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UDIENZE
UDIENZA GENERALE
Biblioteca del Palazzo Apostolico
Mercoledì, 17 marzo 2021
Catechesi sulla preghiera: 26. La preghiera e la Trinità. 2
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Dopo domani celebreremo la Solennità di San Giuseppe. Mi è particolarmente gradito indicarvi l’esempio di questo grande Santo ed affidare a Lui la vostra esistenza. Siate saggi come Lui, pronti a comprendere e mettere in pratica il Vangelo. Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani e ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Nella vita, nel lavoro, nella famiglia, nei momenti di gioia e di dolore San Giuseppe ha costantemente cercato e amato il Signore, meritando l’elogio della Scrittura come uomo giusto e saggio. Invocatelo sempre, specialmente nei momenti difficili che potrete incontrare. A tutti la mia benedizione!
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UDIENZA GENERALE
Cortile di San Damaso
Mercoledì, 9 giugno 2021
Catechesi sulla preghiera - 37. Perseverare nell’amore
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Come è dunque possibile custodire sempre uno stato di preghiera? Il Catechismo ci offre bellissime citazioni, tratte dalla storia della spiritualità, che insistono sulla necessità di una preghiera continua, che sia il fulcro dell’esistenza cristiana. Ne riprendo alcune.
Afferma il monaco Evagrio Pontico: «Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare e di digiunare continuamente – no, questo non è stato domandato -, mentre la preghiera incessante è una legge per noi» (n. 2742). Il cuore in preghiera. C’è dunque un ardore nella vita cristiana, che non deve mai venire meno. È un po’ come quel fuoco sacro che si custodiva nei templi antichi, che ardeva senza interruzione e che i sacerdoti avevano il compito di tenere alimentato. Ecco: ci deve essere un fuoco sacro anche in noi, che arda in continuazione e che nulla possa spegnere. E non è facile, ma deve essere così.
San Giovanni Crisostomo, un altro pastore attento alla vita concreta, predicava così: «Anche al mercato o durante una passeggiata solitaria è possibile fare una frequente e fervorosa preghiera. È possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comperate sia mentre vendete, o anche mentre cucinate» (n. 2743). Piccole preghiere: “Signore, abbi pietà di noi”, “Signore, aiutami”. Dunque, la preghiera è una sorta di rigo musicale, dove noi collochiamo la melodia della nostra vita. Non è in contrasto con l’operosità quotidiana, non entra in contraddizione con i tanti piccoli obblighi e appuntamenti, semmai è il luogo dove ogni azione ritrova il suo senso, il suo perché, la sua pace.
Certo, mettere in pratica questi principi non è facile. Un papà e una mamma, presi da mille incombenze, possono sentire nostalgia per un periodo della loro vita in cui era facile trovare tempi cadenzati e spazi di preghiera. Poi, i figli, il lavoro, le faccende della vita famigliare, i genitori che diventano anziani… Si ha l’impressione di non riuscire mai ad arrivare in capo a tutto. Allora fa bene pensare che Dio, nostro Padre, il quale deve occuparsi di tutto l’universo, si ricorda sempre di ognuno noi. Dunque, anche noi dobbiamo sempre ricordarci di Lui!
Possiamo poi ricordare che nel monachesimo cristiano è sempre stato tenuto in grande onore il lavoro, non solo per il dovere morale di provvedere a sé stessi e agli altri, ma anche per una sorta di equilibrio, un equilibrio interiore: è rischioso per l’uomo coltivare un interesse talmente astratto da perdere il contatto con la realtà. Il lavoro ci aiuta a rimanere in contatto con la realtà. Le mani giunte del monaco portano i calli di chi impugna badile e zappa. Quando, nel Vangelo di Luca (cfr 10,38-42), Gesù dice a Santa Marta che la sola cosa veramente necessaria è ascoltare Dio, non vuol affatto disprezzare i molti servizi che lei stava compiendo con tanto impegno.
Nell’essere umano tutto è “binario”: il nostro corpo è simmetrico, abbiamo due braccia, due occhi, due mani... Così anche il lavoro e la preghiera sono complementari. La preghiera – che è il “respiro” di tutto – rimane come il sottofondo vitale del lavoro, anche nei momenti in cui non è esplicitata. È disumano essere talmente assorbiti dal lavoro da non trovare più il tempo per la preghiera.
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UDIENZA GENERALE
Cortile di San Damaso
Mercoledì, 30 giugno 2021
(…) Qui, in Vaticano, c’è tanta varietà di gente che lavora: i preti, i cardinali, le suore, tanti laici, tanti; e oggi io vorrei soffermarmi per ringraziare un laico, che oggi va in pensione, Renzo Cestiè. Lui ha incominciato a lavorare a 14 anni, veniva in bicicletta. Oggi è l’autista del Papa: ha fatto tutto questo. Un applauso a Renzo e alla sua fedeltà! È una di quelle persone che porta avanti la Chiesa con il suo lavoro, con la sua benevolenza e con la sua preghiera. Lo ringrazio tanto e anche approfitto dell’opportunità per ringraziare tutti i laici che lavorano con noi in Vaticano.
Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, l’esempio e la costante protezione di queste colonne della Chiesa sostengano ciascuno di voi nello sforzo di seguire Cristo.
A tutti la mia Benedizione.
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UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 25 agosto 2021
Catechesi sulla Lettera ai Galati - 6. I pericoli della Legge
Fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Nella Bibbia si trovano diversi esempi in cui si combatte l’ipocrisia. Una bella testimonianza per combattere l’ipocrisia è quella del vecchio Eleazaro, al quale veniva chiesto di fingere di mangiare la carne sacrificata alle divinità pagane pur di salvare la sua vita: far finta che la mangiava, ma non la mangiava. O far finta che mangiava la carne suina ma gli amici gliene avevano preparata un’altra. Ma quell’uomo timorato di Dio rispose: «Non è affatto degno della nostra età fingere, con il pericolo che molti giovani, pensando che a novant’anni Eleazaro sia passato alle usanze straniere, a loro volta, per colpa della mia finzione per appena un po’ più di vita, si perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia» (2 Mac 6,24-25). Onesto: non entra sulla strada dell’ipocrisia. Che bella pagina su cui riflettere per allontanarsi dall’ipocrisia! Anche i Vangeli riportano diverse situazioni in cui Gesù rimprovera fortemente coloro che appaiono giusti all’esterno, ma dentro sono pieni di falsità e d’iniquità (cfr Mt 23,13-29). Se avete un po’ di tempo oggi prendete il capitolo 23 del Vangelo di San Matteo e vedete quante volte Gesù dice: “ipocriti, ipocriti, ipocriti”, e svela cosa sia l’ipocrisia.
L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di confrontarsi con la verità. Per questo, non è capace di amare veramente – un ipocrita non sa amare – si limita a vivere di egoismo e non ha la forza di mostrare con trasparenza il suo cuore. Ci sono molte situazioni in cui si può verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro, dove si cerca di apparire amici con i colleghi mentre la competizione porta a colpirli alle spalle. Nella politica non è inusuale trovare ipocriti che vivono uno sdoppiamento tra il pubblico e il privato. È particolarmente detestabile l’ipocrisia nella Chiesa, e purtroppo esiste l’ipocrisia nella Chiesa, e ci sono tanti cristiani e tanti ministri ipocriti. Non dovremmo mai dimenticare le parole del Signore: “Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno” (Mt 5,37). Fratelli e sorelle, pensiamo oggi a ciò che Paolo condanna e che Gesù condanna: l’ipocrisia. E non abbiamo paura di essere veritieri, di dire la verità, di sentire la verità, di conformarci alla verità. Così potremo amare. Un ipocrita non sa amare. Agire altrimenti dalla verità significa mettere a repentaglio l’unità nella Chiesa, quella per la quale il Signore stesso ha pregato.
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UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 8 settembre 2021
Catechesi sulla Lettera ai Galati - 8. Siamo figli di Dio
Fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) L’Apostolo afferma con grande audacia che quella ricevuta con il battesimo è un’identità totalmente nuova, tale da prevalere rispetto alle differenze che ci sono sul piano etnico-religioso. Cioè, lo spiega così: «non c’è Giudeo né Greco»; e anche su quello sociale: «non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28). Si leggono spesso con troppa fretta queste espressioni, senza cogliere il valore rivoluzionario che possiedono. Per Paolo, scrivere ai Galati che in Cristo “non c’è Giudeo né Greco” equivaleva a un’autentica sovversione in ambito etnico-religioso. Il Giudeo, per il fatto di appartenere al popolo eletto, era privilegiato rispetto al pagano (cfr Rm 2,17-20), e Paolo stesso lo afferma (cfr Rm 9,4-5). Non stupisce, dunque, che questo nuovo insegnamento dell’Apostolo potesse suonare come eretico. “Ma come, uguali tutti? Siamo differenti!”. Suona un po’ eretico, no? Anche la seconda uguaglianza, tra “liberi” e “schiavi”, apre prospettive sconvolgenti. Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo succede anche oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù. Pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana, sono schiavi. Così infine, l’uguaglianza in Cristo supera la differenza sociale tra i due sessi, stabilendo un’uguaglianza tra uomo e donna allora rivoluzionaria e che c’è bisogno di riaffermare anche oggi. C’è bisogno di riaffermarla anche oggi. Quante volte noi sentiamo espressioni che disprezzano le donne! Quante volte abbiamo sentito: “Ma no, non fare nulla, [sono] cose di donne”. Ma guarda che uomo e donna hanno la stessa dignità, e c’è nella storia, anche oggi, una schiavitù delle donne: le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini. Dobbiamo leggere quello che dice Paolo: siamo uguali in Cristo Gesù.
Come si può vedere, Paolo afferma la profonda unità che esiste tra tutti i battezzati, a qualsiasi condizione appartengano, siano uomini o donne, uguali, perché ciascuno di loro, in Cristo, è una creatura nuova. Ogni distinzione diventa secondaria rispetto alla dignità di essere figli di Dio, il quale con il suo amore realizza una vera e sostanziale uguaglianza. Tutti, tramite la redenzione di Cristo e il battesimo che abbiamo ricevuto, siamo uguali: figli e figlie di Dio. Uguali. (…)
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UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 3 novembre 2021
Catechesi sulla Lettera ai Galati: 14. Camminare secondo lo Spirito
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) In effetti, quando siamo tentati di giudicare male gli altri, come spesso avviene, dobbiamo anzitutto riflettere sulla nostra fragilità. Quanto facile è criticare gli altri! Ma c’è gente che sembra di essere laureata in chiacchiericcio. Tutti i giorni criticano gli altri. Ma guarda te stesso! È bene domandarci che cosa ci spinge a correggere un fratello o una sorella, e se non siamo in qualche modo corresponsabili del suo sbaglio. Lo Spirito Santo, oltre a farci dono della mitezza, ci invita alla solidarietà, a portare i pesi degli altri. Quanti pesi sono presenti nella vita di una persona: la malattia, la mancanza di lavoro, la solitudine, il dolore…! E quante altre prove che richiedono la vicinanza e l’amore dei fratelli! Ci possono aiutare anche le parole di Sant’Agostino quando commenta questo stesso brano: «Perciò, fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, […] correggetelo in questa maniera, con mitezza. E se tu alzi la voce, ama interiormente. Sia che incoraggi, che ti mostri paterno, che rimproveri, che sia severo, ama» (Discorsi 163/B 3). Ama sempre. La regola suprema della correzione fraterna è l’amore: volere il bene dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Si tratta di tollerare i problemi degli altri, i difetti degli altri in silenzio nella preghiera, per poi trovare la strada giusta per aiutarlo a correggersi. E questo non è facile. La strada più facile è il chiacchiericcio. "Spellare" l’altro come se io fossi perfetto. E questo non si deve fare. Mitezza. Pazienza. Preghiera. Vicinanza.
Camminiamo con gioia e con pazienza su questa strada, lasciandoci guidare dallo Spirito Santo.
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UDIENZA GENERALE
Basilica di San Pietro e Aula Paolo VI
Mercoledì, 24 novembre 2021
Catechesi su San Giuseppe - 2. San Giuseppe nella storia della salvezza
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) L’evangelista Matteo ci aiuta a comprendere che la figura di Giuseppe, seppur apparentemente marginale, discreta, in seconda linea, rappresenta invece un tassello centrale nella storia della salvezza. Giuseppe vive il suo protagonismo senza mai volersi impadronire della scena. Se ci pensiamo, «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste […]. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli, con gesti quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti» (Lett. ap. Patris corde, 1) . Così, tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, della presenza discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. Egli ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. Il mondo ha bisogno di questi uomini e di queste donne: uomini e donne in seconda linea, ma che sostengono lo sviluppo della nostra vita, di ognuno di noi, e che con la preghiera, con l’esempio, con l’insegnamento ci sostengono sulla strada della vita.
Nel Vangelo di Luca, Giuseppe appare come il custode di Gesù e di Maria. E per questo egli è anche «il Custode della Chiesa”: ma, se è stato il custode di Gesù e di Maria, lavora, adesso che sei nei cieli, e continua a fare il custode, in questo caso della Chiesa; perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria. Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa – per favore, non dimenticatevi di questo: oggi, Giuseppe protegge la Chiesa – continua a proteggere il Bambino e sua madre» (ibid., 5). Questo aspetto della custodia di Giuseppe è la grande risposta al racconto della Genesi. Quando Dio chiede conto a Caino della vita di Abele, egli risponde: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (4,9). Giuseppe, con la sua vita, sembra volerci dire che siamo chiamati sempre a sentirci custodi dei nostri fratelli, custodi di chi ci è messo accanto, di chi il Signore ci affida attraverso tante circostanze della vita.
Una società come la nostra, che è stata definita “liquida”, perché sembra non avere consistenza. Io correggerò quel filosofo che ha coniato questa definizione e dirò: più che liquida, gassosa, una società propriamente gassosa. Questa società liquida, gassosa trova nella storia di Giuseppe un’indicazione ben precisa sull’importanza dei legami umani. Infatti, il Vangelo ci racconta la genealogia di Gesù, oltre che per una ragione teologica, per ricordare a ognuno di noi che la nostra vita è fatta di legami che ci precedono e ci accompagnano. Il Figlio di Dio, per venire al mondo, ha scelto la via dei legami, la via della storia: non è sceso nel mondo magicamente, no. Ha fatto la strada storica che facciamo tutti noi.
Cari fratelli e sorelle, penso a tante persone che fanno fatica a ritrovare dei legami significativi nella loro vita, e proprio per questo arrancano, si sentono soli, non hanno la forza e il coraggio per andare avanti. Vorrei concludere con una preghiera che aiuti loro e tutti noi a trovare in San Giuseppe un alleato, un amico e un sostegno.
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UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 15 dicembre 2021
Catechesi su San Giuseppe: 4. San Giuseppe uomo del silenzio
Cari fratelli e care sorelle, buongiorno!
(…) La sapienza biblica afferma che «morte e vita sono in potere della lingua: chi ne fa buon uso, ne mangerà i frutti» (Pr 18,21). E l’apostolo Giacomo, nella sua Lettera, sviluppa questo antico tema del potere, positivo e negativo, della parola con esempi folgoranti e dice così: «Se uno non sbaglia nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. […] anche la lingua è un piccolo membro, eppure si vanta di grandi cose. […] Con essa benediciamo il Signore e Padre; e con essa malediciamo gli uomini, che sono fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca escono benedizioni e maledizioni” (3,2-10).
Questo è il motivo per cui dobbiamo imparare da Giuseppe a coltivare il silenzio: quello spazio di interiorità nelle nostre giornate in cui diamo la possibilità allo Spirito di rigenerarci, di consolarci, di correggerci. Non dico di cadere in un mutismo, no, ma di coltivare il silenzio. Ognuno guardi dentro a se stesso: tante volte stiamo facendo un lavoro e quando finiamo subito cerchiamo il telefonino per fare un’altra cosa, sempre stiamo così. E questo non aiuta, questo ci fa scivolare nella superficialità. La profondità del cuore cresce col silenzio, silenzio che non è mutismo, come ho detto, ma che lascia spazio alla saggezza, alla riflessione e allo Spirito Santo. Noi a volte abbiamo paura dei momenti di silenzio, ma non dobbiamo avere paura! Ci farà tanto bene il silenzio. E il beneficio del cuore che ne avremo guarirà anche la nostra lingua, le nostre parole e soprattutto le nostre scelte. Infatti Giuseppe ha unito al silenzio l’azione. Egli non ha parlato, ma ha fatto, e ci ha mostrato così quello che un giorno Gesù disse ai suoi discepoli: «Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
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ANGELUS
ANGELUS
Biblioteca del Palazzo Apostolico
Venerdì, 1° gennaio 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buon anno!
(…) La Vergine Maria, che ha dato alla luce il «Principe della pace» (Is 9,6) e che lo coccola così, con tanta tenerezza, tra le sue braccia, ci ottenga dal Cielo il bene prezioso della pace, che con le sole forze umane non si riesce a perseguire in pienezza. Le sole forze umane non bastano, perché la pace è anzitutto dono, un dono di Dio; va implorata con incessante preghiera, sostenuta con un dialogo paziente e rispettoso, costruita con una collaborazione aperta alla verità e alla giustizia e sempre attenta alle legittime aspirazioni delle persone e dei popoli. Il mio auspicio è che regni la pace nel cuore degli uomini e nelle famiglie; nei luoghi di lavoro e di svago; nelle comunità e nelle nazioni. Nelle famiglie, nel lavoro, nelle nazioni: pace, pace. È ora che pensiamo che la vita oggi è sistemata dalle guerre, dalle inimicizie, da tante cose che distruggono… Vogliamo pace. E questa è un dono.
Sulla soglia di questo inizio, a tutti rivolgo il mio cordiale augurio di un felice e sereno 2021. Ognuno di noi cerchi di far sì che sia un anno di fraterna solidarietà e di pace per tutti; un anno carico di fiduciosa attesa e di speranze, che affidiamo alla protezione di Maria, madre di Dio e madre nostra.
