come in tutta la vita cristiana –; è dono di Dio, opera dello Spirito Santo, e da parte nostra è ac-con-discendere, fare nostro il movimento di Dio, assumerlo, accoglierlo. Così ha fatto la Vergine Maria, che non aveva nulla di cui accusarsi ma si è lasciata pienamente coinvolgere nell’abbassamento di Dio, nella spogliazione del Figlio, nella discesa dello Spirito Santo. In questo senso l’umiltà si potrebbe chiamare una virtù teologale.
Ci aiuta, per abbassarci, andare al sacramento della Riconciliazione. Ci aiuta. Ognuno può pensare: quando è stata l’ultima volta che mi sono confessato?
En passant, vorrei menzionare una cosa. Alcune volte ho parlato del chiacchiericcio. È un male che distrugge la vita sociale, fa ammalare il cuore della gente e porta a niente. Il popolo lo dice molto bene: “Le chiacchiere stanno a zero”. State attenti su questo.
Benedetti benediciamo
Cari fratelli e sorelle, l’Incarnazione del Verbo ci dimostra che Dio non ci ha maledetti ma ci ha benedetti. Anzi, di più, ci rivela che in Dio non c’è maledizione, ma solo e sempre benedizione.
Tornano alla mente certe espressioni delle Lettere di Santa Caterina da Siena, come ad esempio questa: «Pare che Egli non si voglia ricordare delle offese che noi gli facciamo; e non ci vuole dannare eternamente, ma sempre fare misericordia» (Lettera n. 15). E dobbiamo parlare della misericordia!
Ma qui il riferimento va soprattutto a San Paolo, alla vertiginosa apertura dell’inno della Lettera agli Efesini:
«Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (1,3).
Ecco il fondamento del nostro dire-bene: siamo benedetti, e in quanto tali possiamo benedire. Siamo benedetti e pertanto possiamo benedire.
Tutti noi abbiamo bisogno di essere immersi in questo mistero, altrimenti rischiamo di inaridirci e allora diventiamo come quei canali asciutti, secchi, che non portano più nemmeno una goccia d’acqua. E il lavoro di ufficio qui in Curia è spesso arido e alla lunga inaridisce, se uno non si ricarica con esperienze pastorali, con momenti di incontro, di relazione amicale, nella gratuità. Riguardo alle esperienze pastorali, specialmente ai giovani domando se hanno qualche esperienza pastorale: è molto importante. E soprattutto per questo, abbiamo bisogno ogni anno di fare gli Esercizi spirituali: per immergerci nella grazia di Dio, immergerci totalmente. Lasciarci “inzuppare” dallo Spirito Santo, dall’acqua vivificante in cui ognuno di noi è voluto e amato “dal principio”. Allora sì, se il nostro cuore è immerso in questa benedizione originaria, allora siamo capaci di benedire tutti, anche quelli che ci risultano antipatici – è una realtà; benedire anche gli antipatici –, anche chi ci ha trattato male. Benedire.
Il modello a cui guardare, come sempre, è la nostra Madre, la Vergine Maria. Lei è, per eccellenza, la Benedetta. Così la saluta Elisabetta quando la accoglie a casa: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). E così noi ci rivolgiamo a lei nell’Ave Maria. In lei si è realizzata quella “benedizione spirituale in Cristo”, certamente “nei cieli”, prima del tempo, ma anche sulla terra, nella storia, quando il tempo è stato “riempito” dalla presenza del Verbo incarnato (cfr Gal 4,4). È Lui la benedizione. È il frutto che benedice il grembo; il Figlio che benedice la Madre: «figlia del tuo Figlio», scrive Dante, «umile e alta più che creatura». E così Maria, la Benedetta, ha portato al mondo la Benedizione che è Gesù. C’è un quadro, che ho nel mio studio, che è proprio la synkatabasis. C’è la Madonna con le mani come se fosse una piccola scala, e il Bambino scende su quella scala. Il Bambino in una mano ha la Legge e con l’altra si aggrappa alla mamma per non cadere. Questa è la funzione della Madonna: portare il Figlio. E questo è ciò che Lei fa nei nostri cuori.
Artigiani di benedizione
Sorelle, fratelli, guardando Maria, immagine e modello della Chiesa, siamo condotti a considerare la dimensione ecclesiale del bene-dire. E in questo nostro contesto vorrei riassumerla così: nella Chiesa, segno e strumento della benedizione di Dio per l’umanità, siamo tutti chiamati a diventare artigiani di benedizione. Non solo benedicenti, artigiani di questo: insegnare, vivere come artigiani per benedire.
Possiamo immaginare la Chiesa come un grande fiume che si dirama in mille e mille ruscelli, torrenti, rivoli – un po’ come il bacino amazzonico –, per irrigare tutto il mondo con la benedizione di Dio, che scaturisce dal Mistero pasquale di Cristo.
La Chiesa ci appare così quale compimento del disegno che Dio rivelò ad Abramo fin dal primo momento in cui lo chiamò a partire dalla terra dei suoi padri. Gli disse: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, […] e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3).