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 18 luglio 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’atteggiamento di Gesù, che osserviamo nel Vangelo della Liturgia odierna (Mc 6,30-34), ci aiuta a cogliere due aspetti importanti della vita. Il primo è il riposo. Agli Apostoli, che tornano dalle fatiche della missione e con entusiasmo si mettono a raccontare tutto quello che hanno fatto, Gesù rivolge con tenerezza un invito: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (v. 31). Invita al riposo.
Così facendo, Gesù ci dà un insegnamento prezioso. Anche se gioisce nel vedere i suoi discepoli felici per i prodigi della predicazione, non si dilunga in complimenti e domande, ma si preoccupa della loro stanchezza fisica e interiore. E perché fa questo? Perché li vuole mettere in guardia da un pericolo, che è sempre in agguato anche per noi: il pericolo di lasciarsi prendere dalla frenesia del fare, cadere nella trappola dell’attivismo, dove la cosa più importante sono i risultati che otteniamo e il sentirci protagonisti assoluti. Quante volte accade anche nella Chiesa: siamo indaffarati, corriamo, pensiamo che tutto dipenda da noi e, alla fine, rischiamo di trascurare Gesù e torniamo sempre noi al centro. Per questo Egli invita i suoi a riposare un po’ in disparte, con Lui. Non è solo riposo fisico, è anche riposo del cuore. Perché non basta “staccare la spina”, occorre riposare davvero. E come si fa questo? Per farlo, bisogna ritornare al cuore delle cose: fermarsi, stare in silenzio, pregare, per non passare dalle corse del lavoro alle corse delle ferie. Gesù non si sottraeva ai bisogni della folla, ma ogni giorno, prima di ogni cosa, si ritirava in preghiera, in silenzio, nell’intimità con il Padre. Il suo tenero invito – riposatevi un po’ – dovrebbe accompagnarci: guardiamoci, fratelli e sorelle, dall’efficientismo, fermiamo la corsa frenetica che detta le nostre agende. Impariamo a sostare, a spegnere il telefonino, a contemplare la natura, a rigenerarci nel dialogo con Dio.
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 8 agosto 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona. Non un pane tra tanti altri, ma il pane della vita. In altre parole, noi, senza di Lui, più che vivere, vivacchiamo: perché solo Lui ci nutre l’anima, solo Lui ci perdona da quel male che da soli non riusciamo a superare, solo Lui ci fa sentire amati anche se tutti ci deludono, solo Lui ci dà la forza di amare, solo Lui ci dà la forza di perdonare nelle difficoltà, solo Lui dà al cuore quella pace di cui va in cerca, solo Lui dà la vita per sempre quando la vita quaggiù finisce. E’ il pane essenziale della vita. (…)
Nel Vangelo, però, anziché stupirsi, la gente si scandalizza, si strappa le vesti. Pensano: “Questo Gesù noi lo conosciamo, conosciamo la sua famiglia, come può dire: Sono il pane disceso dal cielo?” (cfr vv. 41-42). Anche noi forse ci scandalizziamo: ci farebbe più comodo un Dio che sta in Cielo senza immischiarsi nella nostra vita, mentre noi possiamo gestire le faccende di quaggiù. Invece Dio si è fatto uomo per entrare nella concretezza del mondo, per entrare nella nostra concretezza, Dio si è fatto uomo per me, per te, per tutti noi, per entrare nella nostra vita. E tutto della nostra vita gli interessa. Gli possiamo raccontare gli affetti, il lavoro, la giornata, i dolori, le angosce, tante cose. Gli possiamo dire tutto perché Gesù desidera questa intimità con noi. Che cosa non desidera? Essere relegato a contorno – Lui che è il pane –, essere trascurato e messo da parte, o chiamato in causa solo quando ne abbiamo bisogno.
Io sono il pane della vita. Almeno una volta al giorno ci troviamo a prendere cibo insieme; magari la sera, in famiglia, dopo una giornata di lavoro o di studio. Sarebbe bello, prima di spezzare il pane, invitare Gesù, pane di vita, chiedergli con semplicità di benedire quello che abbiamo fatto e quello che non siamo riusciti a fare. Invitiamolo a casa, preghiamo in stile “domestico”. Gesù sarà a mensa con noi e saremo sfamati da un amore più grande.
La Vergine Maria, nella quale il Verbo si è fatto carne, ci aiuti a crescere giorno dopo giorno nell’amicizia di Gesù, pane di vita.
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 19 settembre 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo della Liturgia odierna (Mc 9,30-37) narra che, lungo il cammino verso Gerusalemme, i discepoli di Gesù discutevano su chi «tra loro fosse più grande» (v. 34). Allora Gesù rivolse loro una frase forte, che vale anche per noi oggi: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (v. 35). Se tu vuoi essere il primo, devi andare in coda, essere l’ultimo, e servire tutti. Mediante questa frase lapidaria, il Signore inaugura un capovolgimento: rovescia i criteri che segnano che cosa conta davvero. Il valore di una persona non dipende più dal ruolo che ricopre, dal successo che ha, dal lavoro che svolge, dai soldi in banca; no, no, non dipende da quello; la grandezza e la riuscita, agli occhi di Dio, hanno un metro diverso: si misurano sul servizio. Non su quello che si ha, ma su quello che si dà. Vuoi primeggiare? Servi. Questa è la strada.
Oggi la parola “servizio” appare un po’ sbiadita, logorata dall’uso. Ma nel Vangelo ha un significato preciso e concreto. Servire non è un’espressione di cortesia: è fare come Gesù, il quale, riassumendo in poche parole la sua vita, ha detto di essere venuto «non per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Così ha detto il Signore. Dunque, se vogliamo seguire Gesù, dobbiamo percorrere la via che Lui stesso ha tracciato, la via del servizio. La nostra fedeltà al Signore dipende dalla nostra disponibilità a servire. E questo, lo sappiamo, costa, perché “sa di croce”. Ma, mentre crescono la cura e la disponibilità verso gli altri, diventiamo più liberi dentro, più simili a Gesù. Più serviamo, più avvertiamo la presenza di Dio. Soprattutto quando serviamo chi non ha da restituirci, i poveri, abbracciandone le difficoltà e i bisogni con la tenera compassione: e lì scopriamo di essere a nostra volta amati e abbracciati da Dio.
Gesù, proprio per illustrare questo, dopo aver parlato del primato del servizio, compie un gesto. Abbiamo visto che i gesti di Gesù sono più forti delle parole che usa. E qual è il gesto? Prende un bambino e lo pone in mezzo ai discepoli, al centro, nel luogo più importante (cfr v. 36). Il bambino, nel Vangelo, non simboleggia tanto l’innocenza, quanto la piccolezza. Perché i piccoli, come i bambini, dipendono dagli altri, dai grandi, hanno bisogno di ricevere. Gesù abbraccia quel bambino e dice che chi accoglie un piccolo, un bambino, accoglie Lui (cfr v. 37). Ecco anzitutto chi servire: quanti hanno bisogno di ricevere e non hanno da restituire. Servire coloro che hanno bisogno di ricevere e non hanno da restituire. Accogliendo chi è ai margini, trascurato, accogliamo Gesù, perché Egli sta lì. E in un piccolo, in un povero che serviamo riceviamo anche noi l’abbraccio tenero di Dio.
Cari fratelli e sorelle, interpellati dal Vangelo, facciamoci delle domande: io, che seguo Gesù, mi interesso a chi è più trascurato? Oppure, come i discepoli quel giorno, vado in cerca di gratificazioni personali? Intendo la vita come una competizione per farmi spazio a discapito degli altri oppure credo che primeggiare significa servire? E, concretamente: dedico tempo a qualche “piccolo”, a una persona che non ha i mezzi per contraccambiare? Mi occupo di qualcuno che non può restituirmi o solo dei miei parenti e amici? Sono domande che noi possiamo farci.
La Vergine Maria, umile serva del Signore, ci aiuti a comprendere che servire non ci fa diminuire, ma ci fa crescere. E che c’è più gioia nel dare che nel ricevere (cfr At 20,35).
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 17 ottobre 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Siamo di fronte a due logiche diverse: i discepoli vogliono emergere e Gesù vuole immergersi. Fermiamoci su questi due verbi. Il primo è emergere. Esprime quella mentalità mondana da cui siamo sempre tentati: vivere tutte le cose, perfino le relazioni, per alimentare la nostra ambizione, per salire i gradini del successo, per raggiungere posti importanti. La ricerca del prestigio personale può diventare una malattia dello spirito, mascherandosi perfino dietro a buone intenzioni; ad esempio quando, dietro al bene che facciamo e predichiamo, cerchiamo in realtà solo noi stessi e la nostra affermazione, cioè andare avanti noi, arrampicarci… E questo anche nella Chiesa lo vediamo. Quante volte, noi cristiani, che dovremmo essere i servitori, cerchiamo di arrampicarci, di andare avanti. Sempre, perciò, abbiamo bisogno di verificare le vere intenzioni del cuore, di chiederci: “Perché porto avanti questo lavoro, questa responsabilità? Per offrire un servizio oppure per essere notato, lodato e ricevere complimenti?”. A questa logica mondana, Gesù contrappone la sua: invece di innalzarsi sopra gli altri, scendere dal piedistallo per servirli; invece di emergere sopra gli altri, immergersi nella vita degli altri. Stavo vedendo nel programma “A sua immagine” quel servizio delle Caritas perché a nessuno manchi il cibo: preoccuparsi della fame degli altri, preoccuparsi dei bisogni degli altri. Sono tanti, tanti i bisognosi oggi, e dopo la pandemia di più. Guardare e abbassarsi nel servizio, e non cercare di arrampicarsi per la propria gloria.
Ecco dunque il secondo verbo: immergersi. Gesù ci chiede di immergerci. E come immergersi? Con compassione, nella vita di chi incontriamo. Lì [in quel servizio della Caritas] stavamo vedendo la fame: e noi, pensiamo con compassione alla fame di tanta gente? Quando siamo davanti al pasto, che è una grazia di Dio e che noi possiamo mangiare, c’è tanta gente che lavora e non riesce ad avere il pasto sufficiente per tutto il mese. Pensiamo a questo? Immergersi con compassione, avere compassione. Non è un dato di enciclopedia: ci sono tanti affamati… No! Sono persone. E io ho compassione per le persone? Compassione della vita di chi incontriamo, come ha fatto Gesù con me, con te, con tutti noi, si è avvicinato con compassione. (…)
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Mercoledì, 8 dicembre 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Tra le mura della casa di Nazaret vediamo così un tratto meraviglioso. Com’è il cuore di Maria? Ricevuto il più alto dei complimenti, si turba perché sente rivolto a sé quanto non attribuiva a sé stessa. Maria, infatti, non si attribuisce prerogative, non rivendica qualcosa, non ascrive nulla a suo merito. Non si autocompiace, non si esalta. Perché nella sua umiltà sa di ricevere tutto da Dio. È dunque libera da sé stessa, tutta rivolta a Dio e agli altri. Maria Immacolata non ha occhi per sé. Ecco l’umiltà vera: non avere occhi per sé, ma per Dio e per gli altri.
Ricordiamoci che questa perfezione di Maria, la piena di grazia, viene dichiarata dall’angelo tra le mura di casa sua: non nella piazza principale di Nazaret, ma lì, nel nascondimento, nella più grande umiltà. In quella casetta a Nazaret palpitava il cuore più grande che una creatura abbia mai avuto.
Cari fratelli e sorelle, è una notizia straordinaria per noi! Perché ci dice che il Signore, per compiere meraviglie, non ha bisogno di grandi mezzi e delle nostre capacità eccelse, ma della nostra umiltà, del nostro sguardo aperto a Lui e anche aperto agli altri. Con quell’annuncio, tra le povere mura di una piccola casa, Dio ha cambiato la storia. Anche oggi desidera fare grandi cose con noi nella quotidianità: cioè in famiglia, al lavoro, negli ambienti di ogni giorno. Lì, più che nei grandi eventi della storia, la grazia di Dio ama operare. Ma, mi domando, ci crediamo? Oppure pensiamo che la santità sia un’utopia, qualcosa per gli addetti ai lavori, una pia illusione incompatibile con la vita ordinaria?
Chiediamo alla Madonna una grazia: che ci liberi dall’idea fuorviante che una cosa è il Vangelo e un’altra la vita; che ci accenda di entusiasmo per l’ideale della santità, che non è questione di santini e immaginette, ma di vivere ogni giorno quello che ci capita umili e gioiosi, come la Madonna, liberi da noi stessi, con gli occhi rivolti a Dio e al prossimo che incontriamo. Per favore, non perdiamoci di coraggio: a tutti il Signore ha dato una stoffa buona per tessere la santità nella vita quotidiana! E quando ci assale il dubbio di non farcela, o la tristezza di essere inadeguati, lasciamoci guardare dagli “occhi misericordiosi” della Madonna, perché nessuno che abbia chiesto il suo soccorso è stato mai abbandonato!
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ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 12 dicembre 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Rivolgo anche i miei auguri a Caritas Internationalis, che compie 70 anni. È ragazzina! Deve crescere e fortificarsi di più! Caritas è in tutto il mondo la mano amorevole della Chiesa per i poveri e i più vulnerabili, nei quali è presente Cristo. Vi invito a portare avanti il vostro servizio con umiltà e con creatività, per raggiungere i più emarginati e favorire lo sviluppo integrale come antidoto alla cultura dello scarto e dell’indifferenza. In particolare, incoraggio la vostra campagna globale Insieme Noi (Together We), fondata sulla forza delle comunità nel promuovere la cura del creato e dei poveri. Le ferite inferte alla nostra casa comune hanno effetti drammatici sugli ultimi, ma le comunità possono contribuire alla necessaria conversione ecologica. Per questo invito ad aderire alla campagna di Caritas Internationalis! E voi, cari amici di Caritas Internationalis, continuate il vostro lavoro di snellire l’organizzazione, perché i soldi non vadano all’organizzazione ma ai poveri. Snellite bene questa organizzazione.
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SALUTI
(…) Vorrei sottolineare due aspetti importanti dell’attività sportiva. (…)
Il primo è fare squadra. Ci sono alcuni sport che vengono chiamati “individuali”; tuttavia, lo sport aiuta sempre a far entrare le persone in contatto tra di loro, a far nascere relazioni anche tra persone diverse, spesso sconosciute, che pur provenendo da contesti differenti si uniscono e lottano per un traguardo comune. Sono due cose importanti: essere uniti e avere un obiettivo. In questo senso, lo sport è una medicina per l’individualismo delle nostre società, che spesso genera un io isolato e triste, rendendoci incapaci di “fare gioco di squadra” e di coltivare la passione per qualche buon ideale. Così, attraverso il vostro impegno sportivo voi ricordate il valore della fraternità, che è anche al cuore del Vangelo.
Un secondo aspetto, un’attitudine dello sportivo è la disciplina. Tanti giovani e adulti che sono appassionati allo sport e vi seguono tifando per voi, a volte non riescono a immaginare quanto lavoro e quanto allenamento ci sia dietro una gara. E questo richiede tanta disciplina non solo fisica, ma anche interiore: l’esercizio fisico, la costanza, l’attenzione a una vita ordinata negli orari e nell’alimentazione, il riposo alternato alla fatica dell’allenamento. Questa disciplina è una scuola di formazione e di educazione, specialmente per i ragazzi e per i giovani. Li aiuta a capire quanto è importante – e scusate se cito Sant’Ignazio di Loyola – imparare a “mettere ordine nella propria vita”. Questa disciplina non ha lo scopo di farci diventare rigidi, ma di renderci responsabili: di noi stessi, delle cose che ci sono affidate, degli altri, della vita in generale. Aiuta anche la vita spirituale, che non può essere lasciata alle sole emozioni né può essere vissuta a fasi alterne, “solo quando mi va”. Anche la vita spirituale ha bisogno di una disciplina interiore fatta di fedeltà, costanza, impegno quotidiano nella preghiera. Senza allenamento interiore costante, la fede rischia di spegnersi. (…)
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DISCORSI
(…) In molte parti del mondo, la crisi ha interessato soprattutto quanti lavorano nei settori informali, i quali sono stati i primi a vedere scomparire i propri mezzi di sussistenza. Vivendo al di fuori dei margini dell’economia formale, non hanno neanche accesso agli ammortizzatori sociali, comprese l’assicurazione contro la disoccupazione e l’assistenza sanitaria. Così, spinti dalla disperazione, tanti hanno cercato altre forme di reddito, esponendosi ad essere sfruttati mediante il lavoro nero o forzato, la prostituzione e varie attività criminali, tra cui la tratta delle persone.
Al contrario, ogni essere umano ha diritto – ha diritto! – e dev’essere messo in condizioni di ottenere «i mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita»..[5] È necessario, infatti, che sia assicurata a tutti la stabilità economica per evitare le piaghe dello sfruttamento e contrastare l’usura e la corruzione, che affliggono molti Paesi nel mondo, e tante altre ingiustizie che si consumano ogni giorno di fronte agli occhi stanchi e distratti della nostra società contemporanea.
Il maggior tempo trascorso in casa ha portato pure a stare più a lungo in modo alienante davanti al computer e ad altri mezzi di comunicazione, con gravi ricadute sulle persone più vulnerabili, specialmente i poveri e disoccupati. Essi sono più facili prede della criminalità informatica – il cybercrime – nei suoi risvolti più disumanizzanti, dalle frodi alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione, compresa quella infantile, nonché alla pedopornografia.
(…)
In diversi casi le crisi umanitarie sono aggravate dalle sanzioni economiche, le quali, il più delle volte, finiscono per ripercuotersi principalmente sulle fasce più deboli della popolazione, anziché sui responsabili politici. Pertanto, pur comprendendo la logica delle sanzioni, la Santa Sede non ne vede l’efficacia e auspica un loro allentamento, anche per favorire il flusso di aiuti umanitari, innanzitutto di medicinali e di strumenti sanitari, oltremodo necessari in questo tempo di pandemia. (…)
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Cari fratelli e sorelle,
(…) L’Italia si trova così da anni con il numero più basso di nascite in Europa, in quello che sta diventando il vecchio Continente non più per la sua gloriosa storia, ma per la sua età avanzata. Questo nostro Paese, dove ogni anno è come se scomparisse una città di oltre duecentomila abitanti, nel 2020 ha toccato il numero più basso di nascite dall’unità nazionale: non solo per il Covid, ma per una continua, progressiva tendenza al ribasso, un inverno sempre più rigido.