Questo disegno presiede a tutta l’economia dell’alleanza di Dio con il suo popolo, che è “eletto” non in senso escludente, ma al contrario nel senso che cattolicamente diremmo “sacramentale”: cioè facendo arrivare il dono a tutti attraverso una singolarità esemplare, meglio, testimoniale, martiriale.
Così, nel mistero dell’Incarnazione, Dio ha benedetto ogni uomo e donna che viene a questo mondo, non con un decreto calato dall’alto dei cieli, ma mediante la carne, mediante la carne di Gesù, Agnello benedetto nato da Maria benedetta (cfr S. Anselmo, Disc. 52).
Mi piace pensare alla Curia Romana come una grande officina in cui ci sono tante mansioni diverse, ma tutti lavorano per lo stesso scopo: bene-dire, diffondere nel mondo la benedizione di Dio e della Madre Chiesa.
In particolare, penso al lavoro nascosto del “minutante” – ne vedo alcuni qui che sono bravi, grazie! –, che nella sua stanza prepara una lettera, perché a una persona malata, a una mamma, a un papà, a un carcerato, a un anziano, a un bambino giunga la preghiera e la benedizione del Papa. Grazie di questo, perché io firmo queste lettere. E questo che cos’è? Non è essere artigiani di benedizione? I minutanti sono artigiani di benedizione. Mi dicono che un santo prete che lavorava anni fa in Segreteria di Stato aveva attaccato al lato interno della porta della sua stanza un foglio con scritto: “Il mio lavoro è umile, umiliato, umiliante”. Una visione un po’ troppo negativa, ma c’è del vero e del buono. Direi che esprime lo stile tipico dell’artigianato della Curia, da intendere però in senso positivo: l’umiltà come via del bene-dire. La strada di Dio che in Gesù si abbassa e viene ad abitare la nostra condizione umana, e così ci benedice. E questo posso testimoniarlo: nell’ultima Enciclica, sul Sacro Cuore, che ha menzionato il Cardinale Re, quanti hanno lavorato! Quanti! Le bozze andavano, tornavano… Tanti, tanti, con piccole cose.
Carissimi, è bello pensare che con il lavoro quotidiano, specialmente quello più nascosto, ognuno di noi può contribuire a portare nel mondo la benedizione di Dio. Ma in questo dobbiamo essere coerenti: non possiamo scrivere benedizioni e poi parlare male del fratello o della sorella, rovina la benedizione. Ecco allora l’augurio: che il Signore, nato per noi nell’umiltà, ci aiuti ad essere sempre donne e uomini bene-dicenti.
Buon Natale a tutti!
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Care sorelle, cari fratelli, buongiorno, benvenuti!
Sono felice che possiamo scambiarci gli auguri di Natale. Esprimo prima di tutto la mia gratitudine a ciascuno di voi per il lavoro che fate, sia a beneficio della Città del Vaticano che della Chiesa universale. Come ogni anno, siete venuti con le vostre famiglie e per questo vorrei riflettere un momento, brevemente, con voi proprio su questi due valori: lavoro e famiglia.
Primo: il lavoro. Quello che fate è certamente tanto. Passando per le strade e nei cortili della Città del Vaticano, nei corridoi e negli uffici dei vari Dicasteri e nei diversi luoghi di servizio, la sensazione è di trovarsi come in un grande alveare. E anche adesso c’è chi sta lavorando per rendere possibile questo incontro e non è potuto venire: diciamo loro grazie!
Oggi siete qui in un ambiente di festa, con la vivacità della festa nel cuore, la vivacità dei sorrisi. Per il resto dell’anno invece la vita è più ordinaria, non è di festa, è di lavoro continuo, ma sempre col sorriso del cuore. Del resto si tratta di due volti differenti della stessa bellezza: quella di chi costruisce con gli altri e per gli altri qualcosa di buono per tutti. Gesù stesso ce l’ha mostrata: Lui, il Figlio di Dio, che per amore nostro si è fatto umilmente apprendista falegname alla scuola di Giuseppe (cfr Lc 2,51-52; S. Paolo VI, Omelia a Nazaret, 5 gennaio 1964). A Nazaret pochi lo sapevano, quasi nessuno, ma nella bottega del carpentiere, assieme e attraverso tante altre cose, si costruiva, da artigiani, la salvezza del mondo! Avete pensato a questo: che la salvezza è stata costruita “da artigiani”? E lo stesso, in senso analogo, vale per voi, che col vostro lavoro quotidiano, nelle Nazaret nascoste delle vostre particolari mansioni, contribuite a portare a Cristo l’intera umanità e a diffondere in tutto il mondo il suo Regno (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 34-36).
E poi veniamo al secondo punto: la famiglia. Dà gioia vedervi insieme, anche con i bambini: che belli! San Giovanni Paolo II diceva che, per la Chiesa, la famiglia è come «la sua culla» (Esort. ap. Familiaris consortio, 22 novembre 1981, 15). Amate la famiglia, per favore! Ed è vero: la famiglia, infatti, fondata e radicata nel Matrimonio, è il luogo in cui si genera la vita – e quanto è importante, oggi, accogliere la vita! –. Poi è la prima comunità in cui, fin dall’infanzia, si incontrano la fede, la Parola di Dio e i Sacramenti, in cui si impara a prendersi cura gli uni degli altri e a crescere nell’amore, a tutte le età. La fede va trasmessa nella famiglia e San Paolo lo diceva a Timoteo: “Tua mamma, tua nonna…” (cfr 2Tm 1,5). Nella famiglia è stata trasmessa la fede. Vi incoraggio perciò – genitori, figli, nonni e nipoti, i nonni hanno una grande importanza – vi incoraggio a restare sempre uniti, stretti tra voi e attorno al Signore: nel rispetto, nell’ascolto, nella premura reciproca.
C’è una cosa che vorrei sottolineare della famiglia. Una domanda che faccio ai genitori che hanno figli piccoli: voi siete capaci di giocare con i vostri figli? Voi giocate con i figli? È importante sdraiarsi per terra col bambino, con la bambina, giocare con i figli! Poi, un’altra cosa: voi visitate i nonni? I nonni sono in famiglia o vivono in casa di riposo senza che qualcuno vada a trovarli? I nonni, forse, devono essere in casa di riposo, ma andate a trovarli! Che vi sentano continuamente presenti. Sempre uniti, mi raccomando, anche nella preghiera fatta insieme, perché senza preghiera non si va avanti, neanche in famiglia. Insegnate a pregare ai bambini! E in proposito, in questi giorni, vi suggerisco di trovare qualche momento in cui raccogliervi, assieme, attorno al Presepe, per rendere grazie a Dio dei suoi doni, per chiedergli aiuto per il futuro e per rinnovarvi a vicenda il vostro affetto davanti al Bambino Gesù.
Carissimi, grazie per questo incontro e per tutto ciò che fate. Vi auguro ogni bene per il Santo Natale e per l’anno che sta per iniziare: l’Anno Santo della speranza. Anche nella famiglia cresce la speranza! Vi benedico e vi raccomando: non dimenticatevi di pregare per me. E se qualcuno ha qualche difficoltà speciale, per favore parlate, ditela ai responsabili, perché noi vogliamo risolvere tutte le difficoltà. E questo si fa col dialogo e non gridando né tacendo. Si dialoga, sempre! “Signor Amministratore, Cardinale, Papa, Padre, ho questa difficoltà. Mi aiuta a risolverla?”. E cercheremo insieme di risolvere le difficoltà.
Grazie, grazie tante e buon Natale!
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[…]
L’anno che si chiude è stato un anno impegnativo per la città di Roma. I cittadini, i pellegrini, i turisti e tutti quelli che erano di passaggio hanno sperimentato la tipica fase che precede un Giubileo, con il moltiplicarsi dei cantieri grandi e piccoli. Questa sera è il momento di una riflessione sapienziale, per considerare che tutto questo lavoro, oltre al valore che ha in sé stesso, ha avuto un senso che corrisponde alla vocazione propria di Roma, la sua vocazione universale. Alla luce della Parola di Dio che abbiamo appena ascoltato, questa vocazione si potrebbe esprimere così: Roma è chiamata ad accogliere tutti perché tutti possano riconoscersi figli di Dio e fratelli tra loro.
Perciò in questo momento vogliamo elevare il nostro rendimento di grazie al Signore perché ci ha permesso di lavorare, e lavorare tanto, e soprattutto perché ci ha dato di farlo con questo senso grande, con questo orizzonte largo che è la speranza della fraternità.
Il motto del Giubileo, “Pellegrini di speranza”, è ricco di significati, a seconda delle diverse possibili prospettive, che sono come altrettante “vie” del pellegrinaggio. E una di queste grandi strade di speranza su cui camminare è la fraternità: è la strada che ho proposto nell’Enciclica Fratelli tutti. Sì, la speranza del mondo sta nella fraternità! Ed è bello pensare che la nostra Città nei mesi scorsi è diventata un cantiere per questa finalità, con questo senso complessivo: prepararsi ad accogliere uomini e donne di tutto il mondo, cattolici e cristiani delle altre confessioni, credenti di ogni religione, cercatori di verità, di libertà, di giustizia e di pace, tutti pellegrini di speranza e di fraternità.
[…]
E allora, mentre ammiriamo con gratitudine i risultati dei lavori compiuti in città – ringraziamo per il lavoro di tanti, tanti uomini e donne che lo hanno fatto, e ringraziamo il Signor Sindaco per questo lavoro di portare avanti la città –, prendiamo coscienza di quale sia il cantiere decisivo, il cantiere che coinvolge ognuno di noi: questo cantiere è quello in cui, ogni giorno, permetterò a Dio di cambiare in me ciò che non è degno di un figlio – cambiare! –, ciò che non è umano, e in cui mi impegnerò, ogni giorno, a vivere da fratello e sorella del mio prossimo.
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Ci aiuti la nostra Santa Madre a camminare insieme, come pellegrini di speranza, sulla via della fraternità. Il Signore ci benedica, tutti noi; ci perdoni i peccati e ci dia la forza per andare avanti nel nostro pellegrinaggio nel prossimo anno. Grazie.
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