Eppure tutto ciò non sembra aver ancora attirato l’attenzione generale, focalizzata sul presente e sull’immediato. Il Presidente della Repubblica ha ribadito l’importanza della natalità, che ha definito «il punto di riferimento più critico di questa stagione», dicendo che «le famiglie non sono il tessuto connettivo dell’Italia, le famiglie sono l’Italia» (Udienza al Forum delle associazioni familiari, 11 febbraio 2020). Quante famiglie in questi mesi hanno dovuto fare gli straordinari, dividendo la casa tra lavoro e scuola, con i genitori che hanno fatto da insegnanti, tecnici informatici, operai, psicologi! E quanti sacrifici sono richiesti ai nonni, vere scialuppe di salvataggio delle famiglie! Ma non solo: sono loro la memoria che ci apre al futuro.
Perché il futuro sia buono, occorre dunque prendersi cura delle famiglie, in particolare di quelle giovani, assalite da preoccupazioni che rischiano di paralizzarne i progetti di vita. Penso allo smarrimento per l’incertezza del lavoro, penso ai timori dati dai costi sempre meno sostenibili per la crescita dei figli: sono paure che possono inghiottire il futuro, sono sabbie mobili che possono far sprofondare una società. Penso anche, con tristezza, alle donne che sul lavoro vengono scoraggiate ad avere figli o devono nascondere la pancia. Com’è possibile che una donna debba provare vergogna per il dono più bello che la vita può offrire? Non la donna, ma la società deve vergognarsi, perché una società che non accoglie la vita smette di vivere. I figli sono la speranza che fa rinascere un popolo! Finalmente in Italia si è deciso di trasformare in legge un assegno, definito unico e universale, per ogni figlio che nasce. Esprimo apprezzamento alle autorità e auspico che questo assegno venga incontro ai bisogni concreti delle famiglie, che tanti sacrifici hanno fatto e stanno facendo, e segni l’avvio di riforme sociali che mettano al centro i figli e le famiglie. Se le famiglie non sono al centro del presente, non ci sarà futuro; ma se le famiglie ripartono, tutto riparte. (…)
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Papa Francesco:
Grazie a voi per il vostro lavoro, per quello che fate. Io ho soltanto una preoccupazione – ci sono tanti motivi di preoccuparsi per la Radio, per l’Osservatore – ma una che a me tocca tanto il cuore: quanti ascoltano la Radio, e quanti leggono l’Osservatore Romano? Perché il nostro lavoro è per arrivare alla gente: che quello che si lavora qui, che è bello, è grande, è faticoso, arrivi alla gente, sia con le traduzioni, sia anche con le onde corte, come lei ha detto… La domanda che voi vi dovete fare è: “Quanti? A quanti arriva?”, perché c’è il pericolo – per tutte le organizzazioni – il pericolo di una bella organizzazione, un bel lavoro, ma che non arrivi dove deve arrivare… Un po’ come il racconto del parto del topo: la montagna che partorisce il topolino… Tutti i giorni fatevi questa domanda: a quanta gente arriviamo? A quanti arriva il messaggio di Gesù tramite “L’Osservatore Romano”? Questo è molto importante, molto importante!
(…)
PAROLE DI PAPA FRANCESCO AI REDATTORI IN SALA MARCONI
Papa Francesco:
Grazie tante per il vostro lavoro. Sono contento, vi ho visti tutti insieme, qui. Ho visto questo Palazzo ben sistemato, e questo mi piace. L’unità del lavoro… Il problema è che questo sistema così grande e complicato funzioni. Mi viene in mente un’abitudine in Argentina, quando qualcuno era nominato a una carica importante, la prima cosa che faceva era andare da Nordiska, una ditta per fare gli ambienti, senza guardare la sua scrivania, il suo studio, mandava a fare tutto nuovo, tutto perfetto, bello. La prima decisione che prendeva quel ministro, quel funzionario. Poi, non funzionava. L’importante è che tutta questa bellezza, tutta questa organizzazione funzioni. Funzionare è andare, camminare... Il grande nemico del funzionare bene è il funzionalismo. Per esempio, io sono capo di una sezione, sono il segretario di quella sezione, il capo. Ma ho sette sotto-segretari. Sempre tutto bene, bene. Qualcuno ha una difficoltà, va dal sottosegretario che deve risolvere, che dice: “Aspetta un attimo, poi ti rispondo”. Prende e chiama il segretario… Cioè: non servono. Incapaci di decidere, incapaci di mettere il proprio. Il funzionalismo è letale. Addormenta un’istituzione e la uccide. State attenti a non cadere in questo: non importa quanti posti ci sono, se quello studio è bello o non è bello. Importa che funzioni, che sia funzionale, e non vittima del funzionalismo. State bene attenti, bene attenti a questo. E quando una cosa è funzionale, aiuta la creatività. Il vostro lavoro dev’essere creativo, sempre, e andare oltre, oltre, oltre: creativo. Questo si chiama funzionare. Ma se un lavoro è troppo bene ordinato, alla fine finisce ingabbiato e non aiuta. Questa è l’unica cosa che, vedendo una organizzazione così bella, così ben fatta, vedendovi tutti insieme, mi viene di dire: state attenti! Niente funzionalismo. Sì, funzionale al lavoro, quello che dovete fare. E perché una struttura sia funzionale, bisogna che ognuno abbia la libertà sufficiente per funzionare. Che abbia la capacità di rischiare e non andare a chiedere permesso, permesso, permesso…: questo paralizza. Funzionale, non funzionalistico. Capito? Avanti e coraggio. Grazie!
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Il Progetto Policoro è stato ed è un segno di speranza, soprattutto per tanti territori del Sud d’Italia carenti di lavoro o che sfruttano i lavoratori. Oggi siete chiamati a esserlo in un modo nuovo – essere speranza è un modo nuovo –, perché questo importante anniversario capita in un periodo di forte crisi socio-economica a causa della pandemia. Vorrei suggerire quattro verbi che possano servire per il vostro cammino e perché sia concreto.
Il primo è animare, cioè dare animo. Mai come in questo tempo sentiamo la necessità di giovani che sappiano, alla luce del Vangelo, dare un’anima all’economia, perché siamo consapevoli che «ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie» (Lett. enc. Laudato si’, 219). È il sogno che sta coltivando anche l’iniziativa “Economia di Francesco” – di San Francesco! Voi vi chiamate “animatori di comunità”. In effetti, le comunità vanno animate dal di dentro attraverso uno stile di dedizione: essere costruttori di relazioni, tessitori di un’umanità solidale, nel momento in cui l’economia si “vaporizza” nelle finanze, e questo è una nuova forma più sofisticata della catena di Sant’Antonio che tutti conosciamo. Si tratta di aiutare le parrocchie e le diocesi a camminare e progettare sul «grande tema [che] è il lavoro», cercando di «far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (Lett. enc. Fratelli tutti, 162). È un problema di dignità. La dignità della persona non viene dai soldi, non viene dalle cose che si sanno, viene dal lavoro. Il lavoro è un’unzione di dignità. Chi non lavora non è degno. Così, semplice.
Occuparsi del lavoro è promuovere la dignità della persona. Infatti, il lavoro non nasce dal nulla, ma dall’ingegno e dalla creatività dell’uomo: è un’imitazione di Dio creatore. Voi non siete di quelli che si limitano a lamentele per il lavoro che manca, ma volete essere propositivi, protagonisti, per favorire la crescita di figure imprenditoriali al servizio del bene comune. L’obiettivo da perseguire è quello «dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32). A voi giovani non manca la creatività – non abbiate paura, non abbiate paura –: vi incoraggio a lavorare per un modello di economia alternativo a quello consumistico, che produce scarti. La condivisione, la fraternità, la gratuità e la sostenibilità sono i pilastri su cui fondare un’economia diversa. È un sogno che richiede audacia, infatti sono gli audaci a cambiare il mondo e a renderlo migliore. Non è volontarismo: è fede, perché la vera novità proviene sempre dalle mani di Dio. Questo è animare, il primo verbo.
Il secondo verbo è abitare. Vi chiediamo di mostrarci che è possibile abitare il mondo senza calpestarlo – è importante questo –: sarebbe una bella conquista per tutti! Abitare la terra non vuol dire prima di tutto possederla, no, ma saper vivere in pienezza le relazioni: relazioni con Dio, relazioni con i fratelli, relazioni con il creato e con noi stessi (Lett. enc. Laudato si’, 210). Vi esorto ad amare i territori in cui Dio vi ha posti, evitando la tentazione di fuggire altrove. Anzi, proprio le periferie possono diventare laboratori di fraternità. Dalle periferie spesso nascono esperimenti di inclusione: «da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 215). Possiate aiutare la comunità cristiana ad abitare la crisi della pandemia con coraggio e con speranza. Dio non ci abbandona mai e noi possiamo diventare segno della sua misericordia se sappiamo chinarci sulle povertà del nostro tempo: sui giovani che non trovano lavoro, i cosiddetti Neet, su quelli che soffrono la depressione, su quelli demotivati, su quelli stanchi nella vita, su quelli che hanno smesso di sognare un mondo nuovo. E ci sono giovani che hanno smesso di sognare. È triste, perché la vocazione di un giovane è sognare. Il Servo di Dio Giorgio La Pira sosteneva che la disoccupazione è «uno sperpero di forze produttive».[1]
E poi, in questo momento in Italia, voglio fermarmi su una cosa grave: la disoccupazione che fa sì che tanti giovani cerchino un’alienazione. Voi sapete tante cose… Un numero consistente cerca il suicidio. Poi, alienarsi, andare fuori della vita, in un momento nel quale non siamo nell’estate della vita demografica italiana; siamo nell’inverno! Ci mancano i giovani e per questo i giovani non possono darsi il lusso di non entrare in questo lavoro. La media dell’età in Italia è 47 anni! Beh, siete vecchi. Non ha futuro. “Ma, come posso fare figli se non ho il lavoro?”, “Io, donna, come posso fare i figli, che appena il capo dell’ufficio vede la pancia mi caccia via, a tal punto che la pancia è diventata una vergogna?”. È tutto in un altro modo! Dovete reagire contro questo. Che i giovani incomincino a sognare, a fare i genitori, a fare figli. E per questo, che abbiano dei lavori. Il lavoro è un po’ una garanzia di questo futuro.
Inoltre, è il momento di abitare il sociale, il lavoro e la politica senza paura di sporcarsi le mani. Voi potete dare una mano ad aprire le porte e le finestre delle parrocchie, affinché i problemi della gente entrino sempre più nel cuore delle comunità.
E non abbiate paura di abitare anche i conflitti. Li troviamo nel mondo, ma anche a livello ecclesiale e sociale. Serve la pazienza di trasformarli in capacità di ascolto, di riconoscimento dell’altro, di crescita reciproca. Le tensioni e i conflitti sono parte della vita, ma sappiamo che la loro «risoluzione su di un piano superiore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 228) è il segno che abbiamo puntato più in alto, più in alto dei nostri interessi particolari, per uscire dalle sabbie mobili dell’inimicizia sociale.
Il terzo verbo è appassionarsi. E questo è un po’ di moda dappertutto: l’inimicizia sociale e non l’amicizia sociale alla quale siamo tutti chiamati. Il terzo verbo, forse, è il più giovanile di tutti e quattro: appassionarsi. C’è uno stile che fa la differenza: la passione per Gesù Cristo e per il suo Vangelo. E questo si vede nel “di più” che mettete per accompagnare altri giovani a prendere in mano la loro vita, ad appassionarsi al loro futuro, a formarsi competenze adeguate per il lavoro.(…)
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
(…) A questo proposito, vorrei indicarvi tre strade sulle quali proseguire il vostro impegno.
La prima la prendo dalla figura dell’albergatore nella parabola del buon samaritano: a lui viene chiesto di accogliere l’uomo ferito e di prendersene cura fino al ritorno del samaritano (cfr Lc 10,35). In questo personaggio possiamo vedere due aspetti significativi del lavoro del farmacista ospedaliero: la routine quotidiana e il servizio nascosto. Sono aspetti comuni a molti altri lavori, che richiedono pazienza, costanza e precisione, e che non hanno la gratificazione dell’apparire, hanno poca visibilità. La routine quotidiana e il servizio nascosto non hanno visibilità, poca, diciamo così, poca visibilità. Proprio per questo, se sono accompagnati dalla preghiera e dall’amore, essi generano la “santità del quotidiano”. Perché senza preghiera e senza amore – voi lo sapete bene – questa routine diventa arida. Ma con amore, fatta con amore e con preghiera ti porta alla santità “della porta accanto”: santi anonimi che sono dappertutto perché fanno bene quello che devono fare.
La seconda strada riguarda la dimensione specifica del farmacista ospedaliero, ovvero la sua professionalità, la sua specializzazione post-laurea. Insieme con il clinico, è il farmacista ospedaliero che ricerca, sperimenta, propone percorsi nuovi; sempre nel contatto immediato con il paziente. Si tratta della capacità di comprendere la malattia e il malato, di personalizzare le medicine e i dosaggi, confrontandosi talvolta con le situazioni cliniche più complesse. Il farmacista infatti è in grado di tenere conto degli effetti complessivi, che sono più della semplice somma dei singoli farmaci per le diverse patologie. Talvolta – a seconda delle strutture – si dà l’incontro con la persona malata, altre volte la farmacia ospedaliera è uno dei reparti invisibili che fa funzionare il tutto, ma la persona è sempre la destinataria delle vostre cure.
La terza strada interessa la dimensione etica della professione, sotto due aspetti: quello personale e quello sociale.
Sul piano individuale, il farmacista, ciascuno di voi, adopera sostanze medicinali che possono però trasformarsi in veleni. Qui si tratta di esercitare una costante vigilanza, perché il fine sia sempre la vita del paziente nella sua integralità. Voi siete sempre al servizio della vita umana. E questo può comportare in certi casi l’obiezione di coscienza, che non è infedeltà, ma al contrario fedeltà alla vostra professione, se validamente motivata. Oggi c’è un po’ la moda di pensare che forse sarebbe una buona strada togliere l’obiezione di coscienza. Ma guarda che questa è l’intimità etica di ogni professionista della salute e questo non va negoziato mai, è proprio la responsabilità ultima dei professionisti della salute. Ed è anche denuncia delle ingiustizie compiute ai danni della vita innocente e indifesa.
[1] È un tema molto delicato, che richiede nello stesso tempo grande competenza e grande rettitudine. In particolare, sull’aborto ho avuto occasione di tornare anche recentemente.
[2] Sapete che su questo sono molto chiaro: si tratta di un omicidio e non è lecito diventarne complici. Detto questo, il nostro dovere è la vicinanza, il dovere positivo nostro: stare vicino alle situazioni, specialmente alle donne, perché non si arrivi a pensare alla soluzione abortiva, perché in realtà non è la soluzione. Poi la vita dopo dieci, venti, trent’anni ti passa il conto. E bisogna stare in un confessionale per capire il prezzo, tanto duro, di questo.
Questo era il livello etico personale. C’è poi il livello della giustizia sociale, che è tanto importante: «Le strategie sanitarie, volte al perseguimento della giustizia e del bene comune, devono essere economicamente ed eticamente sostenibili».
[3] Certamente, nel Servizio Sanitario Nazionale italiano, grande spazio occupa l’universalità dell’accesso alle cure, ma il farmacista – anche nelle gerarchie di gestione e amministrazione – non è un mero esecutore. Pertanto i criteri gestionali e finanziari non sono l’unico elemento da prendere in considerazione. La cultura dello scarto non deve intaccare la vostra professione. E anche su questo bisogna essere sempre vigilanti. «Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi: agli uomini e alle donne. Noi abbiamo questo compito! Invece uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura dello scarto”».
[4] Anche negli anziani: dare la metà dei medicinali e così si accorcia la vita… È uno scarto, sì. Questa osservazione, originariamente riferita all’ambiente, vale a maggior ragione per la salute dell’essere umano.
La gestione delle risorse e l’attenzione a non sprecare quanto affidato alle mani di ogni singolo farmacista assumono un significato non solo economico ma etico, anzi, direi umano, molto umano. Pensiamo all’attenzione ai dettagli, all’acquisto e alla conservazione dei prodotti, all’uso corretto e alla destinazione a chi ne abbia necessità e urgenza. Pensiamo al rapporto con i vari operatori – i capisala, gli infermieri, i medici e gli anestesisti – e con tutte le strutture coinvolte.
Vi ringrazio per questa visita, e mi auguro che voi possiate andare avanti nel vostro mestiere così umano, così degno, così grande e tante volte così silenzioso che nessuno se ne accorge. Grazie tante! Che Dio vi benedica tutti. E pregate per me. Grazie!
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Solidarietà, cooperazione, responsabilità: tre parole che in questi giorni ponete come cardini delle vostre riflessioni e che richiamano lo stesso mistero di Dio, che è Trinità. Dio è una comunione di Persone e ci orienta a realizzarci attraverso l’apertura generosa agli altri (solidarietà), attraverso la collaborazione con gli altri (cooperazione), attraverso l’impegno per gli altri (responsabilità). E a farlo in ogni espressione della vita sociale, attraverso le relazioni, il lavoro, l’impegno civile, il rapporto con il creato, la politica: in ogni ambito siamo oggi più che mai tenuti a testimoniare l’attenzione per gli altri, a uscire da noi stessi, a impegnarci con gratuità per lo sviluppo di una società più giusta ed equa, dove non prevalgano gli egoismi e gli interessi di parte. E nello stesso tempo siamo chiamati a vigilare sul rispetto della persona umana, sulla sua libertà, sulla tutela della sua inviolabile dignità. Ecco la missione di attuare la dottrina sociale della Chiesa. (…)
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Cari amici, buongiorno!
(…) Con l’onorificenza data a Valentina e Phil, oggi io voglio in qualche modo rendere omaggio a tutta la vostra comunità di lavoro; per dirvi che il Papa vi vuole bene, vi segue, vi stima, vi considera preziosi. Al giornalismo si arriva non tanto scegliendo un mestiere, quanto lanciandosi in una missione, un po’ come il medico, che studia e lavora perché nel mondo il male sia curato. La vostra missione è di spiegare il mondo, di renderlo meno oscuro, di far sì che chi vi abita ne abbia meno paura e guardi gli altri con maggiore consapevolezza, e anche con più fiducia. È una missione non facile. È complicato pensare, meditare, approfondire, fermarsi per raccogliere le idee e per studiare i contesti e i precedenti di una notizia. Il rischio, lo sapete bene, è quello di lasciarsi schiacciare dalle notizie invece di riuscire a dare ad esse un senso. Per questo vi incoraggio a custodire e coltivare quel senso della missione che è all’origine della vostra scelta. E lo faccio con tre verbi che mi pare possano caratterizzare il buon giornalismo: ascoltare, approfondire, raccontare.
Ascoltare è un verbo che vi riguarda come giornalisti, ma che ci riguarda tutti come Chiesa, in ogni tempo e specialmente ora che è iniziato il processo sinodale. Ascoltare, per un giornalista, significa avere la pazienza di incontrare a tu per tu le persone da intervistare, i protagonisti delle storie che si raccontano, le fonti da cui ricevere notizie. Ascoltare va sempre di pari passo con il vedere, con l’esserci: certe sfumature, sensazioni, descrizioni a tutto tondo possono essere trasmesse ai lettori, ascoltatori e spettatori soltanto se il giornalista ha ascoltato e ha visto di persona. Questo significa sottrarsi – e so quanto è difficile nel vostro lavoro! – sottrarsi alla tirannia dell’essere sempre online, sui social, sul web. Il buon giornalismo dell’ascoltare e del vedere ha bisogno di tempo. Non tutto può essere raccontato attraverso le email, il telefono, o uno schermo. Come ho ricordato nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni di quest’anno, abbiamo bisogno di giornalisti disposti a “consumare le suole delle scarpe”, a uscire dalle redazioni, a camminare per le città, a incontrare le persone, a verificare le situazioni in cui si vive nel nostro tempo. Ascoltare è la prima parola che mi è venuta in mente. (…)
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Sala del Concistoro
Venerdì, 19 Novembre 2021
Eminenza,
Illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!
(…) La piaga dello sfruttamento lavorativo dei bambini, sulla quale quest’oggi vi trovate a riflettere insieme, è di particolare importanza per il presente e per il futuro della nostra umanità. Il modo in cui ci relazioniamo ai bambini, la misura in cui rispettiamo la loro innata dignità umana e i loro diritti fondamentali, esprimono quale tipo di adulti siamo e vogliamo essere e quale tipo di società vogliamo costruire.
Lascia allibiti e turbati il fatto che nelle economie contemporanee, le cui attività produttive si avvalgono delle innovazioni tecnologiche, tanto che si parla di “quarta rivoluzione industriale”, persista in ogni parte del globo l’impiego dei bambini in attività lavorative. Questo pone a rischio la loro salute, il loro benessere psico-fisico e li priva del diritto all’istruzione e a vivere l’infanzia con gioia e serenità. La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione.
Il lavoro minorile non è da confondere con le piccole mansioni domestiche che i bambini, nel loro tempo libero e in base alla loro età, possono svolgere nell’ambito della vita familiare, per aiutare genitori, fratelli, nonni o altri membri della comunità. Queste attività sono in genere favorevoli al loro sviluppo, perché consentono di mettere alla prova le proprie capacità e di crescere in consapevolezza e responsabilità. Il lavoro minorile è tutt’altra cosa! È sfruttamento dei bambini nei processi produttivi dell’economia globalizzata a vantaggio di profitti e di guadagni altrui. È negazione del diritto dei bambini alla salute, all’istruzione, a una crescita armoniosa, che comprenda anche la possibilità di giocare e sognare. Questo è tragico. Un bambino che non può sognare, che non può giocare, non può crescere. È derubare del futuro i bambini e dunque l’umanità stessa. È lesione della dignità umana.
La povertà estrema, la mancanza di lavoro e la conseguente disperazione nelle famiglie sono i fattori che espongono maggiormente i bambini allo sfruttamento lavorativo. Se vogliamo sradicare la piaga del lavoro minorile, dobbiamo lavorare insieme per debellare la povertà, per correggere le storture del sistema economico vigente, che accentra la ricchezza nelle mani di pochi. Dobbiamo incoraggiare gli Stati e gli attori del mondo imprenditoriale a creare opportunità di lavoro dignitoso con salari equi, che consentano di soddisfare le necessità delle famiglie senza che i figli siano costretti a lavorare. Dobbiamo unire i nostri sforzi per favorire in ogni Paese un’istruzione di qualità, gratuita per tutti, così come un sistema sanitario che sia accessibile a tutti indistintamente. Tutti gli attori sociali sono chiamati in causa per contrastare il lavoro minorile e le cause che lo determinano. La partecipazione a questa Conferenza di rappresentanti delle organizzazioni internazionali, della società civile, dell’imprenditoria e della Chiesa è un segno di grande speranza.
Esorto il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, a cui compete anche la promozione dello sviluppo dei bambini, a continuare in quest’opera di stimolo, di facilitazione e di coordinamento delle iniziative e degli sforzi già in atto a tutti i livelli nel contrasto al lavoro minorile. (…)
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
(…) Vi ringrazio per tutto il lavoro che portate avanti, al servizio della vita consacrata nella Chiesa universale. Vorrei dire: al servizio del Vangelo, perché tutto quello che noi facciamo è al servizio del Vangelo, e voi in particolare servite quel “vangelo” che è la vita consacrata, affinché sia tale, sia vangelo per il mondo di oggi. Voglio dirvi la mia riconoscenza e voglio incoraggiarvi, perché so che il vostro compito non è facile. Per questo voglio esprimere la mia vicinanza a tutti coloro che credono nel futuro della vita consacrata. Vi sono vicino.
(…) Penso che il vostro servizio, oggi più che mai, si possa riassumere in due parole: discernere e accompagnare. Conosco la molteplicità delle situazioni con le quali quotidianamente avete a che fare. Situazioni spesso complesse, che richiedono di essere studiate a fondo, nella loro storia, in dialogo con i Superiori degli istituti e con i Pastori. È il lavoro serio e paziente del discernimento, che non può compiersi se non nell’orizzonte della fede e della preghiera. Discernere e accompagnare. Accompagnare specialmente le comunità di recente fondazione, che sono anche più esposte al rischio dell’autoreferenzialità.
(…) Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per il lavoro quotidiano che portate avanti per il discernimento e l’accompagnamento. Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E per favore – come dicono gli spagnoli – “paso la gorra” [chiedo l’elemosina] e vi chiedo di pregare per me che ne ho bisogno. Buon cammino di Avvento e buon Natale!
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Cari ragazzi e ragazze, benvenuti!
(…) Il vostro cammino di fede quest’anno è espresso dallo slogan Su misura per te, ispirato alle lavorazioni di sartoria. Mi piace questo tema, che fa pensare agli abiti preparati su misura, con accessori adeguati alle varie persone. È bello perché ciascuno di noi è una persona unica. Non ce ne sono due uguali, no: una, unica! Non siamo fotocopie, siamo tutti originali! E la cosa brutta è quando vogliamo imitare gli altri e fare le cose che fa la gente, gli altri, e da originali diventeremo fotocopie. Questo è brutto. Ognuno deve difendere la propria originalità. Lo ripeteva spesso il Beato Carlo Acutis, vostro coetaneo. E in effetti è importante che ciascuno indossi ogni giorno con gioia l’“abito” della propria originalità, della propria personalità. Pensate, nella storia non c’è nessuno e non ci sarà mai nessuno uguale a te, a te, a te... Tutti siamo differenti. Ognuno è una bellezza unica e irripetibile. E quando qualcuno fa delle cose brutte, ognuno è una bruttezza unica, irripetibile. Ognuno è originale sia nel bene sia nel male!
Così vi vede Gesù, vi ama come siete, anche se qualcuno non vi considera e può pensare che contiate poco. Gesù, che è venuto al mondo bambino, crede in un mondo a misura di bambino, a misura di ognuno. Ce lo ha fatto capire nascendo a Betlemme. Ma anche oggi si fa vicino ai ragazzi di ogni Paese e di ogni popolo, e lo fa tutti i giorni. È lo stile di Dio, che si descrive in tre parole: vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio, non un altro.
Cari amici, di fronte a Gesù che si fa nostro prossimo, impariamo anche noi a farci “prossimi”; prossimi agli altri: prossimi ai familiari, agli amici, ai coetanei, ai bisognosi. Si può sempre fare qualcosa per gli altri senza aspettare che siano gli altri a fare qualcosa per noi. Si può sempre essere missionari del Vangelo, ed esserlo ovunque, a partire dagli ambienti in cui si vive: in famiglia, a scuola, in parrocchia, nei luoghi dello sport e del divertimento. Ma per fare questo, per assumere lo stile di Gesù, per essere suoi testimoni, bisogna stare con lui, fargli posto nella nostra giornata. E io domando a ognuno di voi, ragazzi e ragazze: voi, fate posto a Gesù nella vostra giornata, nel vostro lavoro, nel vostro studio, nel vostro riposo, nel vostro sport? Gesù entra lì? Non abbiate paura di dedicargli tempo nella preghiera, cioè di parlargli – con Gesù - dei vostri amici, di chiedergli aiuto nelle difficoltà, di raccontargli quando siete felici e quando siete tristi. E Gesù vi farà crescere in quella nobiltà che ha una persona quando prende su di sé la propria misura. (…)
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Aula della Benedizione
Giovedì, 23 dicembre 2021
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Come ogni anno, abbiamo occasione di incontrarci a pochi giorni dalla festa del Natale. È un modo per dire “ad alta voce” la nostra fraternità attraverso lo scambio degli auguri natalizi, ma è anche un momento di riflessione e di verifica per ciascuno di noi, perché la luce del Verbo che si fa carne ci mostri sempre meglio chi siamo e la nostra missione.
Tutti lo sappiamo: il mistero del Natale è il mistero di Dio che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà. Si è fatto carne: quella grande synkatabasis. Questo tempo sembra aver dimenticato l’umiltà, o pare l’abbia semplicemente relegata a una forma di moralismo, svuotandola della dirompente forza di cui è dotata.
Ma se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, credo che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire. Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. Per questo mi piace pensare e anche dire che l’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita, tutti noi, ad attraversarla. Mi viene in mente quel passo degli Esercizi: non si può andare avanti senza umiltà, e non si può andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni. E Sant’Ignazio ci dice di chiedere le umiliazioni.
Non è facile capire cosa sia l’umiltà. Essa è il risultato di un cambiamento che lo Spirito stesso opera in noi attraverso la storia che viviamo, come ad esempio accadde a Naaman il Siro (cfr 2 Re 5). Questo personaggio godeva, all’epoca del profeta Eliseo, di una grande fama. Era un valoroso generale dell’esercito Arameo, che aveva mostrato in più occasioni il suo valore e il suo coraggio. Ma insieme con la fama, la forza, la stima, gli onori, la gloria, quest’uomo è costretto a convivere con un dramma terribile: è lebbroso. La sua armatura, quella stessa che gli procura fama, in realtà copre un’umanità fragile, ferita, malata. Questa contraddizione spesso la ritroviamo nelle nostre vite: a volte i grandi doni sono l’armatura per coprire grandi fragilità.
Naaman comprende una verità fondamentale: non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale: alla fine, fa male. Arriva il momento, nell’esistenza di ognuno, in cui si ha il desiderio di non vivere più dietro il rivestimento della gloria di questo mondo, ma nella pienezza di una vita sincera, senza più bisogno di armature e di maschere. Questo desiderio spinge il valoroso generale Naaman a mettersi in cammino alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo, e lo fa a partire dal suggerimento di una schiava, una ebrea prigioniera di guerra che racconta di un Dio che è capace di guarire simili contraddizioni.
Fatto rifornimento di argento e oro, Naaman si mette in viaggio e giunge così dinanzi al profeta Eliseo. Questi chiede a Naaman, come unica condizione per la sua guarigione, il semplice gesto di spogliarsi e lavarsi sette volte nel fiume Giordano. Niente fama, niente onore, oro né argento! La grazia che salva è gratuita, non è riducibile al prezzo delle cose di questo mondo.
Naaman resiste a questa richiesta, gli sembra troppo banale, troppo semplice, troppo accessibile. Sembra che la forza della semplicità non avesse spazio nel suo immaginario. Ma le parole dei suoi servi lo fanno ricredere: «Se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: “Lavati, e sarai guarito”?» (2 Re 5,13). Naaman si arrende, e con un gesto di umiltà “scende”, toglie la sua armatura, si cala nelle acque del Giordano, «e la sua carne tornò come la carne di un bambino; egli era guarito»(2 Re 5,14). La lezione è grande! L’umiltà di mettere a nudo la propria umanità, secondo la parola del Signore, ottiene a Naaman la guarigione.
La storia di Naaman ci ricorda che il Natale è un tempo in cui ognuno di noi deve avere il coraggio di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà. Possiamo farlo a partire da un esempio più forte, più convincente, più autorevole: quello del Figlio di Dio, che non si sottrae all’umiltà di “scendere” nella storia facendosi uomo, facendosi bambino, fragile, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16). Tolte le nostre vesti, le nostre prerogative, i ruoli, i titoli, siamo tutti dei lebbrosi, tutti noi, bisognosi di essere guariti. Il Natale è la memoria viva di questa consapevolezza e ci aiuta a capirla più profondamente.
Cari fratelli e sorelle, se dimentichiamo la nostra umanità viviamo solo degli onori delle nostre armature, ma Gesù ci ricorda una verità scomoda e spiazzante: “A cosa serve guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?” (cfr Mc 8,36).
Questa è la pericolosa tentazione – l’ho richiamato altre volte – della mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità. Scrivevo nella Evangelii gaudium: «In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele» (n. 96).
L’umiltà è la capacità di saper abitare senza disperazione, con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità; questa umanità amata e benedetta dal Signore. L’umiltà è comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Gesù ci insegna a guardare la nostra miseria con lo stesso amore e tenerezza con cui si guarda un bambino piccolo, fragile, bisognoso di tutto. Senza umiltà cercheremo rassicurazioni, e magari le troveremo, ma certamente non troveremo ciò che ci salva, ciò che può guarirci. Le rassicurazioni sono il frutto più perverso della mondanità spirituale, che rivela la mancanza di fede, di speranza e di carità, e diventano incapacità di saper discernere la verità delle cose. Se Naaman avesse continuato solo ad accumulare medaglie da mettere sulla sua armatura, alla fine sarebbe stato divorato dalla lebbra: apparentemente vivo, sì, ma chiuso e isolato nella sua malattia. Egli con coraggio cerca ciò che possa salvarlo e non ciò che lo gratifica nell’immediato.
Tutti sappiamo che il contrario dell’umiltà è la superbia. Un versetto del profeta Malachia, che mi ha toccato tanto, ci aiuta a comprendere per contrasto quale differenza vi sia tra la via dell’umiltà e quella della superbia: «Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà – dice il Signore degli eserciti – in modo da non lasciar loro né radice né germoglio» (3,19).
Il Profeta usa un’immagine suggestiva che ben descrive la superbia: essa – dice – è come paglia. Allora, quando arriva il fuoco, la paglia diventa cenere, si brucia, scompare. E ci dice anche che chi vive facendo affidamento sulla superbia si ritrova privato delle cose più importanti che abbiamo: le radici e i germogli. Le radici dicono il nostro legame vitale con il passato da cui prendiamo linfa per poter vivere nel presente. I germogli sono il presente che non muore, ma che diventa domani, diventa futuro. Stare in un presente che non ha più radici e più germogli significa vivere la fine. Così il superbo, rinchiuso nel suo piccolo mondo, non ha più passato né futuro, non ha più radici né germogli e vive col sapore amaro della tristezza sterile che si impadronisce del cuore come «il più pregiato degli elisir del demonio». [1] L’umile vive invece costantemente guidato da due verbi: ricordare – le radici – e generare, frutto dalle radici e dei germogli, e così vive la gioiosa apertura della fecondità.
Ricordare significa etimologicamente “riportare al cuore”, ri-cordare. La vitale memoria che abbiamo della Tradizione, delle radici, non è culto del passato, ma gesto interiore attraverso il quale riportiamo al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti, ciò che ha attraversato la nostra storia, ciò che ci ha condotti fin qui. Ricordare non è ripetere, ma fare tesoro, ravvivare e, con gratitudine, lasciare che la forza dello Spirito Santo faccia ardere il nostro cuore, come ai primi discepoli (cfr Lc 24,32).
Ma affinché il ricordare non diventi una prigione del passato, abbiamo bisogno di un altro verbo: generare. L’umile – l’uomo umile, la donna umile – ha a cuore anche il futuro, non solo il passato, perché sa guardare avanti, sa guardare i germogli, con la memoria carica di gratitudine. L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce. Invece il superbo ripete, si irrigidisce – la rigidità è una perversione, è una perversione attuale – e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato… perché ha perso la memoria.
L’umile accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte di ciò che lo precede, delle sue radici, della sua appartenenza. Il suo presente è abitato da un passato che lo apre al futuro con speranza. A differenza del superbo, sa che né i suoi meriti né le sue “buone abitudini” sono il principio e il fondamento della sua esistenza; perciò è capace di avere fiducia; il superbo non ne ha.
Tutti noi siamo chiamati all’umiltà perché siamo chiamati a ricordare e a generare, siamo chiamati a ritrovare il rapporto giusto con le radici e con i germogli. Senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire.
Gesù, che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà, ci apre una strada, ci indica un modo, ci mostra una meta.
Cari fratelli e sorelle, se è vero che senza umiltà non si può incontrare Dio, e non si può fare esperienza di salvezza, è altrettanto vero che senza umiltà non si può incontrare nemmeno il prossimo, il fratello e la sorella che vivono accanto.
Lo scorso 17 ottobre abbiamo dato inizio al percorso sinodale che ci vedrà impegnati per i prossimi due anni. Anche in questo caso, solo l’umiltà può metterci nella condizione giusta per poterci incontrare e ascoltare, per dialogare e discernere, per pregare insieme, come indicava il Cardinale Decano. Se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio a quell’esperienza dello Spirito che, come dice l’Apostolo, è legata alla convinzione che siamo tutti figli di «un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6).
“Tutti” non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che come tentazione – perversa – serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo cerca di essere l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio, e pertanto discepoli che ascoltano e, proprio in virtù di questo ascolto, possono anche comprendere la volontà di Dio, che si manifesta sempre in maniera imprevedibile. Sarebbe però sbagliato pensare che il Sinodo sia un evento riservato alla Chiesa come entità astratta, distante da noi. La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana.
E la Curia – non dimentichiamolo – non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata. L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico.
Per questo, se la Parola di Dio ricorda al mondo intero il valore della povertà, noi, membri della Curia, per primi dobbiamo impegnarci in una conversione alla sobrietà. Se il Vangelo annuncia la giustizia, noi per primi dobbiamo cercare di vivere con trasparenza, senza favoritismi e cordate. Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà. Senza umiltà non potremo fare questo.
Durante l’apertura dell’assemblea sinodale ho usato tre parole-chiave: partecipazione, comunione e missione. E nascono da un cuore umile: senza umiltà non si può fare né partecipazione, né comunione, né missione. Queste parole sono le tre esigenze che vorrei indicare come stile di umiltà a cui tendere qui nella Curia. Tre modi per rendere la via dell’umiltà una via concreta da mettere in pratica.
Innanzitutto la partecipazione. Essa dovrebbe esprimersi attraverso uno stile di corresponsabilità. Certamente nella diversità di ruoli e ministeri le responsabilità sono diverse, ma sarebbe importante che ognuno si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro senza vivere la sola esperienza spersonalizzante dell’esecuzione di un programma stabilito da qualcun altro. Rimango sempre colpito quando nella Curia incontro la creatività – mi piace tanto –, e non di rado essa si manifesta soprattutto lì dove si lascia e si trova spazio per tutti, anche a chi gerarchicamente sembra occupare un posto marginale. Ringrazio per questi esempi – li trovo, e mi piace –, e vi incoraggio a lavorare affinché siamo capaci di generare dinamiche concrete in cui tutti sentano di avere una partecipazione attiva nella missione che devono svolgere. L’autorità diventa servizio quando condivide, coinvolge e aiuta a crescere.
La seconda parola è comunione. Essa non si esprime con maggioranze o minoranze, ma nasce essenzialmente dal rapporto con Cristo. Non avremo mai uno stile evangelico nei nostri ambienti se non rimettendo Cristo al centro, e non questo partito o quell’altro, quell’opinione o quell’altra: Cristo al centro. Molti di noi lavorano insieme, ma ciò che fortifica la comunione è poter anche pregare insieme, ascoltare insieme la Parola, costruire rapporti che esulano dal semplice lavoro e rafforzano i legami di bene, legami di bene tra noi, aiutandoci a vicenda. Senza questo rischiamo di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio o, peggio ancora, lì dove si creano dei rapporti, essi sembrano prendere più la piega della complicità per interessi personali dimenticando la causa comune che ci tiene insieme. La complicità crea divisioni, crea fazioni, crea nemici; la collaborazione esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi. Nella complicità si sta insieme per ottenere un risultato esterno. Nella collaborazione si sta insieme perché si ha a cuore il bene dell’altro e, pertanto, di tutto il Popolo di Dio che siamo chiamati a servire: non dimentichiamo il volto concreto delle persone, non dimentichiamo le nostre radici, il volto concreto di coloro che sono stati i nostri primi maestri nella fede. Paolo diceva a Timoteo: “Ricorda tua mamma, ricorda tua nonna”.
La prospettiva della comunione implica, nello stesso tempo, di riconoscere la diversità che ci abita come dono dello Spirito Santo. Ogni volta che ci allontaniamo da questa strada e viviamo comunione e uniformità come sinonimi, indeboliamo e mettiamo a tacere la forza vivificante dello Spirito Santo in mezzo a noi. L’atteggiamento di servizio ci chiede, vorrei dire esige, la magnanimità e la generosità per riconoscere e vivere con gioia la ricchezza multiforme del Popolo di Dio; e senza umiltà questo non è possibile. A me fa bene rileggere l’inizio della Lumen gentium, quei numeri 8, 12…: il santo popolo fedele di Dio. È ossigeno per l’anima riprendere queste verità.
La terza parola è missione. Essa è ciò che ci salva dal ripiegarci su noi stessi. Chi è ripiegato su sé stesso «guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è aperto al perdono. Questi sono i due segni di una persona “chiusa”: non impara dai propri peccati e non è aperta al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri» (Evangelii gaudium, 97). Solo un cuore aperto alla missione fa sì che tutto ciò che facciamo ad intra e ad extra sia sempre segnato dalla forza rigeneratrice della chiamata del Signore. E la missione sempre comporta passione per i poveri, cioè per i “mancanti”: coloro che “mancano” di qualcosa non solo in termini materiali, ma anche spirituali, affettivi, morali. Chi ha fame di pane e chi ha fame di senso è ugualmente povero. La Chiesa è invitata ad andare incontro a tutte le povertà, ed è chiamata a predicare il Vangelo a tutti perché tutti, in un modo o in un altro, siamo poveri, siamo mancanti. Ma anche la Chiesa va loro incontro perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni. La persona con cuore missionario sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili – è bello, la missione ci rende vulnerabili –, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo.
Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. Diceva Henri de Lubac: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. […] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri […]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio» (Meditazioni sulla Chiesa, 352).
In conclusione desidero augurare a voi e a me per primo, di lasciarci evangelizzare dall’umiltà, dall’umiltà del Natale, dall’umiltà del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo. Persino i Magi, che certamente possiamo pensare venissero da una condizione più agiata di Maria e Giuseppe o dei pastori di Betlemme, quando si trovano al cospetto del bambino si prostrano (cfr Mt 2,11). Si prostrano. Non è solo un gesto di adorazione, è un gesto di umiltà. I Magi si mettono all’altezza di Dio prostrandosi sulla nuda terra. E questa kenosi, questa discesa, questa synkatabasis è la stessa che Gesù compirà l’ultima sera della sua vita terrena, quando «si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13,4-5). Lo sgomento che suscita tale gesto provoca la reazione di Pietro, ma alla fine Gesù stesso dona ai suoi discepoli la chiave di lettura giusta: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15).
Cari fratelli e sorelle, facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù. Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza. Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità. Possa il Signore farcene dono a partire dalla primordiale manifestazione dello Spirito dentro di noi: il desiderio. Ciò che non abbiamo, possiamo cominciare almeno a desiderarlo. E chiedere al Signore la grazia di poter desiderare, di diventare uomini e donne di grandi desideri. E il desiderio è già lo Spirito all’opera dentro ciascuno di noi.
Buon Natale a tutti! E vi chiedo di pregare per me. Grazie!
Come ricordo di questo Natale, vorrei lasciare qualche libro… Ma per leggerlo, non per lasciarlo nella biblioteca, per i nostri che riceveranno l’eredità! Prima di tutto, uno di un grande teologo, sconosciuto perché troppo umile, un sottosegretario della Dottrina della Fede, mons. Armando Matteo, che pensa un po’ a un fenomeno sociale e a come provoca la pastoralità. Si chiama Convertire Peter Pan. Sul destino della fede in questa società dell’eterna giovinezza. È provocatorio, fa bene. Il secondo è un libro sui personaggi secondari o dimenticati della Bibbia, di padre Luigi Maria Epicoco: La pietra scartata, e come sottotitolo Quando i dimenticati si salvano. È bello. È per la meditazione, per l’orazione. Leggendo questo mi è venuta in mente la storia di Naaman il Siro di cui ho parlato. E il terzo è di un Nunzio Apostolico, mons. Fortunatus Nwachukwu, che voi conoscete bene. Lui ha fatto una riflessione sul chiacchiericcio, e mi piace quello che ha dipinto: che il chiacchiericcio fa sì che si “sciolga” l’identità. Vi lascio questi tre libri, e spero che ci aiutino tutti ad andare avanti. Grazie! Grazie per il vostro lavoro e la vostra collaborazione. Grazie.
E chiediamo alla Madre dell’umiltà che ci insegni a essere umili: “Ave o Maria…”
[Benedizione]
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[1] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris 1974, 135.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Ringraziamo Dio che ci fa ritrovare per farci gli auguri di buon Natale. Di cuore lo auguro a voi, papà, mamme, figli, nonni, e a tutti i vostri cari. Che Gesù possa nascere nei vostri cuori e nelle vostre famiglie. E come nasce Gesù? Nell’amore. Non c’è un’altra strada. Lo dice anche un famoso canto sacro: “Dov’è carità e amore, lì c’è Dio”. Lì nasce Dio, nasce dove l’amore si fa concreto, si fa vicinanza, si fa tenerezza, si fa compassione. Lì c’è Dio.
Se, per esempio, in famiglia c’è il nonno o la nonna che non può più uscire facilmente, allora andiamo a trovarlo o a trovarla, con le attenzioni che la pandemia richiede, ma andiamo, non lasciamoli soli. E se non possiamo andare, facciamo una telefonata e parliamo un po’. Ma soprattutto, appena possibile, andiamoci, e stiamo un po’ con lui o con lei. Su questo dei nonni mi fermo un po’, perché in questa cultura dello scarto i nonni si scartano tanto. “Sì, stanno bene, stanno lì…”: non entrano nella vita. A me viene in mente una cosa che, da bambino, una delle mie nonne mi ha raccontato. C’era una famiglia dove il nonno abitava con loro e il nonno invecchiava. E poi, a pranzo o a cena, quando prendeva la minestra, si sporcava. E a un certo punto, il papà disse: “Non possiamo vivere così, perché non possiamo invitare amici, con il nonno… Farò in modo che il nonno mangi e ceni in cucina. Gli farò un bel tavolino”. E così è successo. Una settimana dopo, torna a casa e trova il figlio di dieci anni che gioca con il legno, i chiodi, il martello… “Cosa stai facendo?” – “Un tavolino, papà” – “Ma perché?” – “Per te, per quando sarai vecchio”. Non dimentichiamo che quello che noi seminiamo i nostri figli lo faranno con noi. Per favore, non trascurare i nonni, non trascurare gli anziani: sono la saggezza. “Sì, ma lui mi ha fatto la vita impossibile…”. Perdona, dimentica, come Dio perdonerà te. Ma non dimenticare gli anziani, perché questa cultura dello scarto li lascia da parte, sempre. Scusatemi, ma a me sta a cuore parlare dei nonni, e vorrei che tutti andassimo su questa strada.
Carissimi, vorrei augurarvi che il Natale vi porti un po’ di serenità, specialmente se state vivendo un periodo pesante, con preoccupazioni… Ogni famiglia ne ha, ma a volte ci sono situazioni più difficili. Prego perché chi ne ha più bisogno riceva il dono della serenità, personale e familiare. La pandemia ha causato molti problemi alle famiglie, problemi sia economici, sia psicologici. Penso ai ragazzi, agli adolescenti, che hanno risentito in modo particolare dei periodi di isolamento e di didattica a distanza. Ma ogni età ha avuto i suoi disagi con la pandemia.
E per quanto riguarda il lavoro, come vi dicevo un anno fa, abbiamo cercato di garantire l’occupazione; ci siamo impegnati a non lasciare nessuno senza lavoro. Certo, la gestione del periodo di chiusura non è stata facile; so che c’è stato qualche problema, lo so; spero che si possano trovare soluzioni soddisfacenti attraverso il dialogo, cercando di venirsi incontro, sempre nel rispetto dei diritti dei lavoratori e del bene comune.
Chiediamo per questo l’intercessione di San Giuseppe: lui è “competente” nel campo del lavoro! Ma non solo. Anzi, in realtà, lui è prima di tutto il custode di Gesù e della Vergine Maria. E perciò è anche il patrono della Chiesa. Come sapete, tutto quest’anno è stato dedicato a San Giuseppe: ne sono stato molto contento, e spero che vi abbia aiutato a sentirlo più vicino, più presente nella vostra vita, nelle vostre famiglie. A lui potete affidare certe situazioni un po’ complicate, in cui ci si accorge che le nostre forze non bastano, che non ci sono soluzioni a portata di mano. Allora potete rivolgervi a San Giuseppe, nella preghiera. Lui è uno di poche parole – nel Vangelo non parla mai, non ci sono parole di Giuseppe –, di poche parole ma di molti fatti. Provate. Un uomo che ascolta la volontà di Dio e la mette in pratica, senza tentennamenti. Io lo prego sempre, per questo bisogno, quell’altro, quell’altro, e lui sempre risponde.
E sapete in che modo Dio gli rivelava la sua volontà? Nel sonno, mentre lui dormiva. Questo è un fatto raccontato dai Vangeli, e ha anche un senso simbolico: non si tratta solo di sogni in senso psicologico, ma di rivelazioni del disegno divino, che lui riceveva nel sonno e poi, al risveglio, subito realizzava. Lo vediamo quattro volte: la prima, quando deve prendere in sposa Maria; la seconda, quando Erode minaccia la vita di Gesù e bisogna fuggire in Egitto; la terza, quando è il momento di tornare in patria; e la quarta, quando si tratta di stabilirsi a Nazaret. Tutte queste “indicazioni di percorso”, il Signore le ha date a Giuseppe in sogno, mediante un angelo. Ma non erano fantasie, allucinazioni, al contrario, erano messaggi ben aderenti alla realtà, destinati a guidare il cammino della Santa Famiglia. Erano la manifestazione della Provvidenza di Dio.
E su questa parola, Provvidenza, fermiamoci un momento. Come ci insegna la storia di Giuseppe e Maria, la famiglia è il luogo privilegiato in cui si sperimenta la Provvidenza di Dio. Perciò voglio augurare anche a voi, a ciascuna delle vostre famiglie, proprio questo: di fare esperienza della mano paterna di Dio che guida i nostri passi sulle sue vie, per il bene degli sposi, per il bene dei figli, per il bene di tutta la famiglia. Non sempre i disegni di Dio sono chiari; spesso si manifestano con il tempo, richiedono pazienza; richiedono soprattutto fede, tanta fiducia che Dio vuole solo e sempre il bene, il maggior bene per noi e i nostri cari. E allora bisogna fare come San Giuseppe: abbandonarsi a Dio – questo significa il sonno – per ricevere i suoi messaggi.
Io prego per voi. Pregate anche voi gli uni per gli altri, così la comunità di lavoro si consolida, si fa più unita. Vi ringrazio di essere venuti a questo incontro. Prego San Giuseppe e prego la Madonna che vi accompagnino nel vostro cammino, e Gesù, il Salvatore, riempia di gioia e di pace i vostri cuori e le vostre case. A tutti voi e alle vostre famiglie, auguro Buon Natale. E vi ringrazio per tutto il lavoro che fate qui: grazie tante!
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LETTERE
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AGLI SPOSI
IN OCCASIONE DELL’ANNO “FAMIGLIA AMORIS LAETITIA”
Cari sposi e spose di tutto il mondo!
In occasione dell’Anno “Famiglia Amoris laetitia”, mi rivolgo a voi per esprimervi tutto il mio affetto e la mia vicinanza in questo tempo così speciale che stiamo vivendo. Sempre ho tenuto presenti le famiglie nelle mie preghiere, ma ancora di più durante la pandemia, che ha messo tutti a dura prova, specialmente i più vulnerabili. Il momento che stiamo attraversando mi porta ad accostarmi con umiltà, affetto e accoglienza ad ogni persona, ad ogni coppia di sposi e ad ogni famiglia nelle situazioni che ciascuno sta sperimentando.
(…)
La relazione con Dio ci plasma, ci accompagna e ci mette in movimento come persone e, in ultima istanza, ci aiuta a “uscire dalla nostra terra”, in molti casi con un certo timore e persino con la paura dell’ignoto, ma grazie alla nostra fede cristiana sappiamo che non siamo soli perché Dio è in noi, con noi e in mezzo a noi: nella famiglia, nel quartiere, nel luogo di lavoro o di studio, nella città dove abitiamo.
Come Abramo, ciascuno degli sposi esce dalla propria terra fin dal momento in cui, sentendo la chiamata all’amore coniugale, decide di donarsi all’altro senza riserve. Così, già il fidanzamento implica l’uscire dalla propria terra, poiché richiede di percorrere insieme la strada che conduce al matrimonio. Le diverse situazioni della vita – il passare dei giorni, l’arrivo dei figli, il lavoro, le malattie – sono circostanze nelle quali l’impegno assunto vicendevolmente suppone che ciascuno abbandoni le proprie inerzie, le proprie certezze, gli spazi di tranquillità e vada verso la terra che Dio promette: essere due in Cristo, due in uno. Un’unica vita, un “noi” nella comunione d’amore con Gesù, vivo e presente in ogni momento della vostra esistenza. Dio vi accompagna, vi ama incondizionatamente. Non siete soli! (…)
Solo abbandonandovi nelle mani del Signore potrete affrontare ciò che sembra impossibile. La via è quella di riconoscere la fragilità e l’impotenza che sperimentate davanti a tante situazioni che vi circondano, ma nello stesso tempo di avere la certezza che in questo modo la forza di Cristo si manifesta nella vostra debolezza (cfr 2 Cor 12,9). È stato proprio in mezzo a una tempesta che gli apostoli sono giunti a riconoscere la regalità e la divinità di Gesù e hanno imparato a confidare in Lui.
Alla luce di questi riferimenti biblici, vorrei cogliere l’occasione per riflettere su alcune difficoltà e opportunità che le famiglie hanno vissuto in questo tempo di pandemia. Per esempio, è aumentato il tempo per stare insieme, e questa è stata un’opportunità unica per coltivare il dialogo in famiglia. Certamente ciò richiede uno speciale esercizio di pazienza; non è facile stare insieme tutta la giornata quando nella stessa casa bisogna lavorare, studiare, svagarsi e riposare. Non lasciatevi vincere dalla stanchezza; la forza dell’amore vi renda capaci di guardare più agli altri – al coniuge, ai figli – che alla propria fatica. Vi ricordo quello che ho scritto in Amoris laetitia (cfr nn. 90-119) riprendendo l’inno paolino alla carità (cfr 1 Cor 13,1-13). Chiedete questo dono con insistenza alla Santa Famiglia; rileggete l’elogio della carità perché sia essa a ispirare le vostre decisioni e le vostre azioni (cfr Rm 8,15; Gal 4,6). (…)
A tale proposito, permettetemi di rivolgere una parola ai giovani che si preparano al matrimonio. Se prima della pandemia per i fidanzati era difficile progettare un futuro essendo arduo trovare un lavoro stabile, adesso l’incertezza lavorativa è ancora più grande. Perciò invito i fidanzati a non scoraggiarsi, ad avere il “coraggio creativo” che ebbe san Giuseppe, la cui memoria ho voluto onorare in questo Anno a lui dedicato. Così anche voi, quando si tratta di affrontare il cammino del matrimonio, pur avendo pochi mezzi, confidate sempre nella Provvidenza, perché «sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere» (Lett. ap. Patris corde, 5). Non esitate ad appoggiarvi alle vostre famiglie e alle vostre amicizie, alla comunità ecclesiale, alla parrocchia, per vivere la futura vita coniugale e familiare imparando da coloro che sono già passati per la strada che voi state iniziando a percorrere.
(…)
Francesco
Roma, San Giovanni in Laterano, 26 dicembre 2021, Festa della Santa Famiglia.
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MESSAGGI
(…) Il 2020 è stato segnato dalla grande crisi sanitaria del Covid-19, trasformatasi in un fenomeno multisettoriale e globale, aggravando crisi tra loro fortemente interrelate, come quelle climatica, alimentare, economica e migratoria, e provocando pesanti sofferenze e disagi. Penso anzitutto a coloro che hanno perso un familiare o una persona cara, ma anche a quanti sono rimasti senza lavoro. Un ricordo speciale va ai medici, agli infermieri, ai farmacisti, ai ricercatori, ai volontari, ai cappellani e al personale di ospedali e centri sanitari, che si sono prodigati e continuano a farlo, con grandi fatiche e sacrifici, al punto che alcuni di loro sono morti nel tentativo di essere accanto ai malati, di alleviarne le sofferenze o salvarne la vita. Nel rendere omaggio a queste persone, rinnovo l’appello ai responsabili politici e al settore privato affinché adottino le misure adeguate a garantire l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e alle tecnologie essenziali necessarie per assistere i malati e tutti coloro che sono più poveri e più fragili.[1]
(…) Va richiamato anche il rispetto del diritto umanitario, soprattutto in questa fase in cui conflitti e guerre si susseguono senza interruzione. Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza. Numerose città sono diventate come epicentri dell’insicurezza: i loro abitanti lottano per mantenere i loro ritmi normali, perché vengono attaccati e bombardati indiscriminatamente da esplosivi, artiglieria e armi leggere. I bambini non possono studiare. Uomini e donne non possono lavorare per mantenere le famiglie. La carestia attecchisce dove un tempo era sconosciuta. Le persone sono costrette a fuggire, lasciando dietro di sé non solo le proprie case, ma anche la storia familiare e le radici culturali.
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Cari fratelli e sorelle!
(…) Sappiamo, però, che fin dall’inizio della pandemia da Covid, l’attività in campo musicale è stata fortemente ridimensionata. Il mio pensiero va a tutti coloro che ne hanno risentito: ai musicisti, che hanno visto sconvolgere le loro vite e la loro professione dalle esigenze del distanziamento; a chi ha perso il lavoro e il contatto sociale; a chi ha dovuto affrontare, in contesti difficili, i necessari momenti di formazione, educazione e vita comunitaria. Molti hanno dedicato sforzi significativi per continuare ad offrire un servizio musicale dotato di nuova creatività. Si tratta di un impegno valido non solo per la Chiesa, ma anche per l’orizzonte pubblico, per la stessa “rete”, per chi lavora nelle sale da concerto e in altri luoghi dove la musica è a servizio della comunità.
Mi auguro che anche questo aspetto della vita sociale possa rinascere, che si torni a cantare e a suonare e a godere insieme della musica e del canto. Miguel Cervantes nel Don Chisciotte affermava: «Donde hay música, no puede haber cosa mala» (Parte II, c. 34): “Dove c’è musica, non può esserci nulla di cattivo”. Molti testi e composizioni, attraverso la forza della musica, stimolano la coscienza personale di ognuno e creano anche una fraternità universale. (…)
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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA 7.ma GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA E RIFLESSIONE
CONTRO LA TRATTA DI PERSONE
Lunedì, 8 febbraio 2021
Economia senza tratta
Care sorelle e cari fratelli!
(…) Ed ora vorrei condividere con voi alcuni spunti di riflessione e di azione riguardo al tema che avete scelto: l’“Economia senza tratta”. Altri spunti li potete trovare nel messaggio che ho rivolto ai partecipanti all’evento “Economy of Francesco”, il 21 novembre scorso.
Un’economia senza tratta è
1. un’economia di cura. La cura può essere intesa come prendersi cura delle persone e della natura, offrendo prodotti e servizi per la crescita del bene comune. Un’economia che ha cura del lavoro, creando opportunità di impiego che non sfruttano il lavoratore per condizioni di lavoro degradanti e orari estenuanti. La pandemia del Covid ha esacerbato e aggravato le condizioni di sfruttamento lavorativo; la perdita di posti di lavoro ha penalizzato tante persone vittime della tratta in processo di riabilitazione e reinserimento sociale. «In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla solidità che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune» (Enc. Fratelli tutti, 115). Dunque economia di cura significa economia solidale: lavoriamo per una solidità che si coniuga con la solidarietà. Siamo convinti che la solidarietà, ben amministrata, dà luogo a una costruzione sociale più sicura e più salda (cfr ibid.).
2. Un’economia senza tratta è un’economia con regole di mercato che promuovono la giustizia e non esclusivi interessi particolari. La tratta di persone trova terreno fertile nell’impostazione del capitalismo neoliberista, nella deregolamentazione dei mercati che mira a massimizzare i profitti senza limiti etici, senza limiti sociali, senza limiti ambientali (cfr ibid., 210). Se si segue questa logica, esiste solamente il calcolo di vantaggi e svantaggi. Le scelte non si fanno in base ai criteri etici, ma assecondando gli interessi dominanti, spesso abilmente rivestiti con un’apparenza umanitaria o ecologica. Le scelte non si fanno guardando le persone: le persone sono uno dei numeri, anche da sfruttare.
3. Per tutto questo, un’economia senza tratta è un’economia coraggiosa – ci vuole coraggio. Non nel senso della spregiudicatezza, delle operazioni azzardate alla ricerca di facili guadagni. No, in quel senso no; naturalmente non è il coraggio che ci vuole, questo al contrario, è l’audacia della costruzione paziente, della programmazione che non guarda sempre e solo al vantaggio a brevissimo termine, ma ai frutti a medio e lungo termine e, soprattutto, alle persone. Il coraggio di coniugare il legittimo profitto con la promozione dell’occupazione e di condizioni dignitose di lavoro. In tempi di forte crisi, come l’attuale, questo coraggio è ancora più necessario. Nella crisi la tratta prolifera, lo sappiamo tutti: lo vediamo tutti i giorni. Nella crisi la tratta prolifera; dunque occorre rafforzare un’economia che risponda alla crisi in maniera non miope, in maniera durevole, in maniera solida.
Care sorelle e cari fratelli, mettiamo tutto questo nella nostra preghiera, in particolare oggi, per intercessione di Santa Bakhita. Prego per voi, e tutti insieme preghiamo per ogni persona che in questo momento è vittima della tratta. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!
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Signor Presidente della Conferenza Internazionale del Lavoro,
Stimati Rappresentanti dei Governi, delle Organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori,
Ringrazio il Direttore Generale, il signor Guy Ryder, che tanto cortesemente mi ha invitato a presentare questo messaggio al Vertice sul mondo del lavoro. Questa Conferenza è stata convocata in un momento cruciale della storia sociale ed economica, che presenta gravi e vaste sfide per il mondo intero. Negli ultimi mesi, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, attraverso i suoi resoconti periodici, ha svolto un lavoro encomiabile, dedicando particolare attenzione ai nostri fratelli e sorelle più vulnerabili.
Durante la persistente crisi, dovremmo continuare a esercitare una “cura particolare” del bene comune. Molti degli sconvolgimenti possibili e previsti ancora non si sono manifestati, pertanto si richiederanno decisioni attente. La diminuzione delle ore di lavoro negli ultimi anni si è tradotta sia in perdita di posti di lavoro sia in una riduzione della giornata lavorativa di quanti mantengono il proprio lavoro. Molti servizi pubblici, come pure imprese, hanno dovuto far fronte a difficoltà tremende, alcuni correndo il rischio di fallimento totale o parziale. In tutto il mondo abbiamo osservato nel 2020 una perdita di posti di lavoro senza precedenti.
Con la fretta di tornare a una maggiore attività economica, al termine della minaccia del Covid-19, evitiamo le passate fissazioni sul profitto, l’isolamento e il nazionalismo, il consumismo cieco e la negazione delle chiare evidenze che segnalano la discriminazione dei nostri fratelli e sorelle “scartabili” nella nostra società. Al contrario, ricerchiamo soluzioni che ci aiutino a costruire un nuovo futuro del lavoro fondato su condizioni lavorative decenti e dignitose, che provenga da una negoziazione collettiva, e che promuova il bene comune, una base che farà del lavoro una componente essenziale della nostra cura della società e della creazione. In tal senso, il lavoro è veramente ed essenzialmente umano. Di questo si tratta, che sia umano.
Ricordando il ruolo fondamentale che svolgono questa Organizzazione e questa Conferenza come ambiti privilegiati per il dialogo costruttivo, siamo chiamati a dare priorità alla nostra risposta ai lavoratori che si trovano ai margini del mondo del lavoro e che si vedono ancora colpiti dalla pandemia di Covid-19; i lavoratori poco qualificati, i lavoratori a giornata, quelli del settore informale, i lavoratori migranti e rifugiati, quanti svolgono quello che si è soliti denominare “il lavoro delle tre dimensioni”: pericoloso, sporco e degradante, e l’elenco potrebbe andare avanti.
Molti migranti e lavoratori vulnerabili, insieme alle loro famiglie, generalmente restano esclusi dall’accesso a programmi nazionali di promozione della salute, prevenzione delle malattie, cure e assistenza, come pure dai piani di protezione finanziaria e dai servizi psicosociali. È uno dei tanti casi di quella filosofia dello scarto che ci siamo abituati a imporre nelle nostre società. Questa esclusione complica l’individuazione precoce, l’esecuzione di test, la diagnosi, il tracciamento dei contatti e la ricerca di assistenza medica per il Covid-19 per i rifugiati e i migranti, e aumenta quindi il rischio che si producano focolai tra quelle popolazioni. Tali focolai possono non essere controllati o addirittura nascosti consapevolmente, il che costituisce un’ulteriore minaccia per la salute pubblica [1].
La mancanza di misure di tutela sociale di fronte all’impatto del Covid-19 ha provocato un aumento della povertà, la disoccupazione, la sottoccupazione, l’incremento della informalità del lavoro, il ritardo nell’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, il che è molto grave, l’aumento del lavoro infantile, il che è ancora più grave, la vulnerabilità al traffico di persone, l’insicurezza alimentare e una maggiore esposizione all’infezione tra popolazioni come i malati e gli anziani. A tale riguardo ringrazio per questa opportunità di esporre alcune preoccupazioni e osservazioni chiave.
In primo luogo, è missione fondamentale della Chiesa fare appello a tutti a lavorare congiuntamente, con i governi, le organizzazioni multilaterali e la società civile, per servire e prendersi cura del bene comune e garantire la partecipazione di tutti in questo impegno. Nessuno dovrebbe essere lasciato da parte in un dialogo per il bene comune, il cui obiettivo è, soprattutto, costruire, consolidare la pace e la fiducia tra tutti. I più vulnerabili — i giovani, i migranti, le comunità indigene, i poveri — non possono essere lasciati da parte in un dialogo che dovrebbe riunire anche governi, imprenditori e lavoratori. È altresì essenziale che tutte le confessioni e le comunità religiose s’impegnino insieme. La Chiesa ha una lunga esperienza nella partecipazione a questi dialoghi attraverso le sue comunità locali, movimenti popolari e organizzazioni, e si offre al mondo come costruttrice di ponti per aiutare a creare le condizioni di tale dialogo o, ove opportuno, aiutare a facilitarlo. Questi dialoghi per il bene comune sono essenziali al fine di costruire un futuro solidale e sostenibile della nostra casa comune e dovrebbero tenersi a livello sia comunitario sia nazionale e internazionale. E una delle caratteristiche del vero dialogo è che quanti dialogano siano sullo stesso piano di diritti e doveri. E non che uno che ha meno diritti o più diritti dialoghi con uno che non li ha. Lo stesso livello di diritti e doveri garantisce così un dialogo serio.
In secondo luogo, è anche essenziale per la missione della Chiesa garantire che tutti ottengono la protezione di cui hanno bisogno a seconda delle loro vulnerabilità: malattia, età, disabilità, dislocamento, emarginazione o dipendenza. I sistemi di protezione sociale, che a loro volta stanno affrontando rischi importanti, devono essere sostenuti e ampliati per assicurare l’accesso ai servizi sanitari, all’alimentazione e ai bisogni umani di base. In tempi di emergenza, come la pandemia di Covid-19, si richiedono misure speciali di assistenza. Un’attenzione particolare alla prestazione integrale ed efficace di assistenza attraverso i servizi pubblici è a sua volta importante. I sistemi di protezione sociale sono stati chiamati ad affrontare molte delle sfide della crisi, e allo stesso tempo i loro punti deboli sono diventati più evidenti. Infine, si deve garantire la protezione dei lavoratori e dei più vulnerabili mediante il rispetto dei loro diritti fondamentali, incluso il diritto della sindacalizzazione. Ossia, unirsi in un sindacato è un diritto. La crisi del Covid ha già inciso sui più vulnerabili e questi non dovrebbero vedersi colpiti negativamente dalle misure per accelerare una ripresa che s’incentri unicamente sugli indicatori economici. Ossia, qui c’è anche bisogno di una riforma del modo economico, una riforma a fondo dell’economia. Il modo di portare avanti l’economia deve essere diverso, deve a sua volta cambiare.
In questo momento di riflessione, in cui cerchiamo di modellare la nostra azione futura e di dare forma a un’agenda internazionale post-Covid-19, dovremmo prestare particolare attenzione al pericolo reale di dimenticare quanti sono rimasti indietro. Corrono il rischio di essere attaccati da un virus ancora peggiore del Covid-19: quello dell’indifferenza egoista. Ossia, una società non può progredire scartando, non può progredire. Questo virus si propaga nel pensare che la vita è migliore se è migliore per me, e che tutto andrà bene se andrà bene per me, e così si inizia e si finisce selezionando una persona al posto di un’altra, scartando i poveri, sacrificando quanti sono rimasti indietro sul cosiddetto “altare del progresso”. È una vera e propria dinamica elitaria, di costituzione di nuove élite al prezzo dello scarto di molta gente e di molti popoli.
Guardando al futuro, è fondamentale che la Chiesa, e pertanto l’azione della Santa Sede con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sostenga misure che correggano situazioni ingiuste o incorrette che condizionano i rapporti di lavoro, rendendoli completamente soggiogati all’idea di “esclusione”, o violando i diritti fondamentali dei lavoratori. Una minaccia la costituiscono le teorie che considerano il profitto e il consumo come elementi indipendenti o come variabili autonome della vita economica, escludendo i lavoratori e determinando il loro squilibrato standard di vita: «Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita» (Evangelii gaudium, n. 53).
L’attuale pandemia ci ha ricordato che non ci sono differenze né confini tra quanti soffrono. Siamo tutti fragili e, al tempo stesso, tutti di grande valore. Speriamo che quanto sta accadendo attorno a noi ci scuota profondamente. È giunto il momento di eliminare le disuguaglianze, di curare l’ingiustizia che sta minando la salute dell’intera famiglia umana. Di fronte all’Agenda dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dobbiamo continuare come abbiamo già fatto nel 1931, quando Papa Pio XI, dopo la crisi di Wall Street e nel bel mezzo della “Grande Depressione”, denunciò l’asimmetria tra lavoratori e imprenditori come una flagrante ingiustizia che concedeva al capitale carta bianca e disponibilità. Diceva così: «Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a sé stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze» (Quadragesimo anno, n. 55). Persino in quelle circostanze, la Chiesa promosse la posizione secondo cui la remunerazione per il lavoro svolto non solo deve essere destinata a soddisfare i bisogni immediati e attuali dei lavoratori, ma anche ad aprire la capacità dei lavoratori di salvaguardare i risparmi futuri delle loro famiglie o gli investimenti capaci di garantire un margine di sicurezza per il futuro.
Così, fin dalla prima sessione della Conferenza Internazionale, la Santa Sede sostiene una regolamentazione uniforme applicabile al lavoro in tutti i suoi diversi aspetti, come garanzia per i lavoratori [2]. È sua convinzione che il lavoro, e pertanto i lavoratori, possono contare su garanzie, sostegno e rafforzamento se li si protegge dal “gioco” della deregolamentazione. Inoltre le norme giuridiche devono essere orientate verso la crescita dell’occupazione, il lavoro dignitoso e i diritti e i doveri della persona umana. Sono tutti strumenti necessari per il suo benessere, per lo sviluppo umano integrale e per il bene comune.
La Chiesa cattolica e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, rispondendo alle loro differenti nature e funzioni, possono continuare a mettere in atto le loro rispettive strategie, ma possono anche continuare ad approfittare delle opportunità che si presentano per collaborare in un’ampia varietà di azioni importanti.
Per promuovere questa azione comune è necessario intendere correttamente il lavoro. Il primo elemento per detta comprensione ci invita a focalizzare la necessaria attenzione su tutte le forme di lavoro, includendo le forme di impiego non standard. Il lavoro va al di là di ciò che tradizionalmente è conosciuto come “impiego formale” e il Programma di Lavoro Dignitoso deve includere tutte le forme di lavoro. La mancanza di protezione sociale dei lavoratori dell’economia informale e delle loro famiglie li rende particolarmente vulnerabili agli scontri, poiché non possono contare sulla protezione che offrono la previdenza sociale o i regimi di assistenza sociale destinati alla povertà. Le donne dell’economia informale, incluse le venditrici ambulanti e le collaboratrici domestiche, risentono dell’impatto del Covid-19 sotto diversi punti di vista: dall’isolamento all’esposizione estrema a rischi per la salute. Non disponendo di asili nido accessibili, i figli di queste lavoratrici sono esposti a un maggior rischio per la salute, perché le madri devono portarli sul posto di lavoro o lasciarli a casa incustoditi [3]. Pertanto, è particolarmente necessario garantire che l’assistenza sociale giunga all’economia informale e presti speciale attenzione ai bisogni particolari delle donne e delle bambine.
La pandemia ci ricorda che molte donne di tutto il mondo continuano ad anelare alla libertà, alla giustizia e all’uguaglianza tra tutte le persone umane: «per quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da crescere in alcuni paesi. Non sono ancora del tutto sradicati costumi inaccettabili. Anzitutto la vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù [...]. Penso alla [...] disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni» (Amoris laetitia, n. 54).
Il secondo elemento per una corretta comprensione del lavoro: se il lavoro è un rapporto, allora deve includere la dimensione della cura, perché nessun rapporto può sopravvivere senza cura. Qui non ci riferiamo solo al lavoro di assistenza: la pandemia ci ricorda la sua importanza fondamentale, che forse abbiamo trascurato. La cura va oltre, deve essere una dimensione di ogni lavoro. Un lavoro che non si prende cura, che distrugge la creazione, che mette in pericolo la sopravvivenza delle generazioni future, non è rispettoso della dignità dei lavoratori e non si può considerare dignitoso. Al contrario, un lavoro che si prende cura, contribuisce al ripristino della piena dignità umana, contribuirà ad assicurare un futuro sostenibile alle generazioni future [4]. E in questa dimensione della cura rientrano, in primo luogo, i lavoratori. Ossia, una domanda che possiamo farci nel quotidiano: come un’impresa, immaginiamo, si prende cura dei suoi lavoratori?
Oltre a una corretta comprensione del lavoro, uscire in condizioni migliori dalla crisi attuale richiederà lo sviluppo di una cultura della solidarietà, per contrastare la cultura dello scarto che è all’origine della disuguaglianza e che affligge il mondo. Per raggiungere questo obiettivo, occorrerà valorizzare l’apporto di tutte quelle culture, come quella indigena, quella popolare, che spesso sono considerate marginali, ma che mantengono viva la pratica della solidarietà, che «esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici». Ogni popolo ha una sua cultura, e credo che sia il momento di liberarci definitivamente dell’eredità dell’Illuminismo, che associava la parola cultura a un certo tipo di formazione intellettuale o di appartenenza sociale. Ogni popolo ha una sua cultura e noi dobbiamo accettarla così com’è. «È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro [...]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari» (Fratelli tutti, n. 116).
Con queste parole mi rivolgo a voi, partecipanti alla 109a Conferenza Internazionale del Lavoro, perché come attori istituzionalizzati del mondo del lavoro avete una grande opportunità d’influire sui processi di cambiamento già in atto. La vostra responsabilità è grande, ma ancora più grande è il bene che potete ottenere. Vi invito pertanto a rispondere alla sfida che abbiamo di fronte. Gli attori stabiliti possono contare sull’eredità della loro storia, che continua a essere una risorsa di fondamentale importanza, ma in questa fase storica sono chiamati a restare aperti al dinamismo della società e a promuovere la comparsa e l’inclusione di attori meno tradizionali e più marginali, portatori di impulsi alternativi e innovatori.
Chiedo ai dirigenti politici e a quanti lavorano nei governi d’ispirarsi sempre a quella forma di amore che è la carità politica: «un atto di carità altrettanto indispensabile [è] l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria. È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume — e questo è squisita carità —, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica» (Fratelli tutti, n. 186).
Ricordo agli imprenditori la loro vera vocazione: produrre ricchezza al servizio di tutti. L’attività imprenditoriale è essenzialmente «una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (Fratelli tutti, n. 123). A volte, nel parlare di proprietà privata dimentichiamo che è un diritto secondario, che dipende da questo diritto primario, che è la destinazione universale dei beni.
Invito i sindacalisti e i dirigenti delle associazioni dei lavoratori a non lasciarsi rinchiudere in una “camicia di forza”, a focalizzarsi sulle situazioni concrete dei quartieri e delle comunità in cui operano, affrontando al tempo stesso questioni legate alle politiche economiche più vaste e alle “macro-relazioni”
[5]. Anche in questa fase storica, il movimento sindacale ha di fronte due sfide importantissime. La prima è la profezia, collegata alla natura stessa dei sindacati, alla loro vocazione più genuina. I sindacati sono un’espressione del profilo profetico della società. I sindacati nascono e rinascono ogni volta che, come i profeti biblici, danno voce a quanti non l’hanno, denunciano quelli che “venderebbero [...] il povero per un paio di sandali”, come dice il profeta (cfr. Amos 2, 6), mettono a nudo i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più vulnerabili, difendono la causa degli stranieri, degli ultimi e dei rifiutati. Chiaro, quando un sindacato si corrompe, non può più farlo, e si trasforma in uno status di pseudo datore di lavoro, a sua volta distanziato dal popolo.
La seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono sentinelle che vigilano dal loro posto di osservazione. Anche i sindacati devono sorvegliare le mura della città del lavoro, come una guardia che sorveglia e protegge quanti sono dentro la città del lavoro, ma che sorveglia e protegge anche quelli che stanno fuori dalle mura. I sindacati non svolgono la loro funzione fondamentale d’innovazione sociale se tutelano solo i pensionati. Questo va fatto, ma è la metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche di proteggere quanti ancora non hanno diritti, quanti sono esclusi dal lavoro e che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia
[6].
Stimati partecipanti ai processi tripartiti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e di questa Conferenza Internazionale del Lavoro, la Chiesa vi sostiene, cammina al vostro fianco. La Chiesa mette a disposizione le sue risorse, a cominciare dalle sue risorse spirituali e dalla sua Dottrina Sociale. La pandemia ci ha insegnato che siamo tutti sulla stessa barca e che solo insieme potremo uscire dalla crisi.
Grazie.
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[1] Cfr. «Preparedness, prevention, and control of coronavirus disease (Covid-19) for refugees and migrants in non-camp settings», Interim Guidance, World Health Organization, 17 April 2020, https://www.who.int/publications -detail/preparedness-prevention-and-control-of-coronavirus disease-(covid-19)-for-refugees-and-migrants-in-non-camp-settings
[2] Cfr. Lettera Noi rendiamo grazie di Papa Leone XIII a Sua Maestà Guglielmo II, 14 marzo 1890, https://www.vatican.va/content/leo-xiii/it/letters/documents/hf_l-xiii_let_18900314_noirendiamo-grazie.html
[3] cfr. htts://www.wiego.org/sites/default/files/resources/file/Impact_on_livelihoods_Covid-19_final_EN_1. pdf
[4] Cfr. Care is work, work is care, Report of «The future of work, labour after Laudato si’ project», https://futureofwork-labourafterlaudatosi.net/
[5] Cfr. Papa Francesco, Ai partecipanti all’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, 5 novembre 2016, https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/november/documents/papa-francesco_20161105_movimenti-popolari.html
[6] Cfr. Alla Confederazione Iitaliana dei Sindacati dei Lavoratori (Cisl), 28 giugno 2017, https://www.vatican.va/content/francesco/en/speeches/2017/june/documents/papafrancesco_20170628_delegati-cisl.html
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da L'Osservatore Romano, Anno CLXI n. 135, giovedì 17 giugno 2021, p. 2-3.
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Cari fratelli e sorelle,
(…)Oggi vediamo che il mondo non è mai stato tanto ricco, eppure — nonostante tale abbondanza — la povertà e la disuguaglianza persistono e, cosa ancora peggiore, crescono. In questo tempo di opulenza, in cui dovrebbe essere possibile porre fine alla povertà, i poteri del pensiero unico non dicono nulla dei poveri, e neppure degli anziani, degli immigranti, dei nascituri, dei malati gravi. Invisibili per la maggior parte della gente, sono trattati come “scartabili”. E quando li si rende visibili, si è soliti presentarli come un peso indegno per l’erario pubblico. È un crimine di lesa umanità il fatto che, a causa di questo paradigma avaro ed egoista predominante, i nostri giovani siano sfruttati dalla nuova crescente schiavitù del traffico di persone, specialmente nel lavoro forzato, nella prostituzione e nella vendita di organi.
Tenuto conto delle enormi risorse disponibili di denaro, ricchezza e tecnologia su cui contiamo, il nostro bisogno più grande non è né continuare ad accumulare né una maggiore ricchezza e più tecnologia, ma mettere in atto il paradigma sempre nuovo e rivoluzionario delle beatitudini di Gesù, a cominciare dalla prima che voi state considerando con tanta attenzione: “Beati (μακάριοι) i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3). Paradossalmente lo spirito di povertà è quel punto di svolta che ci apre il cammino verso la felicità mediante un ribaltamento completo di paradigma. Questo, mentre ci spoglia dello spirito mondano, ci porta a usare le nostre ricchezze e tecnologie, beni e talenti a favore dello sviluppo umano integrale, del bene comune, della giustizia sociale e della cura e protezione della nostra Casa Comune. Il paradosso della povertà di spirito, alla quale siamo chiamati, consiste nel fatto che, pur essendo la chiave della felicità per tutti, — a livello sia individuale sia sociale —, non tutti vogliono ascoltarla: «Quant’è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!» (Lc 18, 24).
La povertà di spirito è allora questa via sorprendente e insolita, “stretta e angusta” (Mt 7, 14), ma sicura per raggiungere la pienezza alla quale come persone e come società siamo chiamati. Ma attenzione, Gesù non dice che sia una benedizione la povertà “materiale”, intesa come privazione del necessario per vivere dignitosamente: cibo, lavoro, casa, salute, vestiti, educazione opportunità, etc. Questa povertà è causata, la maggior parte delle volte, dall’ingiustizia e dall’avarizia, e non tanto dalle forze della natura (riscaldamento globale, calamità, pandemie, terremoti, inondazioni, tsunami, etc.), in alcune delle quali, tra l’altro, spesso si avverte anche la manipolazione umana. La povertà come privazione del necessario — ossia la miseria — è socialmente, come hanno visto chiaramente L. Bloy e Péguy, una specie d’inferno, perché indebolisce la libertà umana e pone quanti soffrono nella condizione di essere vittime delle nuove schiavitù (lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi e altre ancora) per poter sopravvivere. Sono condizioni criminali che, in stretta giustizia, devono essere denunciate e combattute costantemente. Tutti, secondo la propria responsabilità, e in particolare i governi, le imprese multinazionali e nazionali, la società civile e le comunità religiose, devono farlo. Sono le peggiori degradazioni della dignità umana e, per un cristiano, le piaghe aperte del corpo di Cristo che dalla croce grida: ho sete. «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio», come afferma san Luca (6, 20) è un appello alla libertà che dà la priorità alla necessità di soccorrere il malato e il povero con cibo, salute, rifugio, vestiti e altri bisogni primari. Inoltre Gesù annuncia che nel giudizio finale si valuteranno tutte le persone, le famiglie, le associazioni, come anche tutti i popoli, secondo il protocollo di aiuto ai fratelli bisognosi: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
I poveri in spirito sono ricchi di questo “istinto” dello Spirito Santo, sono ricchi di fraternità e desiderosi di amicizia sociale. Così lo testimonia il giovane Francesco d’Assisi, figlio di un ricco commerciante che, agli albori dell’era industriale, del capitalismo e della banca, abbandona le ricchezze e gli agi per farsi povero tra i poveri, rendendo testimonianza di questa beatitudine con il cosiddetto sposalizio con madonna povertà. Mosso dallo spirito di povertà, avverte nella sofferenza del lebbroso che la vera ricchezza e la gioia non sono le cose, il possedere, il paradigma mondano, ma l’amore per Cristo e il servizio solidale agli altri. In un senso pienamente serio ed entusiasta — afferma Chesterton — san Francesco poteva dire: «Beato chi nulla ha né spera perché possiederà tutto e di tutto godrà» [2]. Parimenti, colpita dalla sofferenza delle moltitudine dei poveri del nostro tempo che considerava come suoi, la misericordia è stata per madre Teresa di Calcutta l’acqua viva e il pane vivo che davano bellezza a ogni sua opera, e l’energia che saziava e alimentava quanti non avevano altro che «fame e sede di giustizia». Allo stesso modo, molti uomini e donne dalla fede viva — e non solo — hanno ricevuto grazie dai poveri, perché in ogni fratello e sorella in difficoltà abbracciamo la carne di Cristo sofferente.
Oltre all’aumento massiccio della povertà, l’altra conseguenza del paradigma materialista predominante è il crescente incremento della crepa delle disuguaglianze, il che causa il malessere sociale e generalizza il conflitto, non solo mettendo in pericolo la democrazia, ma anche indebolendo il necessario bene sociale. Questo tragico e sistemico aumento delle disuguaglianze tra gruppi sociali all’interno di uno stesso Paese e tra le popolazioni dei diversi Paesi ha un impatto negativo anche sul piano economico, politico, culturale e persino spirituale. E ciò a causa del progressivo logorio dell’insieme dei rapporti di fratellanza, amicizia sociale, concordia, fiducia, affidabilità e rispetto, che sono l’anima di ogni convivenza civile. Naturalmente, l’avarizia che muove il sistema ha già messo da parte, da molto tempo, la principale conseguenza economico-sociale e politica dello «spirito di povertà», quella che esige la giustizia sociale e la corresponsabilità nella gestione dei bene e dei frutti del lavoro degli esseri umani. «Sono forse il guardiano di mio fratello?» ( Gn 4, 9). Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che: «Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l’originaria donazione della terra all’insieme dell’umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio» [3]. E poco dopo aggiunge: «I beni di produzione — materiali o immateriali —, come terreni o stabilimenti, competenze o arti, esigono le cure di chi li possiede, perché la loro fecondità vada a vantaggio del maggior numero di persone» [4]. Pertanto i possessori di beni devono usarli con spirito di povertà, riservando la parte migliore all’ospite, al malato, al povero, all’anziano, all’invalido, all’escluso; che sono il volto, spesso dimenticato, di Gesù, che è colui che cerchiamo quando cerchiamo il bene comune. Lo sviluppo di una società si misura in base alla sua capacità di soccorrere premurosamente chi soffre.
Roma, San Giovanni in Laterano, 2 ottobre 2021.
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Desidero plaudire allo spazio di dialogo che si sono proposti la Fondazione Idea e l’Unione dei lavoratori dell’economia popolare. Desidero di cuore che sia un momento di autentico scambio che possa raccogliere il contributo innovativo degli imprenditori e dei lavoratori che lottano per la loro dignità e per le loro famiglie.
Varie volte ho fatto riferimento alla nobile vocazione dell’imprenditore che cerca con creatività di produrre ricchezza e di diversificare la produzione, rendendo possibile al tempo stesso la creazione di posti di lavoro.
Perché non mi stancherò mai di parlare della dignità del lavoro. Ciò che dà dignità è il lavoro. Chi non ha lavoro sente che gli manca qualcosa, gli manca quella dignità che dà proprio il lavoro, che unge di dignità.
Alcuni mi hanno fatto dire cose che non sostengo: che propongo una vita senza fatica, o che disprezzo la cultura del lavoro. Immaginatevi se si può dire questo di un discendente di piemontesi, che non sono venuti nel nostro paese con la voglia di essere mantenuti, ma con un enorme desiderio di rimboccarsi le maniche per costruire un futuro per le loro famiglie. È curioso, i migranti non mettevano i soldi in banca, ma in mattoni e terreno. La casa prima di tutto. Guardavano avanti verso la famiglia. Investimento di famiglia.
Il lavoro esprime e alimenta la dignità dell’essere umano, gli consente di sviluppare le capacità che Dio gli ha donato, lo aiuta a tessere relazioni di scambio e di aiuto reciproco, gli permette di sentirsi collaboratore di Dio per prendersi cura di questo mondo e svilupparlo, lo fa sentire utile alla società e solidale con le persone a lui care. Per questo il lavoro, al di là delle fatiche e delle difficoltà, è il cammino di maturazione, di realizzazione della persona, che mette le ali ai sogni migliori.
Per questo motivo, risulta chiaro che i sussidi possono essere solo un aiuto provvisorio. Non si può vivere di sussidi, perché il grande obiettivo è offrire fonti di lavoro diversificate che consentano a tutti di costruire il futuro con la fatica e l’ingegno. Proprio perché diversificate, aprono il cammino affinché le diverse persone trovino il contesto più adeguato a sviluppare i propri doni, poiché non tutti hanno le stesse capacità e inclinazioni. (…)
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Sorelle, fratelli, cari poeti sociali!
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Ai governi in generale, ai politici di tutti i partiti, voglio chiedere, insieme ai poveri della terra, di rappresentare i propri popoli e di lavorare per il bene comune. Voglio chiedere loro il coraggio di guardare ai propri popoli, di guardare negli occhi la gente, e il coraggio di sapere che il bene di un popolo è molto più di un consenso tra le parti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 218). Si guardino dall’ascoltare soltanto le élite economiche tanto spesso portavoce di ideologie superficiali che eludono le vere questioni dell’umanità. Siano al servizio dei popoli che chiedono terra, casa, lavoro e una vita buona. Quel “buon vivere” aborigeno che non è la “dolce vita” o il “dolce far niente”, no. Quel buon vivere umano che ci mette in armonia con tutta l’umanità, con tutto il creato.
Voglio chiedere anche a noi tutti, leader religiosi, di non usare mai il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato. Stiamo accanto ai popoli, ai lavoratori, agli umili e lottiamo insieme a loro affinché lo sviluppo umano integrale sia una realtà. Gettiamo ponti di amore perché la voce della periferia, con il suo pianto, ma anche con il suo canto e la sua gioia, non provochi paura ma empatia nel resto della società.
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4. Tempo di agire
Spesso mi dicono: “Padre, siamo d’accordo, ma in concreto, che dobbiamo fare?”. Io non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme. Tuttavia, ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche cambiamento significativo. Sono misure che si trovano nei vostri documenti, nei vostri interventi, e di cui ho tenuto molto conto, sulle quali ho meditato e ho consultato esperti. In incontri passati abbiamo parlato dell’integrazione urbana, dell’agricoltura familiare, dell’economia popolare. A queste, che ancora richiedono di continuare a lavorare insieme per concretizzarle, mi piacerebbe aggiungerne altre due: il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa.
Un reddito minino (l’RMU) o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita. È giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media – generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più –. Non dimentichiamo che le grandi fortune di oggi sono frutto del lavoro, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica di migliaia di uomini e donne nel corso di generazioni.
La riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità. Il reddito minimo è una possibilità, l’altra è la riduzione della giornata lavorativa. E occorre analizzarla seriamente. Nel XIX secolo gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di otto ore non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro.
Ritengo che siano misure necessarie, ma naturalmente non sufficienti. Non risolvono il problema di fondo, e non garantiscono neppure l’accesso alla terra, alla casa e al lavoro nella quantità e qualità che i contadini senza terra, le famiglie senza una casa sicura e i lavoratori precari meritano. Non risolveranno nemmeno le enormi sfide ambientali che abbiamo davanti. Ma ho voluto menzionarle perché sono misure possibili e segnerebbero un positivo cambiamento di direzione.
È bene sapere che in questo non siamo soli. Le Nazioni Unite hanno cercato di stabilire alcune mete attraverso i cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), ma purtroppo non conosciute dai nostri popoli e dalle periferie; e questo ci ricorda l’importanza di condividere e di coinvolgere tutti in questa ricerca comune.
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Cari fratelli e sorelle, saluto cordialmente tutti voi che partecipate alla 49ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si apre oggi a Taranto. In queste giornate rifletterete su un tema molto importante che riguarda il futuro nostro e delle generazioni future: “Il Pianeta che speriamo”. Questo Pianeta che speriamo esige soprattutto una conversione che apra alla speranza. Il Pianeta che speriamo chiede, al tempo stesso, audacia e voglia di riscatto. Il Pianeta che speriamo grida già sin d’ora stili di vita rinnovati, in cui ambiente, lavoro e futuro non siano in contrapposizione tra loro, ma in piena armonia. Non bisogna mai dimenticare che tutto è connesso. Un pensiero particolare e un incoraggiamento vorrei rivolgere ai giovani, che so essere ben rappresentati a questo evento: insegnateci a custodire il creato! Siete il presente, siete l’oggi del Pianeta, non sentitevi mai ai margini dei progetti o delle riflessioni. I vostri sogni devono essere i sogni di tutti, e sull’ambiente avete tanto da insegnare. Permettetemi una carezza a tutte le mamme e a tutti i papà di Taranto che hanno pianto o piangono per la morte e la sofferenza dei propri figli. Vi abbraccio e vi assicuro la mia preghiera. E pregate per me, io lo farò per voi. Che il Signore vi benedica!
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OMELIE
OMELIA
Basilica di San Pietro - Altare della Cattedra
Sabato Santo, 3 aprile 2021
(…) Ecco il secondo annuncio di Pasqua: la fede non è un repertorio del passato, Gesù non è un personaggio superato. Egli è vivo, qui e ora. Cammina con te ogni giorno, nella situazione che stai vivendo, nella prova che stai attraversando, nei sogni che ti porti dentro. Apre vie nuove dove ti sembra che non ci siano, ti spinge ad andare controcorrente rispetto al rimpianto e al “già visto”. Anche se tutto ti sembra perduto, per favore apriti con stupore alla sua novità: ti sorprenderà.
Andare in Galilea significa, inoltre, andare ai confini. Perché la Galilea è il luogo più distante: in quella regione composita e variegata abitano quanti sono più lontani dalla purezza rituale di Gerusalemme. Eppure Gesù ha iniziato da lì la sua missione, rivolgendo l’annuncio a chi porta avanti con fatica la vita quotidiana, rivolgendo l’annuncio agli esclusi, ai fragili, ai poveri, per essere volto e presenza di Dio, che va a cercare senza stancarsi chi è scoraggiato o perduto, che si muove fino ai confini dell’esistenza perché ai suoi occhi nessuno è ultimo, nessuno escluso. Lì il Risorto chiede ai suoi di andare, anche oggi ci chiede di andare in Galilea, in questa “Galilea” reale. È il luogo della vita quotidiana, sono le strade che percorriamo ogni giorno, sono gli angoli delle nostre città in cui il Signore ci precede e si rende presente, proprio nella vita di chi ci passa accanto e condivide con noi il tempo, la casa, il lavoro, le fatiche e le speranze. In Galilea impariamo che possiamo trovare il Risorto nel volto dei fratelli, nell’entusiasmo di chi sogna e nella rassegnazione di chi è scoraggiato, nei sorrisi di chi gioisce e nelle lacrime di chi soffre, soprattutto nei poveri e in chi è messo ai margini. Ci stupiremo di come la grandezza di Dio si svela nella piccolezza, di come la sua bellezza splende nei semplici e nei poveri.
Ecco, allora, il terzo annuncio di Pasqua: Gesù, il Risorto, ci ama senza confini e visita ogni nostra situazione di vita. Egli ha piantato la sua presenza nel cuore del mondo e invita anche noi a superare le barriere, vincere i pregiudizi, avvicinare chi ci sta accanto ogni giorno, per riscoprire la grazia della quotidianità. Riconosciamolo presente nelle nostre Galilee, nella vita di tutti i giorni. Con Lui, la vita cambierà. Perché oltre tutte le sconfitte, il male e la violenza, oltre ogni sofferenza e oltre la morte, il Risorto vive e il Risorto conduce la storia. (…)
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Prima di concludere questa celebrazione vorrei dare il benvenuto al nuovo arciprete il Cardinale fra Mauro Gambetti, Grazie per la sua disponibilità, fratello! Gli auguro il meglio nel servizio di questa chiesa così importante per tutti i cristiani. E vorrei ringraziare anche il Cardinale Angelo Comastri che dopo 16 anni di arciprete e alla soglia dei 78 anni, lascia l’incarico. Grazie tante Cardinale Comastri, grazie per la sua pastorale, per la sua spiritualità, per le sue prediche, per la sua misericordia. Il Signore retribuisca tutto il suo lavoro. E vorrei ringraziare tutti voi che avete lavorato perché le celebrazioni di questa Settimana Santa fossero degne, belle, tutti, tutti! Ringrazio tutti coloro che lavorano qui in San Pietro, il coro, i ministranti, i lettori, i diaconi… Tutti! Grazie tante.
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(…) Io mi domando: come funziona la nostra memoria? Semplificando, potremmo dire che noi ricordiamo qualcuno o qualcosa quando ci tocca il cuore, quando ci lega a un particolare affetto o a una mancanza di affetto. Ebbene, il Cuore di Gesù guarisce la nostra memoria perché la riporta all’affetto fondante. La radica sulla base più solida. Ci ricorda che, qualunque cosa ci capiti nella vita, siamo amati. Sì, siamo esseri amati, figli che il Padre ama sempre e comunque, fratelli per i quali il Cuore di Cristo palpita. Ogni volta che scrutiamo quel Cuore ci scopriamo «radicati e fondati nella carità», come ha detto l’Apostolo Paolo nella prima Lettura di oggi (Ef 3,17).
Coltiviamo questa memoria, che si rafforza quando stiamo a tu per tu con il Signore, soprattutto quando ci lasciamo guardare e amare da Lui nell’adorazione. Ma possiamo coltivare anche tra di noi l’arte del ricordo, facendo tesoro dei volti che incontriamo. Penso alle giornate faticose in ospedale, in università, al lavoro. Rischiamo che tutto passi senza lasciare traccia o che restino addosso solo tanta fatica e stanchezza. Ci fa bene, alla sera, passare in rassegna i volti che abbiamo incontrato, i sorrisi ricevuti, le parole buone. Sono ricordi di amore e aiutano la nostra memoria a ritrovare sé stessa: che la nostra memoria ritrovi sé stessa. Quanto sono importanti questi ricordi negli ospedali! Possono dare il senso alla giornata di un ammalato. Una parola fraterna, un sorriso, una carezza sul viso: sono ricordi che risanano dentro, fanno bene al cuore. Non dimentichiamo la terapia del ricordo: fa tanto bene! (…)
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Di recente mi è tornato in mente quel che ripeteva un Vescovo vicino ai poveri, e povero di spirito lui stesso, don Tonino Bello: «Non possiamo limitarci a sperare, dobbiamo organizzare la speranza». Se la nostra speranza non si traduce in scelte e gesti concreti di attenzione, giustizia, solidarietà, cura della casa comune, le sofferenze dei poveri non potranno essere sollevate, l’economia dello scarto che li costringe a vivere ai margini non potrà essere convertita, le loro attese non potranno rifiorire. A noi, specialmente a noi cristiani, tocca organizzare la speranza – bella questa espressione di Tonino Bello: organizzare la speranza –, tradurla in vita concreta ogni giorno, nei rapporti umani, nell’impegno sociale e politico. A me fa pensare il lavoro che fanno tanti cristiani con le opere di carità, il lavoro dell’Elemosineria apostolica… Che cosa si fa lì? Si organizza la speranza. Non si dà una moneta, no, si organizza la speranza. Questa è una dinamica che oggi ci chiede la Chiesa.
C’è un’immagine della speranza che Gesù ci offre oggi. È semplice e indicativa al tempo stesso: è l’immagine delle foglie dell’albero di fico, che spuntano senza far rumore, segnalando che l’estate è vicina. E queste foglie appaiono, sottolinea Gesù, quando il ramo diventa tenero (cfr Mc 13,28). Fratelli, sorelle, ecco la parola che fa germogliare la speranza nel mondo e solleva il dolore dei poveri: la tenerezza. Compassione che ti porta alla tenerezza. Sta a noi superare la chiusura, la rigidità interiore, che è la tentazione di oggi, dei “restaurazionisti” che vogliono una Chiesa tutta ordinata, tutta rigida: questo non è dello Spirito Santo. E noi dobbiamo superare questo, e far germogliare in questa rigidità la speranza. E sta a noi anche superare la tentazione di occuparci solo dei nostri problemi, per intenerirci dinanzi ai drammi del mondo, per compatire il dolore. Come le foglie dell’albero, siamo chiamati ad assorbire l’inquinamento che ci circonda e a trasformarlo in bene: non serve parlare dei problemi, polemizzare, scandalizzarci – questo lo sappiamo fare tutti –; serve imitare le foglie, che senza dare nell’occhio ogni giorno trasformano l’aria sporca in aria pulita. Gesù ci vuole “convertitori di bene”: persone che, immerse nell’aria pesante che tutti respirano, rispondono al male con il bene (cfr Rm 12,21). Persone che agiscono: spezzano il pane con gli affamati, operano per la giustizia, rialzano i poveri e li restituiscono alla loro dignità, come ha fatto quel samaritano.
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(…)
Ecco che cosa chiedere a Gesù per Natale: la grazia della piccolezza. “Signore, insegnaci ad amare la piccolezza. Aiutaci a capire che è la via per la vera grandezza”. Ma che cosa vuol dire, concretamente, accogliere la piccolezza? Per prima cosa vuol dire credere che Dio vuole venire nelle piccole cose della nostra vita, vuole abitare le realtà quotidiane, i semplici gesti che compiamo a casa, in famiglia, a scuola, al lavoro. È nel nostro vissuto ordinario che vuole realizzare cose straordinarie. Ed è un messaggio di grande speranza: Gesù ci invita a valorizzare e riscoprire le piccole cose della vita. Se Lui è con noi lì, che cosa ci manca? Lasciamoci allora alle spalle i rimpianti per la grandezza che non abbiamo. Rinunciamo alle lamentele e ai musi lunghi, all’avidità che lascia insoddisfatti! La piccolezza, lo stupore di quel bambino piccolo: questo è il messaggio. (…)
Guardiamo ancora una volta al presepe e vediamo che Gesù alla nascita è circondato proprio dai piccoli, dai poveri. Sono i pastori. Erano i più semplici e sono stati i più vicini al Signore. Lo hanno trovato perché, «pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8). Stavano lì per lavorare, perché erano poveri e la loro vita non aveva orari, ma dipendeva dal gregge. Non potevano vivere come e dove volevano, ma si regolavano in base alle esigenze delle pecore che accudivano. E Gesù nasce lì, vicino a loro, vicino ai dimenticati delle periferie. Viene dove la dignità dell’uomo è messa alla prova. Viene a nobilitare gli esclusi e si rivela anzitutto a loro: non a personaggi colti e importanti, ma a gente povera che lavorava. Dio stanotte viene a colmare di dignità la durezza del lavoro. Ci ricorda quanto è importante dare dignità all’uomo con il lavoro, ma anche dare dignità al lavoro dell’uomo, perché l’uomo è signore e non schiavo del lavoro. Nel giorno della Vita ripetiamo: basta morti sul lavoro! E impegniamoci per questo.
Guardiamo un’ultima volta al presepe, allargando lo sguardo fino ai suoi confini, dove si intravedono i magi, in pellegrinaggio per adorare il Signore. Guardiamo e capiamo che attorno a Gesù tutto si ricompone in unità: non ci sono solo gli ultimi, i pastori, ma anche i dotti e i ricchi, i magi. A Betlemme stanno insieme poveri e ricchi, chi adora come i magi e chi lavora come i pastori. Tutto si ricompone quando al centro c’è Gesù: non le nostre idee su Gesù, ma Lui, il Vivente. Allora, cari fratelli e sorelle, torniamo a Betlemme, torniamo alle origini: all’essenzialità della fede, al primo amore, all’adorazione e alla carità. Guardiamo i magi che peregrinano e come Chiesa sinodale, in cammino, andiamo a Betlemme, dove c’è Dio nell’uomo e l’uomo in Dio; dove il Signore è al primo posto e viene adorato; dove gli ultimi occupano il posto più vicino a Lui; dove pastori e magi stanno insieme in una fraternità più forte di ogni classificazione. Dio ci conceda di essere una Chiesa adoratrice, povera, fraterna. Questo è l’essenziale. Torniamo a Betlemme.
Ci fa bene andare lì, docili al Vangelo di Natale, che presenta la Santa Famiglia, i pastori e i magi: tutta gente in cammino. Fratelli e sorelle, mettiamoci in cammino, perché la vita è un pellegrinaggio. Alziamoci, ridestiamoci perché stanotte una luce si è accesa. È una luce gentile e ci ricorda che nella nostra piccolezza siamo figli amati, figli della luce (cfr 1 Ts 5,5). Fratelli e sorelle, gioiamo insieme, perché nessuno spegnerà mai questa luce, la luce di Gesù, che da stanotte brilla nel mondo.
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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica di San Pietro
Venerdì, 31 dicembre 2021
(…)
Roma, questa vocazione, la porta scritta nel cuore. A Roma sembra che tutti si sentano fratelli; in un certo senso, tutti si sentono a casa, perché questa città custodisce in sé un’apertura universale. Oso dire: è la città universale. Le viene dalla sua storia, dalla sua cultura; le viene principalmente dal Vangelo di Cristo, che qui ha messo radici profonde fecondate dal sangue dei martiri, cominciando da Pietro e Paolo.
Ma anche in questo caso, stiamo attenti: una città accogliente e fraterna non si riconosce dalla “facciata”, dalle parole, dagli eventi altisonanti. No. Si riconosce dall’attenzione quotidiana, dall’attenzione “feriale” a chi fa più fatica, alle famiglie che sentono di più il peso della crisi, alle persone con disabilità gravi e ai loro familiari, a quanti hanno necessità ogni giorno dei trasporti pubblici per andare al lavoro, a quanti vivono nelle periferie, a coloro che sono stati travolti da qualche fallimento nella loro vita e hanno bisogno dei servizi sociali, e così via. È la città che guarda a ognuno dei suoi figli, a ognuno dei suoi abitanti, anzi, a ognuno dei suoi ospiti.
Roma è una città meravigliosa, che non finisce di incantare; ma per chi ci vive è anche una città faticosa, purtroppo non sempre dignitosa per i cittadini e per gli ospiti, una città che a volte sembra scartare. L’auspicio allora è che tutti, chi vi abita e chi vi soggiorna per lavoro, pellegrinaggio o turismo, tutti possano apprezzarla sempre più per la cura dell’accoglienza, della dignità della vita, della casa comune, dei più fragili e vulnerabili. Che ognuno possa stupirsi scoprendo in questa città una bellezza che direi “coerente”, e che suscita gratitudine. Questo è il mio augurio per quest’anno.
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